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La signora di Wildfell Hall
La signora di Wildfell Hall
La signora di Wildfell Hall
E-book567 pagine8 ore

La signora di Wildfell Hall

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Info su questo ebook

Traduzione di Martina Rinaldi
Edizione integrale

L’arrivo della vedova Graham nell’isolata e cadente dimora di famiglia, sperduta nella campagna inglese, è un evento per la piccola comunità di Wildfell Hall. Avvenente e ritrosa, la donna ha deciso di mantenere il massimo riserbo sul proprio conto, dedicandosi solo alla pittura e alle cure del piccolo figlio Arthur. Il suo atteggiamento dimesso, però, altro non fa che dare la stura a pettegolezzi e dicerie, e persino Gilbert Markahm, il giovane gentiluomo di provincia che dà la voce al romanzo, finisce per prestare credito alle malevole voci su di lei e rinuncia alla sua amicizia. Quali tremendi segreti nasconde Helen Graham? Direttamente dalle pagine del suo diario apprendiamo la sua travagliata e torbida storia: una storia che fa di lei un esempio di coraggio e determinazione, una vera e propria femminista ante litteram, un modello di forza d’animo e di indipendenza, ancor più rivoluzionario nel 1848, anno in cui fu pubblicato il romanzo, ma di grande attualità anche oggi.
Anne Brontë
(1820-1849), sorella minore di Charlotte ed Emily, visse fino a diciannove anni nella campagna inglese dello Yorkshire, insieme al padre, un umile pastore di origini irlandesi, e al resto della famiglia. Impiegatasi poi come governante, lasciò presto la professione per coltivare le proprie ambizioni letterarie, che furono tuttavia stroncate dalla tubercolosi, malattia che portò Anne a una morte precoce nel 1849. Oltre a La signora di Wildfell Hall fu autrice di un volume di poesie, scritte insieme alle sorelle, e del romanzo Agnes Grey.
LinguaItaliano
Data di uscita16 giu 2016
ISBN9788854196414
La signora di Wildfell Hall
Autore

Anne Bronte

Anne Brontë (1820–1849) hailed from an English literary family responsible for some of the medium’s most memorable works. She was the youngest of six children that included sisters, Charlotte and Emily. Their father was a clergyman, who raised them in a parish with very little money. As an adult, Anne took a position as a governess to financially support herself but found the position difficult and unfulfilling. In 1846, she and her sisters published a collection of poetry called Poems by Currer, Ellis, and Acton Bell, which marked a humble beginning to a short yet impactful career.

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    Anteprima del libro

    La signora di Wildfell Hall - Anne Bronte

    EC563

    Titolo originale: The Tenant of Wildfell Hall

    Traduzione di Martina Rinaldi

    Prima edizione ebook: giugno 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9641-4

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Anne Brontë

    La signora di Wildfell Hall

    Newton Compton editori

    A J. Halford, Esq.

    Caro Halford,

    l’ultima volta che ci siamo visti mi hai fornito un racconto molto dettagliato degli accadimenti più importanti della tua giovinezza prima che ci conoscessimo; poi mi hai chiesto di contraccambiare confidandoti qualcosa anche io. In quel momento non ero dell’umore giusto per mettermi a raccontare storie e ho preferito declinare l’invito con vaghe giustificazioni che tu non hai assolutamente accettato. Hai subito cambiato argomento, infatti, ma alla maniera di chi – pur senza dire una parola – si sente ferito. La tua espressione si è incupita fintanto che siamo rimasti insieme e, da quanto so, quella cupezza dura ancora: da allora le tue lettere mi sono parse caratterizzate da una certa freddezza e da un distacco quasi malinconico, che di certo mi avrebbero colpito se avessi pensato di meritarli.

    Ma non provi vergogna, amico mio, alla tua età, con la familiarità e la confidenza che abbiamo costruito negli anni e con la lealtà che ti ho dimostrato non prendendomela mai per il tuo troppo riserbo né per i tuoi silenzi? Certo, tu non sei particolarmente comunicativo per natura, e quel giorno avrai pensato di avermi dato una prova di amicizia e fiducia, cosa che di sicuro avrai giurato a te stesso di non fare mai più, tale da indurmi a ricambiare senza il minimo indugio.

    E quindi? Non ho iniziato a scriverti per rimproverarti, né per giustificarmi o scusarmi di averti offeso in passato, ma per rimediare se possibile ai miei errori.

    Oggi è umido e piove, la mia famiglia è fuori casa e sono in biblioteca da solo che rileggo vecchie lettere e scartoffie ammuffite e ripenso al passato; la disposizione d’animo giusta, quindi, per raccontarti una storia. Ho allontanato i miei piedi bruciacchiati dal caminetto per avvicinarmi alla scrivania e iniziare a delineare un quadro per il mio vecchio e bisbetico amico… o meglio una descrizione precisa e dettagliata della storia più importante della mia vita, perlomeno di quella parte della mia vita precedente all’incontro con Jack Halford; quando avrai finito di leggerla, dammi pure dell’ingrato e dello scorbutico se vuoi.

    So che preferisci le storie lunghe e che, come mia nonna, adori i particolari minuziosi. Non mi risparmierò, dandomi come soli limiti quello della pazienza e del tempo che ho a disposizione.

    Tra le varie lettere e scartoffie di cui sopra ho trovato anche un mio vecchio diario, e lo dico soprattutto perché tu sappia che non mi affido solo alla memoria, che pure non mi manca, in modo che nel seguire i dettagli di questo mio racconto la tua fiducia non sia messa troppo a dura prova. Ebbene, iniziamo il primo capitolo allora, dato che questa storia ne prevede molti.

    Capitolo 1

    Dovrai tornare con me fino all’autunno del 1827.

    Come sai mio padre era un gentiluomo di campagna nello ***shire e io, assecondando il suo desiderio, gli sono succeduto in quella calma attività, pur senza entusiasmo: avevo altre aspirazioni ed ero convinto che – ignorando la voce della presunzione – stessi sotterrando il mio talento e nascondendo la mia lampada dentro uno staio. Mia madre si era data molto da fare per persuadermi che fossi capace di grandi cose, ma per mio padre l’ambizione era la strada più breve per la rovina, il cambiamento sinonimo di sfacelo, e apportare qualche miglioramento alla mia vita o a quella degli altri mortali non era di suo interesse. Considerava tutto una sciocchezza, e fino all’ultimo respiro mi incoraggiò a seguire la sua strada, la stessa che era stata un tempo di suo padre, a tirar dritto senza mai guardare a destra né a sinistra, per poter un giorno lasciare ai miei figli quei terreni, nelle stesse condizioni floride di quelle in cui li avevo ricevuti.

    «Ebbene, uno dei membri più utili alla società è proprio un agricoltore onesto e industrioso; se impiego le mie capacità per migliorare l’agricoltura e coltivare i miei campi, renderò un servizio alla mia famiglia, certo, ma anche a tutta l’umanità. Non sarò vissuto invano, quindi».

    Così mi confortavo ritornando a casa stanco dalla campagna, una fredda sera di ottobre. Il fuoco rosso acceso che si vedeva dalla finestra del salotto seppe consolarmi e farmi pentire per le mie lamentele molto di più e più in fretta di tutte le riflessioni con cui avevo cercato di convincermi poco prima. Ero ancora giovane, avevo appena ventiquattro anni, e non possedevo ancora nemmeno la metà del controllo sullo spirito che, per quanto ancora irrilevante, esercito oggi.

    Comunque, prima di entrare in quell’oasi di pace dovevo togliermi gli stivali infangati e calzare un paio di scarpe pulite, e sostituire il giaccone pesante con qualcosa di più rispettabile. Mia madre era tanto buona quanto inflessibile su certe cose.

    Salendo in camera incontrai per le scale una esuberante e graziosa fanciulla di diciannove anni, fresca, ben proporzionata, con una cascata di lucidi ricci e occhi accesi. Avrai capito che era mia sorella Rose. Di sicuro è ancora oggi una bella donna, ai tuoi occhi attraente come la prima volta in cui l’hai vista. Allora non potevo sapere che di lì a qualche anno avrebbe sposato qualcuno che ancora non conoscevo e che sarebbe poi diventato un amico persino più intimo di quanto non fosse lei per me. Più intimo anche di quel tremendo ragazzino di diciassette anni che in corridoio mi saltò al collo facendomi quasi cadere e beccandosi, per contro, una scappellotto sulla testa, senza tuttavia riportare alcun danno serio: era una testa dura, la sua, e protetta da una fitta chioma di riccioli rossi, che mia madre definiva ramati.

    In salotto trovammo quell’elegante signora che lavorava a maglia accanto al camino, come faceva spesso quando non c’era altro di cui occuparsi. Aveva già pulito il focolare e acceso un bel fuoco per accoglierci, mentre la cameriera aveva appena portato il vassoio per il tè e Rose stava prendendo lo zucchero e il barattolo del tè dalla dispensa di rovere scuro, che splendeva come ebano nella luce calda e accogliente di quella stanza.

    «Ebbene! Eccoli qui tutti e due», disse mia madre alzando lo sguardo senza smettere di sferruzzare con i ferri luccicanti. «Chiudete bene la porta e avvicinatevi al fuoco mentre Rose prepara il tè… avrete fame. Raccontatemi cosa avete fatto oggi, sapete quanto mi piace sapere cosa combinano i miei figli tutto il giorno».

    «Io ho domato il puledro grigio, e non è stato facile, poi ho seguito l’aratura dell’ultima stoppia perché il ragazzo non ha il senso dell’orientamento, e ho progettato un sistema per drenare i pascoli più in basso».

    «Che bravo il mio ragazzo! E tu cosa hai fatto, Fergus?»

    «Ho dato la caccia al tasso».

    Poi iniziò a descrivere nel dettaglio quell’attività, raccontando di quanto fossero abili il tasso e i cani, mentre mia madre lo ascoltava con un’attenzione e una partecipazione che, stando alle smorfie sul suo volto, erano decisamente sproporzionate al caso.

    «Sarebbe ora che iniziassi a fare anche altro, Fergus», intervenni appena mi fu possibile intromettermi nel suo racconto.

    «E che altro posso fare?», disse. «Mamma non vuole che vada in mare o che faccia il militare, quindi ho deciso che voglio solo essere per tutti voi un tale impiccio che alla fine non vedrete l’ora di mandarmi via».

    Nostra madre lo accarezzò dolcemente sui ricci, lui si ritrasse brontolando e mettendo su il broncio. Rose ci aveva già chiamato tre volte quando infine ci alzammo per andare a tavola.

    «Adesso mangiate», disse mia sorella, «mentre vi racconto invece cosa ho fatto io. Sono andata a trovare i Wilson. Che peccato, che gran peccato, Gilbert, che non ci fossi anche tu, perché c’era Eliza Millward!».

    «E quindi?»

    «Niente! Dico solo che è simpatica e allegra, quand’è dell’umore giusto, e non mi dispiacerebbe se…».

    «Zitta, cara! Tuo fratello non ha di questi pensieri», la ammonì seria mia madre.

    «Comunque, oggi dai Wilson ho sentito di una cosa interessante che non vedevo l’ora di raccontarvi. Ricorderete che qualche tempo fa si diceva che qualcuno sarebbe venuto a vivere a Wildfell Hall? È successo davvero, qualcuno ci si è trasferito da oltre una settimana! E noi non lo sapevamo!».

    «Non è possibile!», esclamò mia madre.

    «Assurdo!», commentò Fergus.

    «Eppure è vero! È una signora da sola!».

    «Santo cielo, ma quella casa cade a pezzi!».

    «Vive in due o tre stanze che ha reso abitabili con un’anziana governante!».

    «Per la miseria, quindi non è una strega come avevo sperato», disse Fergus, servendosi una bella fetta di pane e burro.

    «Non dire sciocchezze, Fergus. Però, mamma, non è insolito?»

    «Insolito? Io quasi non riesco a crederci».

    «Però devi, perché Jane Wilson l’ha vista. È andata a farle visita insieme a sua madre che, saputo dell’arrivo di una forestiera, non si teneva più dalla voglia di conoscerla e apprendere quante più notizie possibile su di lei. La signora si chiama Graham, è in lutto, ma si tratta di un lutto leggero. È ancora giovane, pare, non più di venticinque, ventisei anni, ed è molto riservata. La signora Wilson, con le sue domande dirette e importune, e la signorina Wilson, tanto abile a destreggiarsi con le parole, non sono riuscite a scoprire chi sia né da dove venga né altro che la riguardi, neppure una parola buttata lì per caso, un’espressione fugace che potesse soddisfare la loro curiosità circa la sua storia e i suoi legami, niente di niente. A quanto pare la signora Graham è stata solo appena educata nei loro confronti, più contenta di licenziarle che di averle fatte accomodare. Eliza Millward dice che suo padre, comunque, ha intenzione di passare a trovarla per offrirle qualche consiglio pastorale dato che – sebbene si sappia che è arrivata già da una settimana – domenica in chiesa non si è fatta vedere. Ed Eliza spera di poterlo accompagnare ed è sicura di riuscire a tirarle fuori qualche notizia in più. È capace di tutto, sai, Gilbert? Ad ogni modo, per correttezza penso che dovremmo andare a farle visita, mamma».

    «Certo, cara. Deve sentirsi molto sola!».

    «Oh, vi prego, andateci al più presto e riferitemi quanto zucchero mette nel tè e quali cuffie e grembiuli indossa perché non so se riuscirò a sopravvivere senza saperlo», commentò Fergus.

    Se aveva sperato che le sue parole fossero accolte come una grande spiritosaggine rimase di certo deluso, poiché nessuno di noi rise.

    Tuttavia provvide da solo: preso un boccone di pane e burro, mentre stava per mandar giù un sorso di tè, l’ironia della sua stessa battuta lo raggiunse con tale forza che fu costretto ad alzarsi e di colpo e uscire di corsa dalla stanza, rischiando di strozzarsi. Dopo un po’ lo sentimmo in giardino che gridava in preda a una tremenda agonia.

    Per parte mia, ero affamato e mi contentai di mangiare pane e prosciutto mentre mia madre e mia sorella continuavano a discutere circa le ovvie o meno ovvie circostanze, i possibili o improbabili risvolti della storia di quella signora misteriosa. Devo riconoscere, però, che portandomi la tazza alle labbra un paio di volte dovetti desistere e poggiarla di nuovo sul tavolo per paura di scoppiare a ridere e trovarmi a far la figura indecorosa che era toccata a mio fratello.

    Il giorno dopo mia madre e mia sorella andarono di corsa a trovare l’affascinante reclusa, tornando con ben poche altre notizie. Mia madre non era comunque pentita della sua visita: non ne aveva ricavato nulla di positivo, ma era riuscita a darle qualche buon consiglio che sperava non rimanesse inascoltato. La signora Graham, per quanto riservata e testarda, non sembrava incapace di riflettere. Ciò nonostante mia madre si chiese come avesse vissuto fino ad allora, dato che si era rivelata piuttosto ignorante in merito a certe cose senza che ciò le procurasse il benché minimo imbarazzo.

    «Ad esempio su cosa, mamma?», chiesi io.

    «Questioni di economia domestica, piccoli segreti della cucina che tutte le donne dovrebbero sapere anche se poi non viene loro richiesto di metterli in pratica. Le ho passato molte buone ricette, sebbene credo non ne abbia compreso appieno il valore perché mi ha detto che non era il caso che mi disturbassi tanto, poiché lei conduce una vita talmente tranquilla e modesta che non le sarebbero mai servite. Non ha importanza, mia cara, le ho detto. Sono cose che una signora rispettabile deve sapere, e il fatto che ora lei sia sola non significa che lo resterà a lungo. È già stata sposata e probabilmente, anzi sicuramente, lo sarà di nuovo. Si sbaglia, signora, mi ha interrotto in tono brusco. Sono sicura che non mi sposerò mai più. Le ho risposto che ero certa di sapere il fatto mio».

    «Una giovane vedova romantica quindi», commentai. «Venuta qui a piangere in solitudine il suo caro estinto fino alla fine dei suoi giorni… ma non durerà a lungo».

    «Infatti, lo credo anche io», disse Rose. «Non mi è sembrata tanto disperata, a dire il vero. E poi è così graziosa, anzi proprio bella, direi. Devi vederla, Gilbert, a te piacerebbe moltissimo, sebbene non potresti scorgervi somiglianze con Eliza Millward».

    «Riesco a immaginare che vi siano visi più belli del suo, ma non più affascinanti. E riconosco che lei non sia il tipo di ragazza che ambisce alla perfezione, del resto sono anche certo che se fosse più perfetta sarebbe anche meno attraente».

    «Quindi preferisci i suoi difetti alle perfezioni altrui?»

    «Proprio così, esclusa mia madre».

    «Oh, Gilbert, caro, non diciamo sciocchezze! Non starai parlando sul serio», disse mia madre, alzandosi e lasciando la stanza con la scusa di doversi occupare di qualcosa e risparmiarsi la contraddizione che ancora mi tremava sulla lingua.

    A quel punto Rose mi raccontò altri particolari sulla signora Graham. Mi descrisse l’aspetto che aveva, le sue maniere, l’abbigliamento e il modo in cui era arredata la stanza in cui viveva, con molti più dettagli di quanti mi interessasse effettivamente conoscere. Tuttavia, non avendo ascoltato con molta attenzione, non sarei in grado, neanche volendo, di riferirti nulla di tutto ciò.

    Passò il sabato, e la domenica erano tutti lì a domandarsi se l’affascinante forestiera avrebbe seguito il consiglio del parroco e si sarebbe presentata in chiesa. Confesso che mi voltai anche io a guardare il banco della famiglia Wildfell, con cuscini e rivestimenti rossi e ormai sbiaditi e inutilizzati da anni, e quegli stemmi severi bordati di un nero scolorito che gettavano occhiate cupe e sinistre dalla parete accanto.

    Fu allora che vidi quella figura femminile vestita di nero, rivolta verso di me. Qualcosa in lei mi spinse a guardarla di nuovo. Aveva ricci lunghi, lucidi e neri lungo il viso, un’acconciatura fuori moda al tempo, per quanto gradevole. Una pelle chiara e luminosa. Non vidi gli occhi, però, nascosti dalle palpebre e da lunghe ciglia nere e rivolti verso il basso, sul libro di preghiere. Le sopracciglia erano ben disegnate e molto espressive, la fronte ampia e intellettuale, un naso perfettamente aquilino e lineamenti delicati, a parte una lieve infossatura sulle guance e sotto gli occhi e le labbra un po’ troppo sottili e strette, che tradivano un carattere non propriamente morbido. Meglio ammirarti da lontano, bella signora, che vivere al tuo fianco in casa tua, dissi tra me e me.

    In quel momento, per caso, sollevò lo sguardo e incontrò i miei occhi, che io decisi di non distogliere. Fu lei a tornare al suo libro con una fugace e vaga espressione di disprezzo, che trovai a dir poco arrogante.

    Deve essersi fatta l’idea che io sia un ragazzino insolente, pensai. Non ci metterò molto a farle cambiare idea, se dovessi decidere che ne vale la pena.

    Realizzai in quel momento quanto fossero sconvenienti simili pensieri in un luogo di culto, e che il mio comportamento era lungi dall’essere quello più opportuno. Prima di tornare a concentrarmi sulla funzione mi guardai attorno per capire se qualcuno mi avesse visto. Ma chi non stava seguendo il libro di preghiere era preso da quella signora misteriosa, e tra questi ultimi mia madre e mia sorella, la signora Wilson e sua figlia e persino Eliza Millward, che stava sbirciando con la coda dell’occhio l’oggetto di tanto interesse. Poi intercettò il mio sguardo, mi rivolse un sorriso malizioso e tornò ad abbassare gli occhi sul libro di preghiere, cercando di assumere un’aria più composta.

    Stavo di nuovo contravvenendo alle regole, come mi fece notare mio fratello con un’improvvisa gomitata sulle costole, alla quale lì per lì potei rispondere solo pestandogli il piede e rimandando la vera vendetta a quando fossimo usciti da lì.

    Prima di concludere questa lettera, Halford, ti racconterò qualcosa di Eliza Millward. Era la figlia del parroco, una ragazza molto attraente nei confronti della quale nutrivo un certo interesse. Lei ne era consapevole, sebbene non gliel’avessi mai dichiarato apertamente né avessi in programma di farlo giacché mia madre, la quale non riteneva ci fossero ragazze degne di me nel raggio di chilometri, non sopportava il pensiero che potessi legarmi a una creatura tanto banale che, oltre a svariate altre mancanze, non aveva un soldo. Eliza era snella e al tempo stesso morbida, aveva un viso minuto e tondo, come quello di mia sorella, e una carnagione simile alla sua, sebbene più delicata e meno rubizza, il naso all’insù e lineamenti leggermente irregolari. Complessivamente era più interessante che graziosa. Ma i suoi occhi… come dimenticarli. Erano la cosa più bella di lei, almeno da un punto di vista esteriore: lunghi e sottili e neri, o di un marrone molto scuro. Con un’espressione ogni volta diversa ma sempre in qualche modo – direi quasi diabolicamente – maliziosa e ammaliante o entrambe le cose insieme. Aveva una voce dolce, da bambina, e le movenze delicate e leggere di un gatto, sebbene i suoi modi fossero più simili a quelli di un micetto, audace e dispettoso in un dato momento e timido e ritroso subito dopo, a seconda del capriccio.

    Sua sorella Mary era molto più grande di lei, oltre che molto più alta e di aspetto più robusto: era una ragazza modesta, assennata, che aveva accudito con amore la madre durante la sua lunga malattia fino alla fine e, da allora, si occupava a tempo pieno della famiglia. Il padre la teneva in grande considerazione e cani, gatti, bambini e poveri la adoravano, mentre gli altri la ignoravano.

    Il reverendo Michael Millward era un uomo anziano, alto e robusto. Portava un cappello a tese larghe e aveva un viso largo e lineamenti marcati. Girava sempre con un bastone da passeggio, indossando pantaloni alla zuava, calze pesanti e ghette o – nelle occasioni speciali – calze di seta nera. Era una persona irremovibile, pieno di pregiudizi e abitudinario. Non sopportava opinioni diverse dalle sue e considerava chiunque non si trovasse d’accordo con lui un ignorante o uno stolto.

    Quand’ero più giovane nutrivo per lui un timore reverenziale che però già allora avevo superato, poiché se da una parte era tanto gentile, quasi paterno, nei confronti di chi si comportava bene, si dimostrava invece inflessibile e aspro con chi sbagliava e ci aveva spesso rimproverati severamente per i nostri piccoli peccati di gioventù. Inoltre tutte le volte che veniva in visita a casa nostra dovevamo alzarci in piedi e recitare le preghiere o cantare Come l’ape laboriosa o altri inni del genere o, ancora peggio, venivamo interrogati su quali fossero stati i punti più salienti del suo ultimo discorso, che non ci ricordavamo mai. Capitava anche che rimproverasse nostra madre di aver cresciuto i figli maschi con troppa indulgenza, ricordandole del vecchio Eli o di Davide e Assalonne, e facendola restare sempre molto male. Sebbene lei lo stimasse e tenesse sempre in grande considerazione i suoi sermoni, una volta la sentii dire: «Vorrei vedere lui, con un figlio maschio! Si renderebbe ben conto di cosa significa crescere due ragazzi, e non credo che continuerebbe a elargire consigli agli altri tanto facilmente».

    Il reverendo era particolarmente attento alla salute: si alzava presto, andava a passeggiare prima di colazione, voleva che i suoi vestiti fossero sempre caldi e ben asciutti, non iniziava mai un sermone senza aver prima mangiato un uovo crudo. Aveva una voce profonda, buoni polmoni e gusti particolari anche in fatto di cibo, sebbene fosse tutt’altro che astemio e la sua fosse una dieta molto speciale: detestava il tè e simili bevande, mentre apprezzava i liquori al malto, le uova con la pancetta, il prosciutto, il manzo essiccato e la carne piccante, cose che riusciva a digerire senza difficoltà e che consigliava a chiunque si trovasse in convalescenza. Se poi queste persone non ne ricavavano il beneficio previsto, le accusava di non aver perseverato abbastanza, se invece si lamentavano di averne cavato solo dei disturbi, le rassicurava dicendo loro che erano sintomi solo momentanei se non addirittura frutto della suggestione.

    Voglio aggiungere altre due parole su altre due delle persone che ho nominato prima di terminare questa lettera: la signora Wilson e sua figlia. La prima era vedova di un ricco agricoltore, una vecchia ficcanaso, meschina e chiacchierona su cui non vale la pena stare a perder troppo tempo. Aveva anche due figli maschi, Robert, un grezzo lavoratore dei campi, e Richard, un ragazzo riservato e grande studioso dei classici che con l’aiuto del parroco si preparava all’università per avviarsi alla carriera ecclesiastica.

    Poi c’era la sorella, Jane, una ragazza con qualche buona qualità e tantissima ambizione. Aveva studiato, per sua scelta, in collegio, ricevendo un’educazione superiore a chiunque altro nella sua famiglia. Conosceva le buone maniere e aveva quasi del tutto perso l’accento provinciale. Poteva vantarsi di aver ottenuto in fondo risultati migliori di quelli delle figlie del reverendo stesso. Era considerata anche graziosa. Io però non fui mai, neppure per un attimo, tra i suoi corteggiatori. Aveva circa ventisei anni, era alta, molto snella, con capelli di un rosso chiaro e acceso, né mogano né ramato, una pelle chiara e luminosa, la testa piccola, il collo esile, un bel mento rotondo e corto, labbra sottili e vermiglie, occhi marrone chiaro, rapidi e acuti ma privi di bellezza e di emozione. Contava, o avrebbe contato, molti ammiratori tra i giovani della sua classe sociale, che però respingeva puntualmente. Soltanto un gentiluomo avrebbe infatti potuto soddisfare la sua ambizione. C’era, in effetti, un gentiluomo sul cui cuore, nome e patrimonio si diceva avesse messo gli occhi, ed era il signor Lawrence, un giovane nobile che aveva vissuto a Wildfell Hall fino a quindici anni prima con la famiglia e si era poi trasferito in una proprietà più comoda e moderna non lontano da lì.

    A questo punto, caro Halford, ti saluto. Questa è la prima rata del mio debito con te. Fammi sapere se la cosa ti soddisfa, in modo che possa poi mandarti il resto con comodo; se invece preferisci tenermi come creditore e non riempirti il borsello di monete tanto ingombranti… dimmelo: saprò perdonare il tuo cattivo gusto e terrò per me il resto di questo prezioso tesoro.

    Tuo per sempre,

    Gilbert Markham

    Capitolo 2

    Apprendo con gioia, mio carissimo amico, che la nube di amarezza si è dissolta, sei tornato a considerarmi con benevolenza e desideri che continui la mia storia. Ebbene, ti accontento senza ulteriori indugi.

    Mi ero fermato, credo, a scriverti dell’ultima domenica di ottobre del 1827. Il martedì dopo uscii a caccia con il cane e il fucile nella riserva di Linden-Car, dove – non trovando selvaggina – presi a sparare ai falchi e alle cornacchie, sospettando peraltro che fosse colpa loro se non trovavo prede migliori. Mi lasciai dunque alle spalle gli angoli più frequentati, i boschi, i campi e i prati per risalire verso Wildfell, la collina più alta e selvaggia di tutta la zona, e notai pian piano le siepi e gli alberi diradarsi, lasciando spazio le prime ai muretti di pietra coperti da edere e muschi, e gli ultimi a larici, abeti o pruni isolati. I campi erano sempre più ghiaiosi e irregolari, decisamente inadatti alla coltivazione e utilizzati soprattutto come pascoli per le greggi e il bestiame: era un terreno infecondo e povero, si capiva dalle pietre grigiastre che spuntavano qua e là, sotto i muretti crescevano anche erica e mirtilli, a testimonianza del fatto che un tempo quella zona doveva essere ancor più incolta e selvaggia; mentre all’interno di alcuni recinti l’erba era soffocata da ambrosie e festuche. Ma non mi trovavo già più nella mia proprietà.

    Arrivato quasi in cima alla collina, a un paio di miglia da Linden-Car, ecco apparire Wildfell Hall, un’antica costruzione in pietra scura, di epoca elisabettiana, grande e d’aspetto pittoresco, per quanto immaginai dovesse essere invece fredda e tetra all’interno, data la posizione così esposta e isolata, gli spessi muri di pietra, le finestre piccole e gli sfiati rovinati dal tempo. A scudo delle piogge e dei venti c’era solo un gruppetto solitario di abeti scozzesi, piuttosto malridotti e dall’aria tetra e severa anch’essi. Dietro la casa, oltre una serie di campi inutilizzati, c’era la sommità brulla della collina, mentre sul davanti (all’interno di una recinzione in pietra accessibile attraverso un cancello di ferro i cui pilastri erano sormontati da due grandi sfere di granito grigio, uguali a quelle che si trovavano sul tetto e sui frontoni della villa) c’era un giardino, un tempo pieno di piante e fiori in grado di resistere a quel terreno e a quel clima, e di alberi e cespugli che il giardiniere potava cercando di dar loro una forma; ormai, trascurato da così tanto tempo, incolto, abbandonato alle erbe infestanti e ai capricci del tempo, si presentava in modo piuttosto insolito. Il ligustro che copriva le mura lungo il viale principale era avvizzito per due terzi, mentre il resto era cresciuto a dismisura; c’era un cigno di bosso accanto allo zerbino, che aveva perso ormai parte del collo e metà del corpo; l’alloro al centro del giardino, il guerriero e il leone accanto al cancello, avevano ormai assunto forme tanto assurde da non somigliare più a niente che fosse in cielo né in terra né in mare, eppure colpivano la mia giovane fantasia come forme sinistre che ben si accordavano alle storie di fantasmi che ci aveva raccontato la balia su quell’edificio infestato dagli spiriti e sulla famiglia che un tempo ci abitava.

    Avevo già preso un falco e due cornacchie quando arrivai vicino alla villa; a quel punto lasciai stare la caccia e presi a passeggiare lì intorno per dare un’occhiata e vedere che cambiamenti vi aveva apportato la nuova proprietaria. Non volevo avvicinarmi all’ingresso principale e mettermi a guardare dal cancello, quindi mi fermai lungo il muro esterno. Non vidi nulla di diverso, a parte in un’ala, in cui le finestre e il tetto erano stati riparati. Proprio da lì vidi levarsi un sottile filo di fumo.

    Me ne stavo così, appoggiato al fucile e perso a fantasticare sulle vecchie leggende e la nuova giovane reclusa, quando sentii un leggero rumore in giardino, poco oltre il muro. Mi voltai in quella direzione e scorsi una piccola mano poggiata sopra il muro, poi un’altra e infine una fronte bianca, occhi azzurri, morbidi riccioli castani, e l’inizio di un nasino perfetto.

    Quegli occhi non notarono me, ma si illuminarono alla vista di Sancho, il mio bel setter bianco e nero, che scorrazzava lì davanti con il naso a terra. Il bambino si sollevò ancora di più e chiamò forte il cane. L’animale, buono per natura, alzò il muso e scodinzolò, senza avvicinarsi. Il piccolo, avrà avuto cinque anni, si arrampicò e continuò a chiamarlo senza successo. Decise quindi, come Maometto, di andare lui alla montagna giacché la montagna non andava da lui. Stava cercando di scavalcare il muretto quando i rami di un vecchio ciliegio nodoso gli si impigliarono ai vestiti; finì per perdere l’equilibrio nel tentativo di liberarsi e, ritrovandosi appeso al ramo, si mise a piangere. Nel giro di un istante gettai il fucile da una parte e corsi a prenderlo in braccio.

    Gli asciugai le lacrime, gli dissi che andava tutto bene e per consolarlo feci avvicinare Sancho. Stava giusto tornando a sorridere accarezzando il cane, quando sentii il cancello scattare, poi un fruscio di vesti femminili ed ecco la signora Graham in persona che correva verso di me, con il collo scoperto e i ricci neri sciolti nel vento.

    «Datemi il bambino», sussurrò con una certa allarmante irruenza. Mi strappò il piccolo dalle braccia, come se potessi in qualche modo contagiarlo di chissà quale pericolosa malattia, e poi, stringendo con una mano quella del piccolo e tenendo l’altra sulla sua spalla, mi fissò con i suoi grandi e luminosi occhi neri, agitata e senza fiato.

    «Non stavo facendo niente di male, signora», le dissi indeciso se sentirmi più meravigliato o offeso dalle sue maniere. «Stava cadendo dal muretto e sono riuscito a prenderlo quand’era appeso a quel ramo, prima che si facesse male».

    «Mi scuso, signore», farfugliò lei, improvvisamente più calma. Sembrava aver ritrovato un po’ di senno e arrossì leggermente. «Non vi ho mai visto qui, e pensavo che…».

    Si abbassò a dare un bacio al bambino, passandogli con amore un braccio attorno al collo.

    «Credevate che volessi rapirlo?».

    Rise imbarazzata, accarezzando la testa del bimbo. «Ignoravo che stesse cercando di scavalcare il muretto. Ho il piacere di parlare con il signor Markham, giusto?», disse in tono brusco.

    Chinai leggermente il capo, e le domandai come facesse a saperlo.

    «È venuta a trovarmi vostra sorella qualche giorno fa, insieme con la signora Markham».

    «Ci somigliamo così tanto?», chiesi stupito e non troppo lusingato.

    «Sì, direi che c’è qualcosa negli occhi e nell’incarnato», commentò, studiandomi il viso. «E poi, mi pare di avervi visto anche in chiesa domenica».

    Le sorrisi. Qualcosa nel mio sorriso le era sicuramente sgradevole, perché la vidi assumere di nuovo quello sguardo freddo e altero che tanto mi aveva colpito in chiesa: così sprezzante, immediato e assoluto da sembrare naturale, cosa che trovavo ancor più provocatoria.

    «Vi saluto, signor Markham», concluse senza aggiungere nemmeno una parola né un altro sguardo prima di allontanarsi verso il giardino con il bambino. Io me ne tornai a casa nervoso e scontento. Non saprei spiegarti il perché, e non ci proverò.

    Mi fermai giusto il tempo per mettere a posto il fucile e la polvere da sparo e impartire un paio di ordini indispensabili a un contadino. Poi uscii di nuovo e andai a casa del reverendo, nella speranza che stare in compagnia di Eliza Millward e scambiare due parole con lei mi confortasse e mi aiutasse a tirarmi su.

    La trovai che ricamava, come al solito (non aveva ancora iniziato ad appassionarsi alle lane di Berlino), mentre sua sorella era accanto al camino che rammendava delle calze con il gatto in grembo.

    «Mary, Mary! Levale di mezzo!», disse Eliza agitata mentre stavo entrando.

    «Non ci penso neanche», rispose lei calma. Il mio arrivo troncò la discussione.

    «Che sfortuna, signor Markham!», disse la sorella piccola. «Papà è uscito adesso per andare in chiesa e non tornerà prima di un’ora».

    «Non importa: passerò un po’ di tempo con le sue figlie, se posso», risposi, portando una sedia vicino al fuoco e mettendomi a sedere pur senza essere stato invitato.

    «A patto che siate allegro e simpatico, noi non opporremo resistenza».

    «Niente patti, vi prego, sono venuto non per offrire intrattenimento ma per cercarne», risposi io.

    Pensai che fosse comunque opportuno impegnarmi almeno un po’ per rendere piacevole la mia visita: e bastò in effetti davvero molto poco giacché Eliza era più che mai allegra. Eravamo, insomma, ben contenti l’uno della presenza dell’altra, conversammo allegramente e animatamente, per quanto poco profondamente. Fu come fossimo da soli, in pratica, dato che sua sorella Mary rimase quasi sempre in silenzio, se non per correggere ogni tanto qualche parola di troppo o qualche eccesso di Eliza, e una volta per chiederle di raccogliere il cotone che le era caduto. Lo presi io da terra, com’era conveniente.

    «Grazie, signor Markham», mi disse mentre glielo passavo. «L’avrei raccolto da sola, ma non volevo disturbare il gatto».

    «Ma Mary, questa non è certo una giustificazione agli occhi del signor Markham», le disse Eliza. «Lui detesta i gatti, cordialmente, come anche le vecchie signore, oserei dire. Non è così, signor Markham?»

    «Trovo normale che il nostro poco amabile sesso abbia in antipatia queste creature, dal momento che voi signore le coprite di carezze», risposi.

    «Che Dio vi benedica, piccole care creature!», esclamò lei d’improvviso, girandosi a sbaciucchiare la bestiola della sorella.

    «Eliza, basta così adesso», le disse l’altra, allontanandola con una certa impazienza.

    Era il momento di tornare a casa: pure a passo svelto sarei comunque arrivato in ritardo per il tè, e mia madre era la precisione e la puntualità fatte persona.

    La mia graziosa amica non aveva affatto voglia di separarsi da me. Prima di congedarmi le strinsi piano una mano e lei mi contraccambiò con un sorriso dolcissimo e uno sguardo malizioso. Tornai a casa con il cuore pieno di soddisfazione per me stesso e di amore per Eliza.

    Capitolo 3

    Due giorni dopo la signora Graham venne a trovarci a Linden-Car, contro ogni previsione di Rose, che, sostenuta dai Wilson e dai Millward, era convinta che la misteriosa occupante di Wildfell Hall avrebbe ignorato le più comuni regole di buona educazione e non avrebbe mai ricambiato le visite. A quel punto, però, fu chiaro anche il motivo per cui non l’aveva fatto prima, anche se Rose non ne fu tanto soddisfatta. La signora Graham portò con sé suo figlio, e mia madre si meravigliò che il bambino avesse camminato tanto a lungo.

    «Sì, la strada è tanta per lui. Del resto se non l’avessi portato con me avrei dovuto rinunciare: non lo lascio mai da solo. Anzi, signora Markham, vi prego di voler porgere le mie scuse ai Millward e alla signora Wilson, giacché non credo che potrò allungarmi a far visita anche a loro prima che Arthur sia in grado di venire con me».

    «Eppure avete una governante: non potreste lasciarlo con lei?», chiese Rose.

    «Ha già molto altro da fare, è troppo vecchia poi per stare dietro a un bambino, e lui troppo scalmanato per restare con una donna anziana».

    «Per venire in chiesa però gliel’avete lasciato».

    «Sì, e non l’avrei fatto per nessun’altra ragione. Anzi, se in futuro non troverò la maniera di portarlo con me, penso proprio che me ne resterò a casa anch’io».

    «Ma è tanto monello?», domandò mia madre stupita.

    «No», disse lei, accarezzando i ricci del bambino seduto ai suoi piedi su un piccolo sgabello. «Ma è il mio unico tesoro e io la sua unica amica: non ci piace stare separati».

    «Mia cara, ma che esagerazione», commentò mia madre senza troppi complimenti. «Dovreste scoraggiare un attaccamento tanto forte, per evitare a vostro figlio la rovina e a voi una figuraccia».

    «La rovina! Ma, signora Markham?»

    «Esatto, così lo vizierete. Alla sua età non dovrebbe più stare così attaccato alle gonne della madre, dovrebbe anzi vergognarsene».

    «Signora Markham, vi prego di non parlare in questo modo, e soprattutto non davanti a lui. Sono sicura che mio figlio non si vergognerà mai di amare sua madre!», disse la signora Graham con tale impeto da farci sobbalzare tutti.

    Mia madre cercò di spiegarsi meglio per calmarla, ma lei fece capire chiaramente che era stato detto sin troppo e passò a un altro argomento.

    Lo dicevo io, pensai. La signora non ha affatto un temperamento mite, malgrado il volto dolce e pallido e la fronte alta su cui si legge chiaramente il segno del dolore e delle preoccupazioni.

    Me ne restai tutto il tempo in disparte a leggere un numero della Rivista dell’agricoltore seduto al tavolo. Era quel che stavo facendo quando era arrivata la nostra ospite e, per non esagerare con le cortesie, mi ero limitato a un cenno di saluto con il capo per poi riabbassare lo sguardo.

    Dopo un po’ sentii avvicinarmisi qualcuno con passo leggero ed esitante. Era il piccolo Arthur, inesorabilmente attratto da Sancho, accucciato ai miei piedi. Alzai lo sguardo e lo trovai fermo a un paio di metri da me che fissava il cane, intimidito non tanto da lui quanto dall’idea di doversi avvicinare al padrone. Con un po’ di incoraggiamento, venne avanti. Era un bambino timido, ma non introverso. Nel giro di un minuto era già sul tappeto abbracciato con Sancho, e dopo altri due minuti sulle mie ginocchia a guardare interessato i vari cavalli, buoi, maiali e modelli di fattorie sulla rivista che avevo davanti. Di tanto in tanto guardavo la madre, per capire come stava prendendo quell’amicizia appena nata, e capii da una certa inquietudine nei suoi occhi che la situazione la metteva a disagio.

    «Arthur, vieni qui, non disturbare il signor Markham, che stava leggendo», gli disse.

    «Non mi disturba affatto, signora Graham. Lasciatelo pure restare, io sono contento quanto lui», risposi. Malgrado questo, lei lo richiamò a sé con un gesto della mano e uno sguardo.

    «Dai mamma, voglio vedere queste figure, poi dopo te le racconto».

    «Vogliamo dare una piccola festa lunedì ٥ novembre», le disse mia madre. «Mi auguro che non rifiuterete l’invito, signora Graham. Naturalmente potete portare con voi il bambino, che sono certa si divertirà. Così avrete modo di scusarvi voi stessa con i Millward e i Wilson, che spero saranno tutti qui».

    «Vi ringrazio, ma non vado mai alle feste».

    «Sarà una cosa davvero molto intima, faremo presto e ci saranno solo persone che lei già conosce, a parte il signor Lawrence, il vostro padrone di casa».

    «Abbiamo già avuto qualche scambio. Per questa volta, comunque, dovrete scusarmi. Fa ancora buio molto presto e la stagione è umida. Arthur è troppo delicato e non voglio rischiare. Preferisco approfittare della vostra ospitalità quando avremo giornate più lunghe e serate più calde».

    A un cenno di mia madre, Rose prese dalla dispensa in legno di rovere una bottiglia di vino e un dolce che furono serviti ai nostri ospiti. Gradirono tutti e due il dolce, ma scartarono il vino, malgrado l’insistenza della padrona di casa. Specialmente Arthur appariva talmente spaventato da quel liquido rosso da essere sul punto di piangere.

    «Non preoccuparti, Arthur», gli disse la mamma. «La signora Markham crede solo che ti farebbe bene, perché sei stanco della lunga camminata, ma non vuole forzarti a berlo. Penso che starai bene anche così. Non sopporta neppure di vederlo da lontano», concluse poi. «Anche l’odore lo disgusta, gli ho somministrato vino e altri alcolici annacquati per dargli un po’ di sollievo quando aveva mal di pancia, e devo dire onestamente di aver fatto il possibile perché non gli piacessero».

    Al che risero tutti, tranne la giovane vedova e suo figlio. «Cara signora Graham», le disse mia madre asciugandosi dagli occhi azzurri le lacrime per le troppe risate, «non finite di meravigliarmi. Pensavo foste una donna di buon senso. Ne state facendo un poppante come non se ne vedono da tempo. Ma cosa pensate di…».

    «Io trovo che sia invece un ottimo piano», la interruppe la signora Graham seria e impassibile. «La mia speranza è che così facendo si risparmi un orribile vizio. Magari in questo modo eviterà anche di prendersene altri».

    «Ma in questa maniera non lo renderete certo virtuoso», dissi io. «Cos’è in fondo la virtù, signora Graham? Volere ed esser capace di resistere a una tentazione o non averne alcuna? Un uomo che supera grandi difficoltà ottenendo ottimi risultati a costo di sforzi muscolari e di fatica, o quello che rimane in poltrona tutto il giorno senza altro da fare che attizzare il fuoco nel caminetto e portare il cibo alla bocca? Se desiderate che vostro figlio viva con onore non dovreste togliergli i sassi da sotto i piedi ma far sì che sappia camminarci sopra in equilibrio senza che lo teniate per mano».

    «Gli terrò la mano fino a quando non sarà in grado di andare avanti da solo, signor Markham, e gli toglierò i sassi da sotto i piedi ogni volta che potrò, insegnandogli a evitare quelli che restano o a camminarci sopra in equilibrio, come avete detto voi. Pur con il cammino libero, avrà ancora modo di mettere in pratica tutta la sua destrezza, tenacia e prudenza. Si fa un gran parlare di quanto sia virtuoso resistere alle tentazioni, ma su cinquanta o cinquecento uomini che hanno ceduto, mostratemene invece uno che abbia resistito. Perché mai dovrei illudermi che mio figlio sia proprio quell’uno su mille, e non prepararmi per la peggiore delle ipotesi, e cioè che sia come suo… come tutti gli altri, insomma, se non mi impegno io stessa per evitarlo?»

    «Molto lusinghiero per noi tutti…».

    «Io non vi conosco, mi riferisco alle persone che ho incontrato. Quando vedo il genere umano barcollare e inciampare sul suo cammino, cadere e rovinarsi gli stinchi su ogni ostacolo che incontri per strada, perché non dovrei fare del mio meglio perché mio figlio proceda su una via il più possibile liscia e sicura?»

    «Non v’è dubbio. Tuttavia, la maniera migliore è quella di renderlo più forte rispetto alle tentazioni, e non certo toglierle dalla sua strada».

    «Io farò entrambe le cose. E quand’anche mi sarò sforzata di rendergli odioso un vizio, di certo non mancheranno altre tentazioni, dall’esterno o dall’interno. Personalmente, non ho avuto molte occasioni di essere tentata da quel che il mondo definisce vizi, ma ho dovuto sopportare altre prove, che hanno richiesto più determinazione e prudenza di quanto sia riuscita a trovare. Ecco quel che ammetterebbe chiunque sia avvezzo a riflettere e disposto a migliorare la propria natura».

    «Certo», si intromise mia madre, che aveva capito solo in parte quel che intendeva dire. «Tuttavia voglio mettervi in guardia contro questo errore, signora Graham, un errore che definirei fatale, ossia quello di farsi carico da sola dell’educazione del bambino. Voi siete capace, istruita, e vi credete all’altezza di questo compito ma non lo siete, datemi ascolto. Potreste accorgervene troppo tardi e pentirvene amaramente».

    «Dunque credete che dovrei mandarlo a scuola perché impari a disprezzare l’autorità e l’amore di sua madre?», rispose lei con un sorriso stizzito.

    «Assolutamente no! Se quel che volete è che disprezzi sua madre, allora tenetelo a casa, copritelo di attenzioni e sforzatevi di assecondare ogni suo capriccio».

    «Sono d’accordo con quanto dite, signora Markham, ma i miei valori e le mie azioni sono ben lontani da una tale criminale debolezza».

    «Eppure continuerete a trattarlo come una bambina, a viziarlo, lo trasformerete in una femminuccia. E a prescindere da come la vedete voi, è esattamente quel che succederà. Chiederò al signor Millward di parlarvene lui, saprà illustrarvi per bene il rischio che state correndo. Vi dirà cosa è meglio fare e sicuramente non ci metterà più di un minuto a convincervi».

    «Non mi sembra necessario disturbare il reverendo», disse lei guardandomi, forse perché sorridevo dell’infinita fiducia che mia madre nutriva nei confronti di quel bravo gentiluomo. «Il qui presente signor Markham ritiene di avere capacità di persuasione pari a quelle del reverendo Millward, se non dò retta a lui non mi convincerò neppure vedendo qualcuno uscire dalla tomba. Dunque, signor Markham, voi che affermate la necessità di spingere un ragazzo da solo contro il male piuttosto che cercare di proteggerlo, di insegnargli a non evitare certe insidie ma ad affrontarle con coraggio saltandoci dentro o sopra, ad andare a cercarsi i pericoli e non a sottrarvisi, a nutrire la propria virtù di tentazioni… consigliereste la stessa cosa in caso di…».

    «Signora, mi permetto di interrompervi, state correndo troppo. Non ho mai detto che si debba incoraggiare un bambino a precipitarsi incontro ai pericoli, né a cercarsi le tentazioni per poter allenare la sua virtù. Dico solo che è meglio corroborare e armare

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