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La teoria degli umani
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E-book422 pagine5 ore

La teoria degli umani

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Info su questo ebook

Siamo nel 2150, un futuro prossimo dominato da una tecnologia sempre più pervasiva che trova nel Sistema Sialon la sua più compiuta espressione. In tale contesto, il sodalizio tra gli uomini e le intelligenze artificiali sembra essere una certezza incrollabile, complici anche gli innegabili vantaggi che la messa in opera globale del Sistema ha garantito: piaghe come la povertà e le guerre sono ormai superate, mentre il benessere sembra finalmente alla portata di tutti. Eppure la fiumana del progresso ha delle risacche nelle quali si annidano i dissidenti, coloro che rifiutano il Sistema anche a costo di vivere una dimensione alternativa dove dominano odio, prevaricazione e violenza: il Mondo del Prima, una realtà virtuale immersiva creata dal misterioso admin noto come Re Pescatore e che, estendendosi sempre più, minaccia la solidità dell’ordine precostituito. È per tentare di arginare il fenomeno che Sialon ingaggia Kublai. A lui sarà affidata una squadra di cani sciolti, pronti a tutto e senza nulla da perdere. Dovranno trovare il Re Pescatore e impedire che il Sistema venga distrutto dal dilagare inarrestabile del Mondo del Prima.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2023
ISBN9791222087511
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    Anteprima del libro

    La teoria degli umani - Fabio Scalini

    PROLOGO

    «Ogni civiltà intelligente, ottenute le tecnologie in grado di creare universi simulati indistinguibili da quelli fisici, tenderà ad abbandonare la realtà sensibile in favore di quella simulata, non lasciando così tracce osservabili da remoto. »

    (Ipotesi Cydiac)

    La teoria, elaborata dal padre delle superintelligenze artificiali Sialon nei primi anni della sua brillante carriera, nasce in risposta al celebre Paradosso di Fermi, che può essere così enunciato: data la sconfinata estensione dell’universo osservabile, è naturale pensare che la vita possa essersi sviluppata in altri pianeti e che esistano – o siano esistite – moltissime civiltà extraterrestri evolute; eppure non ne abbiamo le prove. Dove sono tutte quante?

    In sintesi, l’Ipotesi di Cydiac propone una soluzione inusuale al celebre dilemma che, ad oggi, resta irrisolto: com’è possibile che ancora non sia stata individuata una sorgente di informazioni nello spazio profondo che possa darci almeno l’illusione di non essere soli nell’universo?

    Cydiac, celebre per aver innescato il più dirompente balzo tecnologico che l’umanità abbia mai sperimentato, ha ipotizzato infatti che una qualsiasi forma di vita intelligente che raggiunga un grado di sviluppo tale da consentire la nascita di intelligenze sintetiche – come noi abbiamo fatto con le AGI prima e con le ASI poi – avrà anche le potenzialità tecnologiche per creare realtà simulate alternative e indistinguibili rispetto alla realtà fisica. Luoghi virtuali con leggi fisiche ritoccabili tramite modifiche al codice sorgente, spazi digitali di dimensioni infinite creati con raffinati algoritmi procedurali. Questi universi simulati, non dissimili dalle realtà-100 dove noi umani teniamo custodite le superintelligenze Sialon, diventeranno inevitabilmente il punto di arrivo di una civiltà evoluta: infatti – considerando che già oggi abbiamo la possibilità di traslare la mente di un individuo dentro una realtà alternativa – cosa vieterebbe a qualsiasi civiltà extraterrestre di preferire un universo simulato, con regole ritoccabili a piacimento, a un universo fisico dove si è privi di qualsivoglia controllo?

    Secondo Cydiac, una popolazione intelligente in grado di creare mondi immaginari tenderà nel lungo periodo a confluire in essi, sparendo dal proprio quadrante stellare così che diventi impossibile individuarla con l’osservazione da remoto. La brillante soluzione al Paradosso di Fermi ha diviso la comunità scientifica internazionale, fra chi la considera geniale e chi invece si oppone a questa ineluttabilità tecnologica.

    Cydiac, ironizzando al termine della conferenza durante la quale enunciò per la prima volta la sua celebre ipotesi, aggiunse:

    «Mi immagino nane rosse ai confini dell’universo, con una minuscola scatola nera che ruota intorno a esse, ognuna con dentro miliardi su miliardi di menti digitalizzate chissà quando, chissà come. Al loro interno, altri universi, ognuno diverso, ognuno personalizzato in base alla cultura, ai gusti e ai sogni di chi lo ha disegnato. Eterni, esisteranno fino al decadimento della propria stella, pochi istanti prima della morte di ogni calore, iterando a velocità proxi-luminali infinite varianti di mondi che mai vedremo, né esploreremo.

    Questo è il limite dove noi umani siamo giunti, il confine sottile che si interpone fra futuro biologico e sintetico. Serve uno strappo, un grande balzo in avanti per superare quest’ultimo ostacolo alle possibilità della nostra specie. La comparsa delle Sialon è il primo passo che ci porterà ad abbandonare la Terra; non come esploratori spaziali, bensì come menti condivise in un oceano infinito di possibilità digitali.»

    Poi concluse, sorridendo al pubblico attonito:

    «Non vi sembra meraviglioso?»

    Audiolog #16, autore ignoto, 2142

    ANOMALIA

    Kublai stava leggendo un libro mentre si gustava il tepore del camino scoppiettante. Le fiamme lambivano il vetro di protezione dipingendo pennellate effimere di fuoco. Il silenzio nel salotto era totale, impreziosito dalla neve che cadeva oltre la grande vetrata che dava sul giardino della villa. Il cielo nero minacciava tempesta e gravava sugli alberi che spuntavano qua e là attraverso la coltre bianca. Kublai allungò i piedi verso l’ottomana e si accoccolò sulla poltrona in pelle. Sbirciò il paesaggio che si spalancava oltre la vetrata, poi riprese a leggere.

    Adorava quel romanzo: Le città invisibili di Italo Calvino. Un libro vero, edizione economica in carta avorio del millennio precedente, testimonianza di un mondo che non c’era più, in cui ancora era l’utente a dover cercare e consumare cultura, invece di riceverla indotta tramite neurostimolazione.

    La copertina era sdrucita, le pagine ingiallite; qualcuna si era persino scollata dalla costa, per cui Kublai maneggiava il volume con cura.

    Era il suo romanzo preferito da sempre; sua madre glielo aveva letto innumerevoli volte quand’era piccolo. Tese la mano verso le fiamme, scosso da un freddo improvviso.

    Depose il libro su un panno sopra il tavolino delle bevande al suo fianco e si servì un goccio di vino passito. Ebbe la tentazione di spingersi ancor più vicino alle fiamme, sebbene il salotto fosse gradevolmente acclimatato dal sistema automatico. Si rese conto che c’era poca brace. Sganciò la finestrella di alimentazione, prese un tronchetto e lo fece scivolare dentro la bocca del camino. Allora realizzò, divertito, di aver appena bruciato un sacco di soldi. Bruciare oro ligneo era un lusso ridicolo. Ma non gli importava. Era un vizio che lo faceva sentire a casa.

    Riprese il libro, ma non aveva più voglia di leggere. Così lo ripose, prestando attenzione a che non sfregasse contro gli altri volumi. Valeva una fortuna, era uno dei pezzi più pregiati della libreria di famiglia. Si trattava di una collezione pregevole, che suo padre aveva curato per parecchi anni recuperando copie assai rare di quelle che un tempo erano chiamate edizioni tascabili. Kublai ritornò con la mente a quando aveva studiato storia moderna a scuola. Provava un forte interesse per l’epoca in cui l’umanità aveva abbandonato la realtà materica dell’informazione in favore della dematerializzazione digitale. Interesse che aveva ereditato dai suoi, strenui sostenitori della fecondazione biologica.

    Non riusciva più a stare fermo. Pensare alla sua famiglia lo aveva innervosito, doveva distrarsi. Intanto sorseggiava il vino, mentre seguiva il turbinio della tempesta che imperversava oltre la parete di cristallo insonorizzato. Guardò l’ora sul IWC Portoghese che portava al polso, un modello meccanico che ticchettava freneticamente e che esasperava Erice, la sua fidanzata. A lui, invece, piaceva quel suono martellante e lontano, onnipresente. Così come piaceva essere circondato dai tanti pezzi di antiquariato che la sua famiglia aveva accumulato negli anni. Una stampa pubblicitaria disegnata a mano, tardo Novecento, appesa a fianco del camino. Un dispositivo per l’ascolto portatile – uno scatolotto bianco di plastica crepata dal decadimento molecolare – custodito sotto una teca bombata. Un quadro a olio con una donna lasciva all’ombra di un salice. Era rimasto tutto tale e quale all’epoca in cui viveva lì insieme ai suoi, quando ancora facevano parte del Club dei Genitori.

    Prima che tutto cambiasse.

    Non vedo l’ora che arrivi domani pensò mandando giù l’ultimo sorso di vino dolce.

    Voleva dedicarsi alle sue cose, sovrascrivere i pensieri. Il lavoro presso il dipartimento specializzato in reati anti-Sistema, d’altra parte, gliene offriva ampiamente possibilità. Qualcuno tentava di frodare le scommesse nelle gare a realtà-70 ? Erano loro a intervenire. Stessa cosa se, ad esempio, qualcuno trovava il modo di farsi mandare a casa prodotti di lusso a costo zero, sfruttando certi bug nelle procedure che consentivano a tutti i cittadini di usufruire dei beni primari gratuitamente.

    Ma purtroppo era in ferie, quindi avrebbe dovuto trovarsi qualcos’altro da fare. Magari poteva mettersi a cucinare. Si era fatto recapitare una consegna extra-urgente di Jagyu giapponese da cuocere a bassa temperatura, macellato quella stessa mattina nella migliore meat boutique di Kyoto. Carne vera, introvabile. Non voleva assolutamente che la cucina automatica preparasse qualcosa, preferiva farlo lui. Anche se perdeva in qualità, ne guadagnava in esperienza. Desiderò che le luci della stanza si riaccendessero, la casa rispose alla sua volontà riattivandosi.

    Stava già pensando a come affettare il pezzo per ottenere il taglio più succoso, quando apparve una notifica in alto sul suo campo visivo. Chiamata in ingresso. Tornò a sedersi di fronte al fuoco e rispose. La sua visuale si sdoppiò: da una parte c’era il camino, dall’altra aveva il segretario della sua sede operativa.

    Riesci a tornare in sede?

    Certo replicò senza esitare.

    Sta arrivando un aeropod a prenderti aggiunse il collega, prima di disattivare la connessione.

    Un’emergenza?

    Quando mai succedeva qualcosa di imprevisto al Sistema?

    Kublai fissò le fiamme ruggire contro il vetro, le mani incrociate sotto il mento e i piedi ben piantati a terra. Poi si alzò e tirò la leva che toglieva l’aria al fuoco.

    Il suo aeropod sarebbe stato lì a minuti.

    ***

    Il velivolo a falsa-gravità planò senza un fruscio sul tetto di un condominio nella periferia di Milano. Intorno ce n’erano altri, immersi in un parco ben curato dove scorrazzavano liberamente dei cervi servopilotati dalla rete urbana. Abbellivano il compound brucando e oziando senza scopo. Kublai alzò il bavero del cappotto per proteggersi dal vento sferzante. Da quell’altezza si vedeva il centro città avvolto da una bolla di luce bianca e rosa: una cupola di vita brulicante, persa nel nero della notte.

    «Cosa abbiamo?»

    «Ci ha avvisato il Sistema» rispose un suo compagno di squadra, quello che portava l’ariete idraulico. Gli altri avevano acceso i propri multistunner e avevano settato la potenza minima, contenimento. Kublai estrasse da sotto il cappotto la sua arma: un revolver stunner da fondina vecchia-scuola, senza connessione neurale.

    «I monitor AGI hanno rilevato una presenza biologica, in allarme sanitario, che non risulta connessa alla rete collettiva.»

    Kublai aprì il menu mentale e avviò la visione condivisa. Attese poi che ogni partecipante accettasse la connessione in ingresso e in uscita.

    Frodi, reati al patrimonio, truffe ai danni della collettività: routine. Ma una persona scollegata dal Sistema?

    Cosa doveva aspettarsi quella notte?

    Il collega gli condivise le informazioni che erano state sintetizzate dalle AGI della sede operativa.

    "Romero, quarantaquattro anni, senza incarichi. Vive beneficiando appieno dei privilegi offerti dal sistema assistenzialistico nazionale. Ufficialmente single, nessun legame conosciuto. Gen. 2, classe E, Incubatrice Benedetto XVI. I sensori domestici stanno rilevando un degrado delle sue condizioni biologiche, per cui è certo che sia in casa. Ma il Sistema Sialon non lo vede. Per il Sistema, Romero è morto… non esiste più."

    Kublai guidò i suoi fino alla porta di servizio sul tetto del grattacielo, poi aprì la strada scendendo rapidamente i gradini metallici della scala d’emergenza fino al piano dove si trovava l’appartamento in questione. Si fece da parte per far spazio a chi portava l’ariete; poi, quando la porta venne sfondata, entrò per primo con lo stunner puntato di fronte a sé.

    Si trovò nella tipica unità abitativa che Sialon assegnava a chiunque fosse nato in un’Incubatrice statale, come appunto era la Benedetto XVI. Un posto grazioso, su misura per il cittadino single: un piccolo ingresso, la cucina a sinistra e l’area living a destra, dove campeggiava un finestrone che affacciava sul parco. Una musica procedurale rilassante era diffusa dai tanti altoparlanti nascosti nella struttura. Era tutto in ordine. Anche troppo, notò Kublai. Niente polvere, niente scarpe all’ingresso, nessuna giacca abbandonata su uno degli sgabelli intorno alla penisola della cucina. Sembrava il diorama di una casa popolare progettata per il cittadino medio, invece che un luogo vissuto per davvero.

    Rilevate qualcosa? domandò tramite il pensiero.

    Presenza organica in bagno, ma effettivamente non rilevo esseri umani connessi al Sistema.

    Non era possibile. Nessuno poteva vivere senza essere connesso al Sistema Sialon. Era un’eventualità impossibile, che si fosse nati in un’Incubatrice oppure, come lui, tramite fecondazione biologica. Si nasceva dentro il Sistema e se ne usciva solo da morti. Ma Kublai tenne per sé i propri dubbi.

    Perlustrate le altre stanze e controllate in salotto. Fate richiesta di accesso alle ultime ore di registrazione memorizzate nei dispositivi domestici.

    Mentre la squadra si divideva, Kublai raggiunse il bagno e scostò la porta con il piede. Entrò con lo stunner spianato e pronto a colpire. Sul pavimento di piastrelle blu, ai piedi del lavandino, c’era un uomo. Era nudo, con un evidente trauma cranico alla base della nuca. Si avventò su di lui e gli tastò la giugulare. Battito irregolare, debolissimo. A terra era bagnato e c’erano tracce di sapone. Un’occhiata, e si fece un’idea di cosa fosse successo: l’uomo stava uscendo dalla doccia, ma il tappetino si era increspato in maniera imprevista facendolo scivolare; evidentemente aveva picchiato la testa sulla ceramica. Un incidente domestico. Un caso.

    Intervento! pensò per chiamare Alan, il membro della squadra che fungeva da paramedico. Egli si presentò nel bagno con un dispositivo di rianimazione già acceso in mano. Collegò uno spinotto al polso del ferito e si interfacciò con le unità biocibernetiche dentro il suo corpo, per monitorarne lo stato di salute.

    Perché i suoi allarmi interni non hanno subito chiamato il soccorso? si domandò Kublai mentre osservava il collega lavorare. Stava studiando i parametri vitali dell’uomo, condividendoli in sovrimpressione con il resto della squadra, mentre modificava i settaggi degli organi biosintetici. Al contempo, iniettava al malcapitato un cocktail di nanomacchine per la riparazione in emergenza dei tessuti lacerati.

    «Non rilevo i dati cerebrali!» esclamò Alan. Era stata tale la sorpresa da venirgli naturale comunicare a voce anziché col pensiero.

    «Vedo che il suo cervello è attivo e che ci sono picchi notevoli di attività neuronale, ma non posso accedere a questi dati. È come se la sua mente fosse davvero disconnessa dal Sistema.»

    Ehi capo, vieni a vedere.

    Il pensiero che lo aveva chiamato in causa proveniva dal salotto. Uno dei suoi aveva spostato il divano e aveva trovato una scatola di latta larga e sottile, una confezione che forse in passato era servita per della minuteria meccanica. Portarono l’oggetto sul tavolo in cucina e, nel frattempo, ricevettero in sovrimpressione oculare il flusso di riprese registrate dagli elettrodomestici durante le ultime ore.

    Kublai le seguì con un occhio: mostravano Romero intento a compiere azioni quotidiane, banali come farsi un caffè, mangiare, sedersi sul divano, andare in bagno e tornare sul divano. Niente di utile.

    Contemporaneamente, con l’altro occhio, aveva zoomato sulla scatola. Al suo interno c’erano degli pseudofogli sintetici, dei pennarelli colorati e un braccialetto di rame con una pietra verde incastonata. Ricordò di aver visto una cianfrusaglia simile in una bancarella per strada, qualche tempo prima. Era uno di quegli amuleti farlocchi venduti dai ciarlatani che promettevano benessere per il cervello e protezione costante dai danni delle onde elettromagnetiche.

    Pazzesco che esistano ancora degli stralunati che credono a queste puttanate pensò Kublai.

    I fogli invece erano più interessanti. C’erano dei grafici, dei disegni e tante frasi buttate lì a caso. Erano scritte con una grafia incerta, tipica di chi aveva acquisito, nei primi anni di Incubatrice, i soli rudimenti della scrittura senza mai affinarla con una pratica costante.

    Ma, soprattutto, erano le grida di una mente disperata.

    Ci controllano giorno e notte!

    Ci guardano, ci manipolano per farci fare

    solo quello che vogliono loro.

    Le Sialon non sono state create dagli umani,

    sono il frutto di una rete di potere

    che usa le intelligenze artificiali per governare senza esporsi.

    Eminenze grigie. Illuminati. Ma li abbiamo scoperti!

    Non esiste più un anfratto al mondo in cui nascondersi.

    I famigli ci osservano! Sialon ha mille occhi!

    Siamo noi ad aver permesso che ciò accadesse.

    Cos’è reale ormai, e cos’è finzione?

    Kublai rabbrividì e perse per un momento la concentrazione.

    Tutto ok? gli chiese un collega al suo fianco, dandogli una pacca sulla schiena.

    Lui annuì e si strofinò il volto con le mani sudate.

    Sono solo i deliri di una persona deviata commentò un altro. Non gli rispose e prese a rimestare fra le note, per leggere anche quelle sul fondo della scatola. Un frammento strappato da una stampa più grande a colori attrasse la sua attenzione. Sul retro era stata scritta un’ultima frase.

    Sono intorno a noi, ma non sono noi.

    Kublai chiuse nervosamente la scatola e la passò a uno dei suoi collaboratori.

    Quindi, qualcosa di utile?

    Non lo so ancora gli rispose, dedicandosi ad analizzare il resto delle riprese. Erano davvero noiose, al punto che dovette velocizzarle: quel tizio aveva una vita incredibilmente monotona. Lo vide alzarsi, vestirsi, far colazione, poi perdere tempo immobile sul divano. Alzarsi di nuovo, pranzare, tornare al divano. Alzarsi, cenare, eccetera. Così per almeno tre giorni.

    "Forse passa molto tempo collegato a qualche realtà-70 di intrattenimento" ipotizzò Kublai, ma c’era qualcosa di disturbante nella cadenza con cui quell’uomo viveva la sua vita. Mai un movimento fuori posto, compiva azioni sintetiche e precise, si alimentava, defecava, si lavava, poi si fermava e fissava il niente per ore. Mai una parola, un contatto con l’esterno, un cambio di programma. Aveva mangiato a colazione, pranzo e cena le stesse cose: barrette multienergetiche, acqua, integratori. Andava chiaramente in pilota automatico – cosa comune quando si era immersi in simulazioni a realtà-70 – ma Kublai non pensava nemmeno fosse possibile perdurare in tale modalità per così tanto tempo. L’unica spiegazione era che quell’uomo vivesse davvero in modo così scialbo e ripetitivo.

    Era arrivato alla fine delle registrazioni: si vedeva Romero entrare nella doccia – come aveva già fatto in precedenza, comportandosi sempre allo stesso modo – ma, come aveva intuito, uscirne ed essere tradito dal tappetino steso sulle piastrelle. Kublai osservò attonito l’uomo caracollare e piombare a terra, senza neanche tentare di proteggersi o di tenersi in equilibrio: come se il suo corpo non sapesse reagire all’imprevisto.

    «Kublai!»

    Il paramedico l’aveva chiamato a gran voce. Ordinò agli altri di seguirlo con le armi cariche, poi si fiondò in bagno. Ormai le cure iniettate avrebbero dovuto stabilizzare il paziente, eppure era ancora lì, svenuto dove l’avevano trovato.

    «Che succede?»

    «Stavo provando a connettermi al suo vault per capire come mai il suo corpo e il suo cervello non fossero più connessi al Sistema Sialon. Ma non ce l’ho fatta» ammise Alan, la voce che tremava dall’ansia. «Tramite la connessione via cavo non sono riuscito a trovare il suo vault. È come se fosse connesso…»

    « … altrove» concluse Kublai, sempre più angosciato. «Hai provato a riavviare i suoi dispositivi di rete interni?»

    «Sì, e…»

    Il collega ricondivise i dati in sovraimpressione per permettergli di leggerli.

    «Il… il suo cervello è fottuto» balbettò poi. «Il vault è impazzito e ha bruciato le connessioni neurali. Ha mandato in overload il suo sistema nervoso. Provando a scollegarlo con la forza, qualcosa si è attivato per impedirmi di tirarlo fuori.»

    «Impossibile.»

    Kublai si inginocchiò a fianco dell’uomo riverso a terra. La ferita aveva smesso di sanguinare e il corpo stava riguadagnando colore, ma i suoi occhi erano sbarrati e spenti, le pupille microscopiche, la sclera costellata da venicole. Un vegetale.

    Un rantolo, e morì.

    «Capo, cosa…»

    Kublai intimò a tutti il silenzio. Stava già chiamando la centrale per chiedere istruzioni.

    Aveva appena visto un uomo morto morire di nuovo, realizzò con un nodo in gola.

    VECCHIE COLPE

    «La cena è pronta.»

    Kublai era chiuso in bagno. Si stava lavando le mani mentre si osservava allo specchio, ripetendo il gesto di insaponare e risciacquare senza prestare attenzione. La luce dei faretti era bianca e intensa, crudele nell’evidenziare qualche rughetta a lato degli occhi verdi, le imperfezioni della pelle e alcuni capelli bianchi che spiccavano sulla chioma corvina. Forse doveva iniziare seriamente a valutare di farsi dare una rifilata in un centro estetico. Non aveva mai modificato nulla del suo corpo, se non le componenti cibernetiche di base – come i potenziamenti oculari e mnemonici, le interfacce neurali per connettersi al Sistema e poco altro – che erano la norma per chiunque. Nessuno va in giro con difetti come i miei, pensò ricominciando ossessivamente a lavarsi le mani. E dire che avrebbe potuto risolverli con quella mezz’ora di trattamento che non si decideva a fare, adducendo ogni scusa possibile. Non aveva tempo, non aveva voglia, non ne vedeva il senso. E, intanto, invecchiava in un mondo di semidei sintetici.

    «Mi hai sentito?»

    «Sì, arrivo.»

    L’ennesima bussata alla porta lo fece tornare alla realtà. Erice si stava spazientendo. Era andato a trovarla nella sua tenuta di campagna, fuori Milano, per passare la serata insieme. Lei aveva fatto preparare la cena mentre lui aveva portato il vino. Un appuntamento galante, un gioco demodé che si divertivano a fare di tanto in tanto.

    Kublai uscì dal bagno e raggiunse la sala, dove c’era un tavolo graziosamente illuminato da una candela, a ridosso di un finestrone che dava su un chiostro falso-antico con un pozzo al centro e la statua marmorea di un angelo.

    «Non ti senti bene?»

    Erice gli strinse le spalle e lo fissò preoccupata. Era meravigliosa nel suo abito azzurro, col girocollo di perle, i capelli biondo platino a boccoli e gli occhi di un blu pantone. Si era fatta una rifilatura generale da poco e ora sembrava una ragazzina, tanto era priva di difetti. Le iridi sintetiche erano imbibite di coloranti che reagivano alla volontà e potevano cambiare tonalità a piacere.

    Kublai la abbracciò e fece spallucce.

    «No, niente. Pensieri sul lavoro. Oggi è successa una cosa strana.»

    Presero posto e, invocati mentalmente da Erice, apparvero due servopod su ruote che in silenzio si avvicinarono al tavolo e deposero sulla tovaglia ricamata dei vassoi d’argento colmi di bocconcini di crudités. Salmone, tonno, gamberoni, pesce-palla. Kublai aprì il vino con un cavatappi di bronzo e servì prima la fidanzata, poi più generosamente riempì il proprio calice.

    «Racconta» lo esortò Erice.

    Aveva intanto ordinato mentalmente che fosse servito il primo, un risotto destrutturato con una composta di more, baccalà e pepe. I robot servopilotati raggiunsero il tavolo, sparecchiarono e deposero delle ciotoline di cristallo con dentro i vari ingredienti, da assaggiare in ordine. Se ne andarono con un fruscio di ruote gommate, sparendo nelle stanze riservate alla servitù robotica.

    «Hanno chiamato la mia squadra per un intervento sul campo. Un tizio era scollegato dal Sistema.»

    «Era morto?»

    «No… il suo corpo era ancora vivo, ma la sua mente era, mh… altrove. L’abbiamo trovato ferito a causa di un incidente domestico.»

    Erice mormorò fra sé e rifletté sorseggiando il suo bianco. Intanto, Kublai contemplava la pace del chiostro, con i passerotti-famiglio che volavano disegnando pattern preimpostati e cinguettando allegramente. La neve copriva a chiazze i cespugli di rose.

    Poi osservò la fidanzata con affetto. Era affascinante, educata e gentile. Si conoscevano da quando erano compagni di classe nella scuola privata offerta dal Club. Erano nati fuori dalle Incubatrici, nonostante la crisi della fertilità mondiale, poi nota come Neagonia, ne avesse promosso l’uso su larga scala. Tutta la loro infanzia e adolescenza l’avevano passata frequentando altri figli naturali di famiglie che, come la loro, avevano fatto una scelta di vita radicale: essere genitori di qualcuno.

    Erice sperava di sposarsi a breve, entro massimo qualche anno, anche se lui non scalpitava. Era un rituale totalmente inutile, un retaggio dei secoli passati che non aveva alcuna valenza legale o civile. Era solo un pretesto per sfruttare con eventi mondani le ville del Club e rinvigorire antichi fasti familiari.

    Ma Kublai aveva ben poco di cui essere orgoglioso riguardo alla sua famiglia.

    «Mi stai ascoltando?» gli chiese lei.

    «Scusa, guardavo fuori…» rispose, distogliendo gli occhi dal volo ipnotico degli uccelli fra le colonne del chiostro.

    «Dicevo: com’è possibile che fosse scollegato dal Sistema, senza essere morto?»

    «Non lo so, anche in centrale non sanno come chiudere il caso.»

    «Ora come sta?»

    «È deceduto poco dopo, perché abbiamo tentato di riconnettere la sua mente al Sistema. In laboratorio dicono che il suo vault gli ha fritto il cervello cancellando ogni dato e memoria. Non sappiamo come si sia ridotto così, cosa l’abbia spinto a farlo e…»

    «… dove fosse la sua mente quando l’avete trovato.»

    «Già.»

    Erice continuò a mangiare, mentre Kublai temporeggiava. L’incursione l’aveva turbato nel profondo. Si rese conto che stava esagerando con il vino, per cui depose il calice e sbocconcellò il riso masticandolo lentamente.

    «Magari era in una realtà-70, come tanti.»

    «No, nessuna simulazione d’intrattenimento. Quelle transitano all’interno del Sistema, lo sai.»

    «Oppure era un hacker che ha scoperto come scollegarsi…» si ostinò lei.

    «Negativo. Sialon l’avrebbe impedito o, come minimo, saprebbe qual era la destinazione della connessione. Invece non ci sono tracce di dove possa aver proiettato la sua mente. Neppure Sialon lo sa.»

    Erice depose la forchetta e lo fissò interdetta.

    «Stai parlando delle ASI, di superintelligenze artificiali. Non possono non sapere cosa sta facendo un umano.»

    Kublai sospirò rassegnato.

    «Appunto, non so cosa pensare.»

    Lei si sporse per prendergli la mano.

    «Dimmi la verità.»

    Gli rivolse un’occhiata penetrante. Lui resse per un po’, poi dovette distogliere lo sguardo.

    «Come sai che c’è altro?»

    «Ti conosco da troppo tempo.»

    Kublai la baciò, poi tornò a dedicarsi al risotto. Erice aveva sempre avuto il potere di sciogliere i nodi. Non sapeva come facesse, ma era sufficiente un suo sorriso, una parola, e lui si rasserenava.

    Come quando è morta mia madre… pensò, ricacciando subito quel ricordo nell’anfratto più remoto della sua mente.

    «Quando abbiamo perlustrato casa sua abbiamo trovato delle cose strane.»

    «Tipo?»

    «Appunti, pensieri sparsi. Qualcosa legato a certe cospirazioni…»

    Erice si alzò da tavola, lo raggiunse e lo abbracciò da dietro. Intanto lo lasciò parlare.

    «Il tizio credeva che le Sialon ci stessero manipolando e che tutto questo, la nostra realtà, la nostra società… fosse falso. Che ci fossero eminenze grigie che manipolano le ASI per tenere il mondo sotto controllo e governarlo nell’ombra. Che i famigli fossero spie delle intelligenze artificiali… è arrivato a dubitare che questa sia la vera realtà

    A Kublai scappò una lacrima, forse per il tepore dell’abbraccio, forse per motivi più intimi che stava facendo di tutto per non far riemergere.

    «Non è la stessa cosa che è capitata a tua madre.»

    «Insomma…»

    «Non proiettare ciò che è successo alla tua famiglia in questa situazione. Non farlo. Non serve e non ti fa bene. Lascia i drammi nel passato…»

    «Mia madre pensava che le persone fossero state sostituite da intelligenze artificiali, Erice» insistette lui. Non voleva davvero parlare di quell’argomento, ma le parole gli scivolarono fuori di bocca.

    «Tua mamma non stava bene, e purtroppo non c’era una soluzione neurochirurgica ai suoi disagi. Lo sai questo, vero?»

    Kublai annuì.

    «Le medicine però aiutavano…»

    Erice sciolse l’abbraccio e tornò a sedersi. Su quell’argomento avevano discusso fin troppo spesso.

    «Tuo padre non ha colpe, Kublai.»

    «È stato lui a non prestare attenzione a che mia madre rispettasse il programma farmacologico» replicò. «Oppure devo prendermi la colpa di non essere stato abbastanza adulto da farmi carico anche di questo? Dopo che lui ha persino rotto ogni legame con suo figlio per rifarsi una vita in Africa, nel resort gestito dai suoi vecchi amici del Club? Gli stessi che ci hanno emarginato dopo quello che è successo!»

    Kublai si morse il labbro, aveva sbagliato a sbottare in quel modo.

    Calò un silenzio imbarazzato.

    Erice si era rabbuiata: non amava sentirlo rinnegare tutti i valori che erano stati tramandati dalle loro famiglie. Aveva accettato che lui si allontanasse dal Club dei Genitori, ma non aveva mai smesso di sperare che, una volta sposati, potessero creare un nuovo nucleo e ritrovare un posto nella società a cui erano legati per doveri di nascita. Il Club rappresentava ciò in cui credeva e, nonostante tutto, ciò di cui riteneva avessero bisogno.

    In un mondo in cui persino la procreazione era demandata al Sistema, la loro nascita da fecondazione biologica era un’anomalia. Loro stessi erano un’anomalia: ricchi, con un retaggio di valori radicato, ben educati, ma pur sempre fuori dal tempo. Erano unici in un certo qual modo, cresciuti in ambienti confinati in compagnia esclusiva dei propri simili e legati agli altri come una grande famiglia allargata.

    O almeno quella era la retorica tipica di chi faceva parte del Club.

    Kublai aveva smesso di credere a tutto questo, ma se poteva renderla felice gli stava bene. L’amava troppo per lasciarsi condizionare dai fantasmi del passato.

    Quello che era successo a sua madre era un capitolo chiuso.

    «Scusa, sai che questo argomento…»

    «Lo so, tranquillo» rispose subito lei, riprendendo a mangiare il suo risotto. «Sei ancora sconvolto per l’incursione.»

    «Già, proprio così» concluse Kublai.

    La tensione che si era creata non gli piaceva. Era la loro serata, era il loro momento insieme. Niente e nessuno doveva permettersi di turbarlo. Afferrò la bottiglia di vino, si alzò e si affiancò a Erice mettendosi in una posa piuttosto stupida, con un braccio piegato dietro la schiena.

    «Posso servirti altro vino? Sono il tuo nuovo domestico.»

    «Ah sì? E che fine hanno fatto i miei servopod?» chiese divertita lei.

    «Quella ferraglia non ti merita. Stasera sarò io a prendermi cura di te. Sono ai tuoi ordini.»

    «Davvero?» gli domandò civettuola. «Allora, voglio subito un bacio…»

    Quando Kublai si fece avanti, lei gli sussurrò all’orecchio.

    «E magari qualcos’altro…»

    OVUNQUE

    Sole bianco, aria fresca, cielo terso. Le nevicate degli ultimi giorni avevano lasciato spazio a un assaggio di primavera inaspettata. Il clima perfetto per lavorare con lo spirito lieve. Kublai aveva raggiunto l’ufficio a piedi, dopo aver fatto una corsetta nel parco della sua villa appena fuori il centro storico di Milano. Nessuna fretta. Si era anche fermato a fare colazione in un bar-rievocazione in stile mondo analogico : cappuccino e brioscina. Adorava quelle giornate di scorci blu e oro offerti dai palazzi di cristallo che popolavano il centro

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