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Finché morte non ci separi
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Finché morte non ci separi
E-book241 pagine2 ore

Finché morte non ci separi

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Info su questo ebook

Asolo, 1919. Un albergo diventa il palcoscenico su cui danzano le esistenze di uomini e donne, burattini i cui fili vengono mossi dalla Storia, quella Grande, della guerra. In qualche modo tutti loro sono il risultato di fattori in moto quasi perpetuo, così imponenti da far perdere il controllo. Un dipinto impietoso ma al contempo edificante, una visione parziale di un quadro molto più grande, che contiene al suo interno tutte le caratteristiche che appartengono all'intero. Si dipanano storie, ma anche pensieri puri, purezza data dall'innocenza degli uomini, che come formiche lavorano affinché la Terra giri, di fronte alla follia collettiva che prese il nome di I Guerra Mondiale. Davide Fent ci conduce nel carnaio dei corpi straziati, ma se prima c'erano carne e sangue, ora rimangono esistenze implose, frantumate, interrotte. La I Guerra Mondiale segnò la perdita dell'innocenza per gli uomini del '900, e assistiamo assorbiti e attoniti alla confusione mortifera di chi rimane, all'entusiasmo infantile di chi nella morte ritrova l'amore per la vita. Un libro da leggere perché, permettendogli di sporcarci, ne vedremo la funzione catartica e verremo a patti con la rassegnazione.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2019
ISBN9788831648844
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    Anteprima del libro

    Finché morte non ci separi - Davide Fent

    SERENI

    Prefazione

    E subito riprende

    Il viaggio

    Come

    Dopo il naufragio

    Un superstite

    Lupo di mare

    (Allegria di Naufragi, Giuseppe Ungaretti)

    Nel 1919 viene data alle stampe, per la seconda volta, una raccolta di poesie di Giuseppe Ungaretti: Allegria di Naufragi, un’opera in cui la I Guerra Mondiale diviene carne, e dove l’uomo, schiacciato dal destino, ridimensiona la sua esistenza e la conosce quale contenitore di imponderabile dolore.

    Questa storia inizia con la fine di qualcosa e con la nascita di qualcos’altro. Finisce la Grande Guerra e lascia un campo disseminato di cadaveri tutti uguali, di membra straziate, inondato di sangue dello stesso colore.

    Ma anche di vite interrotte, spezzate, menti da ricostruire, pezzi da rimettere insieme.

    Ungaretti, se avesse scelto di raccontare la Storia scegliendo la narrazione invece che la poesia, forse avrebbe anch’egli raccontato le storie che compongono questo libro, queste esistenze alla ricerca di senso.

    Assorti a osservare il movimento incessante di una giostra su cui si alternano quattro persone, giovani ma dall’anima antica, in quella che dovrebbe essere l’età aurea di ogni essere umano, la gioventù, ma che sembrano aver perso la coscienza della loro presenza nel mondo, vittime degli eventi, incapaci di ritornare a essere padroni del proprio destino.

    C’è la morte, inutile negarlo, in questo libro. Ma non è una presenza estranea, è la naturalità che non scandalizza, il destino che bussa alla porta, la padrona della casa.

    Questo romanzo ci ricorda che, al di là delle ideologie, miserevoli costrutti della mente umana, rimane la vita degli uomini e delle donne, e che nonostante siamo stati assemblati a pensarlo, non è scontato che ci sia un lieto fine, concepito come manna piovuta dal cielo.

    Anche qui, come in Ungaretti, la parola diventa simbolo e la strada da percorrere un continuo ossimoro, linguistico ma anche concettuale: la crudezza dei corpi ma al contempo esigenze di spiritualità, un continuo carosello che ci accompagna per tutta la nostra vita.

    Nonostante tutto, in questo libro c’è luce a illuminare le zavorre che frenano la nostra ascesa, permettendoci di liberarcene. Così che la vanità delle vanità venga ridotta a una spocchia inutile e pesante. Se l’ambizione dell’uomo è quella di lasciare traccia di sé affinché la sua vita non venga dimenticata, alla fine realizziamo che questo pensiero in vita altro non è che uno slancio a realizzare un cammino, libero il più possibile dai condizionamenti della Storia.

    Capitolo I

    Il panorama visto dal balcone era fantasmagorico come uno di quei sogni che si fanno, in prossimità del risveglio, dopo un sonno profondo.

    La valle completamente inondata dalla nebbia, il sole che faceva risplendere le foglie degli alberi bagnate dalla guazza notturna.

    La colazione era stata portata da una silenziosa cameriera bionda, sul tavolo nel centro della camera, ma Attilio sembrava non interessarsene.

    In balcone, su un basso tavolino, c’era un fornello a spirito, un oggetto curioso, di ottone annerito.

    Un occhio attento, l’occhio di chi aveva già visto quegli oggetti, l’avrebbe riconosciuto subito.

    Era uno di quei gingilli che i soldati si divertivano a ricavare da bossoli di artiglieria, frammenti di granata, residui di ordigni che non potevano più nuocere ma che, prima di diventare dei rottami da riutilizzare, avevano contribuito all’orrore, alle paure bestiali.

    Forse anche per questo delle mani fantasiose e abili li trasformavano in cose utili. Per esorcizzarne il cattivo spirito.

    Attilio era seduto su una poltroncina di midollino e, curvo sul fornello acceso, sorvegliava il contenitore oblungo che vi era posto sopra.

    Non aveva pensieri in testa, idee, sentimenti. Il suo cervello era completamente concentrato sull’acqua del contenitore che iniziava a bollire.

    Soddisfatto si alzò, un poco pesantemente, dalla poltroncina troppo bassa e prese un cornetto dal cestino sul tavolo della camera.

    Lo annusò e guardò con attenzione prima di addentarne una estremità.

    Con il cornetto in bocca, come un cane che riporti una preda, tornò sul balcone e riprese a fissare il fornello.

    Quando reputò che l’acqua avesse bollito a sufficienza spinse, sull’apertura da cui proveniva la fiammella, una linguetta di ottone che tolse l’ossigeno alla fiamma.

    Niente ossigeno, niente combustione.

    Mormorò tra sé e sé, ripensando brevemente al corso di chimica all’università.

    Devo riprendere a studiare, mi manca così poco alla laurea.

    Ma il pensiero della laurea si sciolse come un fiocco di neve nel momento in cui Attilio estrasse, con un supporto forato dotato di un manico pieghevole, la piccola, elegante siringa d’argento dall’acqua bollita.

    Era un oggetto incongruo tra le mani di Attilio.

    Lui era alto ed era stato massiccio di corporatura, prima di disseccarsi come una sarda stesa al sole.

    Le sue mani erano grandi, le dita lunghe. La sottile siringa incisa da minuscoli motivi ornamentali sembrava un piccolo serpe tra le sue dita scure. E forse lo era.

    Attilio non era scuro di carnagione, aveva però preso un colorito giallastro che si era stemperato con la patina di chi passa la maggior parte del tempo all’aperto.

    Nonostante le ferite, nonostante la serpe che teneva tra le dita, Attilio rimaneva il più tempo possibile fuori dalla sua camera, in giro per il paese, tra i boschi e i prati, nel giardino dell’albergo.

    Stare fuori lo rassicurava, i luoghi chiusi lo angosciavano e lui non aveva bisogno di aggiungere angosce alla sua precaria convalescenza.

    Tenendo la siringa nella sinistra prese, tra il medio, l’indice e il pollice una fialetta di vetro che aveva, in precedenza, intaccata nel collo con una piccola sega.

    Il rumore sordo della parte superiore della fialetta che si spezzava lo fece trasalire leggermente come quando riusciva a sorprendere la cameriera, dal buco della serratura, che si cambiava o si lavava nella sua piccola camera ricavata sotto il tetto della casa dei suoi.

    Un pensiero riuscì a sfuggire alla concentrazione assoluta con cui Attilio stava risucchiando il contenuto della fialetta nella siringa sollevandone lo stantuffo con l’unghia del pollice.

    Da qualche parte c’erano le lettere da casa, doveva aprirle, leggerle, rispondere. Ma non in quel momento. Dopo.

    La fialetta vuota ricadde sul tavolino, vicino al fornello. Attilio posò con cura la siringa di traverso allo sterilizzatore e si scoprì il braccio sinistro.

    Le macchie bluastre e i ponfi sottocutanei lo disorientarono per qualche secondo, poi individuò un punto relativamente sano.

    Con un sospiro poggiò l’ago sull’esterno del braccio e premette leggermente.

    L’ago, ancora abbastanza nuovo e appuntito, penetrò sotto la pelle.

    Attilio, senza fretta, si fermò assaporando il leggero dolore della puntura.

    Lo stantuffo si mise, quasi da solo, in movimento.

    Il meccanismo, perfetto, elementare, spinse il liquido dal serbatoio della siringa al braccio dove si raccolse in una piccola pozza prima di essere assorbito dai tessuti voraci.

    Un lampo rosso e caldo dal braccio al cervello, dal cervello allo stomaco.

    Lento a sufficienza per avere il tempo di togliere l’ago, poggiare la siringa nello sterilizzatore.

    Attilio lasciò che gli occhi roteassero liberi nelle orbite, come gli occhi di un camaleonte che aveva visto in un circo. O era uno zoo?

    I colori della mattina di primavera cominciarono a virare in varianti di giallo, rosso e blu che Attilio riconobbe.

    Gas. Yprite, cloro, acquinite, papite. Gas.

    L’idea del gas non lo spaventò. La fialetta conteneva il coraggio, la calma, la forza.

    L’occhio del camaleonte girò per la camera con una visuale troppo ampia per essere umana.

    In nessun posto si vedeva la maschera antigas.

    Ma non serviva la maschera, Attilio era invulnerabile, invincibile, immortale.

    Lasciò che la forza filtrasse, attraverso la pozza che aveva nel braccio, in tutte le fibre del suo essere, riempisse i tessuti molli, i muscoli, penetrasse nella trabeazioni ossee, si infiltrasse nel cervello fino a raggiungere un punto oscuro, remoto.

    Un punto dove si trovava una figura raggomitolata, vestita di un grigioverde stinto e logoro. L’anima.

    Rolf Von Echerling camminava sul sentiero con un passo che chiunque avrebbe immediatamente riconosciuto per quello di un militare.

    Un passo cadenzato, veloce ma contenuto, un passo di chi sa risparmiarsi per poter camminare più a lungo.

    Le falde del loden ricadevano con regolarità sulle sue cosce. Non faceva freddo ma Rolf, da quando aveva cominciato a sputare un sangue schiumoso e intensamente rosso, aveva preso a proteggersi il petto il più possibile anche se, dentro di sé, sapeva che sarebbe stato inutile.

    Ma Rolf adorava le cause perdute, aveva una adorazione romantica per le lotte senza speranza e così, quando i suoi polmoni, già aggrediti dal gas delle trincee, erano stati colpiti dalla tubercolosi, non se l’era presa troppo male. In fin dei conti aveva visto troppi uomini in perfetta salute morire e quindi riteneva che le sue probabilità, pur sputando quel sangue disgustoso e dal sapore di rame, fossero quantomeno pari a quelle di un sano.

    La morte in sé stessa non lo impensieriva, nulla di più naturale della morte, altrettanto naturale della nascita, della vita.

    Sarebbe però meglio morire in circostanze più adatte al suo temperamento.

    In una battaglia, un duello, una caduta da cavallo dopo una corsa sfrenata, magari alla guida di uno di quei fragili e inaffidabili velivoli che erano più pericolosi per i propri piloti che per i danni che potevano infliggere al nemico.

    Morire in un letto lordo di sangue sputando pezzi dei propri polmoni non era una prospettiva altrettanto affascinante.

    Von Echerling si fermò in una piccola radura e prese dalla tasca del loden un binocolo di ottone brunito piuttosto malconcio ed ammaccato.

    Tra gli alberi vedeva bene il retro dell’albergo. Cominciò a contare le finestre fino a trovare la sua.

    Un movimento in un balcone lo distrasse. Mise a fuoco una figura discinta, un uomo seduto, piuttosto scompostamente, su una di quelle buffe e scomode poltroncine. Indossava solo un accappatoio bianco.

    Rimase un poco a guardarlo ma poi, annoiato dalla sua immobilità, riprese a camminare come chi ha una meta da raggiungere. Solo che lui non ne aveva alcuna.

    Capitolo II

    Attilio si scosse dal torpore stuporoso che gli provocava la morfina e si passò una mano sulla gamba nuda.

    Tra i peli neri, resi ispidi dall’aria fresca del mattino, trovò il contorno irregolare delle cicatrici e le percorse, con una sorta di affetto, con la punta delle dita.

    Si fermò a pochi centimetri dal pene che poggiava, rattrappito e floscio, sullo scroto.

    Appena un soffio più su e potevo cercare un impiego in un harem turco.

    Il pensiero di un turbante con sopra le forbici aperte come distintivo lo fece sorridere ma subito subentrò un altro pensiero, quello della cameriera che serviva la sua camera.

    Taciturna, occhi grigi, zigomi alti ai limiti dell’impossibile nel volto ovale dalla espressione triste. Una tristezza disperata.

    Attilio diede un colpetto col dorso delle mani al pene che sobbalzò senza inturgidirsi.

    Tanto valeva che me lo mangiasse Cecco Beppe. Commentò con disgusto.

    Da qualche tempo era inerte nei confronti del sesso. Guardava le donne con indifferenza, guardava tutti con indifferenza.

    La morfina gli costruiva dei paraventi di tela davanti agli occhi, paraventi da cui intravedeva le forme in maniera indistinta e indifferenziata. Tutto gli sembrava arrivare da una distanza non quantificabile, vicino ma mai a portata di mano.

    Il sole era più forte, dei grossi calabroni ronzavano nell’aria andando a intrufolarsi nelle campanule azzurre della siepe del giardino sotto al suo balcone.

    Attilio si alzò e si lavò nel bacile vicino al piccolo scrittoio dove giacevano diverse buste, chiuse, con il suo nome ed il suo indirizzo attuale.

    Nell’armadio aveva, appesi a delle grucce, diversi abiti.

    Scelse un completo grigio scuro di lana leggera, una camicia bianca, un colletto rigido, di celluloide che abbottonò alla camicia e una cravatta di un grigio più scuro.

    Non si soffermò a guardarsi allo specchio, cercava sempre di evitare di vedere i suoi occhi riflessi.

    Aveva paura dei suoi occhi, di quella pupilla stretta come la capocchia di uno spillo.

    Afferrò un cappello floscio e uscì dalla camera precipitosamente, in preda a una ansia indistinta, imboccò il corridoio e poi le scale senza quasi respirare.

    Uscì precipitosamente nell’atrio dove il portiere sedeva leggendo un registro, salutò con un cenno del capo e uscì prima di lasciare il tempo al portiere di rispondere al suo saluto.

    La bottega del barbiere era nella piazza ombreggiata da dei grandi platani, Attilio la attraversò senza guardarsi intorno, come fosse timoroso di vedersi osservato.

    In effetti, a quell’ora, non c’era nessuno nella piazza che potesse osservarlo.

    Gli uomini erano nei campi, aggiogati ai loro aratri come i buoi che li tiravano. Le donne o aiutavano i loro uomini o erano al lavatoio a battere rumorosamente i panni sulle lastre di pietra schiumose di sapone, cenere e liscivia oppure in casa ad accudire ai bambini piccoli e a preparare per il pranzo.

    C’era, in piazza, sotto il campanile, solo il parroco che parlottava con il farmacista e il comandante della stazioncina dei regi carabinieri.

    Ma loro erano troppo assorti nei loro discorsi per accorgersi di Attilio.

    La poltrona di cuoio rosso del barbiere aveva bisogno di essere imbottita di nuovo, la pressione di centinaia e centinaia di corpi ne avevano schiacciato e deformato la lana che ora si era ammucchiata in bozzi duri lasciando altre zone con il cuoio direttamente a contatto con il legno della struttura.

    Barba, per cortesia.

    Vuole un giornale, signore?

    Cosa ha?

    Il nostro foglio locale, il giornale vero non è ancora arrivato, aspettiamo la corriera postale verso il mezzodì.

    Non fa niente allora, le novità locali me le racconterà lei.

    Il barbiere stese su Attilio un grande lenzuolo bianco e gli inumidì il viso prima di cominciare a stendergli, con un pennello di peli di tasso, una abbondante schiuma di sapone odorosa di qualche essenza il cui nome affiorò molte volte alla mente di Attilio senza mai riuscire a varcare l’orlo labile tra coscienza e incoscienza.

    "Nulla di nuovo, signore, all’albergo dove alloggia ci sono sempre i soliti clienti. Le novità possono venire solo da voi villeggianti, qui, come negli altri paesi vicini, non accade più nulla da quando è finita la guerra.

    Sono tornati gli uomini e hanno ripreso la vita di sempre.

    Curvi sulla terra dalla mattina alla sera.

    Magari qualcuno, tornando, ha trovato delle sorprese sgradite, qualche donna di qui non è stata capace di aspettare."

    Attilio si pentì subito di aver incitato il barbiere a parlare.

    Lasci perdere, non sono queste le notizie che possono interessarmi.

    Il barbiere rimase per un istante con il rasoio a mezz’aria, più interdetto per la brusca frase di Attilio che offeso.

    Mi scusi signore, non dirò più nulla.

    Al teatro, questa sera, che daranno?

    Oh, un’opera molto bella, dicono. Una del grande D’Annunzio.

    E quale sarebbe?

    La città morente, credo.

    Morta.

    Come signore?

    Morta, la città morta.

    Sì, proprio così, mi deve scusare signore, sono ignorante. La conosce?

    L’ho vista, prima della guerra, credo nel ’14.

    E com’è? Com’è?

    Vada a vederla, perché rovinarsi la sorpresa.

    Il ferro del rasoio gli diede un leggero brivido sulla pelle.

    La porta a vetri della bottega si aprì facendo tintinnare un campanellino

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