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Amunì
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E-book278 pagine3 ore

Amunì

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Info su questo ebook

Maria Assunta, Pietro, Salvatore ed Eduardo un tempo erano molto legati. Poi la vita, o meglio i loro errori li hanno divisi e messi gli uni contro gli altri.
Tutti per ragioni molto diverse si trovano a Barcellona nello stesso momento e da lì per ognuno di loro inizierà un’avventura incerta, ma per tutti pericolosa. 
Sullo sfondo di intrighi internazionali, di interessi nazionali, di rapporti mafiosi tra Istituzioni e malavitosi, Giovanni Robino intreccia le vite e le strade dei protagonisti tra l’Europa e l’Africa, e piano piano disvela e sviluppa le loro storie, gli amori, i rancori, le ferite aperte che in qualche modo continuano a unirli anche contro la loro volontà.
Finché tutto si capirà e tutto si sbroglierà!

Giovanni Robino, Trapani, 1947. Laureato in legge presso l’università di Palermo è stato dirigente amministrativo presso la Asl Trapani. Ha svolto molteplici attività formative da docente nel campo della comunicazione e del diritto per importanti enti pubblici e privati. Da oltre vent’anni, dopo importanti esperienze sindacali, è dirigente nazionale di una prestigiosa associazione dei consumatori con il compito di realizzare iniziative volte al ripristino di diritti negati da parte della pubblica amministrazione. Si è occupato e si occupa di informazione televisiva nel ruolo di conduttore di programmi culturali e sociali in televisioni private. È coautore insieme a Vincenzo Savatteri e Vito Di Franco del libro Crimini e malvagità edito da Sanvincenti.
È autore del libro Pizzo bianco edito da Albatros.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2021
ISBN9788830637801
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    Anteprima del libro

    Amunì - Giovanni Robino

    Vincent

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    UNO - INCUBI

    I sogni aiutano ad alleggerire la fatica di una stupida esistenza e il peso insopportabile di un sistema di vita che non ti appartiene.

    Maria Assunta da troppo tempo non riusciva più a sognare di fare sesso per appagare il proprio io insaziabile.

    I sogni con perfidia avevano lasciato posto agli incubi peggiori.

    Per una sorta di autodifesa e per non farsi sconfiggere si svegliava parecchie volte la notte, era arrivata al punto di temere di addormentarsi.

    Il suo pensiero sempre lì, al mondo che aveva lasciato e a quello in cui era costretta a vivere nella città di Barcellona avendo cura di non essere scoperta.

    Era assillata da una rabbia incontenibile per non avere potuto scegliere di dominare la propria vita e quella degli altri.

    Odiava la stupida e inetta Gabriella Zanca che era stata costretta a interpretare e alla quale aveva rubato l’identità.

    «Questa figlia di puttana mi sta cambiando e mi vuole uccidere, si è impossessata della mia anima, non lo permetto».

    «Io sono Maria Assunta avete capito?».

    «Sono la dottoressa Maria Assunta Zuccarello non temo nessuno e non mi fate paura!».

    Gridò talmente forte che pensò di avere svegliato i vicini di casa.

    Oramai non si preoccupava più di tenere in ordine l’abitazione, il letto era in disordine da parecchio tempo e le stanze piene di bottiglie vuote che nessuno toglieva, i bei vestiti abbandonati sulle poltrone.

    Sciacquò velocemente il viso e indossò per la decima volta un paio di jeans scoloriti e una maglietta bianca con una stampa blu raffigurante un mare in tempesta, non trovò un paio di calze pulite, mise ai piedi un paio di Nike bianche senza calze.

    Afferrò da terra un giacchino blu con le maniche color miele e con un gesto di stizza inforcò gli occhiali da sole, fece fatica a recuperare la borsa che era finita chissà per quale motivo sotto il divano, uscì da casa sbattendo la porta d’ingresso.

    L’aria pungente di quella mattina a Barcellona sferzata dal vento di tramontana le riempì i polmoni e l’obbligò a fermarsi in un punto dove confluiscono due vie.

    Si appoggiò all’insenatura della strada che conosceva a memoria per averla percorsa tante volte.

    Non c’era anima viva, solo il vento che, costretto a incunearsi nelle viuzze, produceva un rumore fastidioso simile a un lamento.

    Era stanca, molto stanca con le gambe tremanti e senza forze.

    Si lasciò cadere su uno scalino di marmo rosso venato di bianco che permetteva l’accesso a un portone celeste con un’enorme borchia di metallo giallo al centro raffigurante uno scorpione.

    Prese la testa tra le mani tremanti e i capelli, naturalmente biondi ma tinti di nero, scesero davanti ai suoi occhi.

    Sentì che qualcuno la stava osservando.

    Alzò di scatto lo sguardo, davanti a lei immobile un cane, un bellissimo pastore tedesco di colore nero con una macchia bianca sul dorso la fissava incuriosito.

    Lei non amava gli animali, suo padre per il dodicesimo compleanno le regalò un bellissimo esemplare di labrador del quale si stancò quasi subito.

    Dopo un mese e dietro pagamento di un bacio sulla bocca incaricò un ragazzo di cinque anni più grande di prelevare il cane per abbandonarlo il più lontano possibile.

    Disse a suo padre, quasi piangendo, che qualcuno lo aveva rubato e che non avrebbe più accettato animali per il grande dolore che aveva provato.

    Come ti chiami, cane? Guardandolo fisso negli occhi.

    Ti chiamerò Salvatore, come un mio amico al quale ho voluto tanto bene.

    Sei anche tu solo come me? Vuoi che ti racconti la mia storia? Forse tu potrai capirmi.

    Stava allungando la mano per accarezzarlo quando senza fare alcun rumore si aprì il portone celeste.

    Il cane fece uno scatto e di corsa scomparve dentro la casa.

    Si lasciò scappare un sorriso al pensiero che neanche gli animali amavano la sua presenza.

    Lentamente si alzò dal gradino di marmo aggiustò i capelli e s’incamminò sfidando il vento che ancora più impetuoso soffiava tra i vicoli.

    DUE - LA MALATTIA

    La diagnosi dell’ospedale era chiara, terribilmente chiara: carcinoma al colon.

    Pietro non fu lasciato da solo un istante dal suo amico Eduardo.

    Un jet privato con équipe medica al seguito trasportarono il paziente da Roma all’aeroporto di Trapani.

    Ad attenderlo un’ambulanza che l’accompagnò a casa.

    Intontito dai farmaci, fu adagiato sul suo letto assalito dalle solite paure.

    Quante volte si trovò da solo a combattere i mostri che gli rodevano il cervello.

    Quante volte accettò mal volentieri le sconfitte inflitte da sua moglie Maria Assunta, da suo padre e da suo nonno.

    Quante volte era sprofondato nel nulla, senza trovare una via d’uscita.

    Pensava di avere riscattato la sua esistenza, di essersi lasciato tutto alle spalle, era diventato ricco e poteva dare una svolta al suo futuro.

    Anche questa volta, però, un’ennesima sconfitta, forse la più dura di tutte, quella definitiva.

    Eduardo vienimi vicino, implorò con voce tremante.

    Il suo amico non se lo fece ripetere.

    Dammi le mani.

    Eduardo gli porse le mani e Pietro gliele strinse con la poca forza che gli permetteva il dolore che andava facendosi sempre più forte.

    «Promettimi che farai tutto il possibile per salvarmi la vita, lo sai, i soldi non mi mancano, tutti i miei beni saranno anche tuoi se riuscirò a sopravvivere a questa maledetta malattia».

    «Pietro, caro amico, non ti abbandonerò mai lo prometto, cercheremo il posto migliore al mondo per curarti».

    Dopo soli quattro giorni s’imbarcarono su un volo Alitalia con destinazione Barcellona.

    L’aereo atterrò puntuale alle 18:15, ad attenderlo un’ambulanza che dopo soli trenta minuti raggiunse a sirene spiegate l’Hospital International di Barcellona.

    Un ospedale immenso, funzionale e straordinariamente efficiente.

    Un ascensore interno tutto a vetri portò i due amici al nono piano nel reparto di chirurgia oncologica dove li attendeva un’équipe di medici e infermieri in una stanza dotata di tutti i comfort.

    Dopo una visita medica approfondita, fu sottoposto a tutti gli esami del caso.

    TRE - L’INCIDENTE

    Salvatore si era perfettamente calato nel suo vecchio lavoro di dipendente della sua amata società che gli aveva dato una seconda occasione.

    Gli incontri di lavoro in giro per l’Europa avevano fornito la prova ai suoi superiori che potevano contare ancora su un dipendente capace, perbene e motivato.

    Si svegliò appena in tempo per dare un’occhiata giù dall’aereo che lo stava portando a Barcellona.

    Aveva dormito tutto il tempo del volo, passò la mano tra i capelli, non tanto per metterli in ordine quanto per avere la certezza di essere sveglio.

    Con calma aggiustò il nodo alla cravatta, si assicurò di avere con sé la valigetta con i documenti aziendali e attese l’atterraggio dell’aeromobile.

    Il Boeing 737 toccò terra sull’aeroporto El Prat di Barcellona con un ritardo di sei minuti.

    Guardò il cielo coperto di nuvole grigie che non promettevano nulla di buono e scese quasi subito dalla scaletta anteriore perché seduto nella seconda fila.

    L’aeroporto, tra i più trafficati d’Europa, era gremito di turisti affascinati dalla bellezza di questa città.

    Dopo circa mezz’ora recuperò ai nastri il suo bagaglio e velocemente si diresse verso l’uscita.

    La fila per prendere un taxi era infinita, centinaia di persone vocianti cercavano di contendersi i pochi presenti.

    Doveva raggiungere l’albergo Las Meravillas di Barcellona, fu preso quasi dal panico, aveva appena il tempo di fare una doccia perché entro due ore esatte avrebbe dovuto incontrare un cliente molto importante.

    «Coche privado, señor?».

    Un tizio alto non più di un metro e cinquanta, pantaloni rossi, golf pesantissimo rosso fuoco, scarpe a punta e occhiali rossi con lenti spessissime propose di accompagnarlo a destinazione.

    Gli chiese trenta euro per portarlo a destinazione.

    «OK, va bene», rispose Salvatore tirando un sospiro di sollievo.

    Raggiunsero l’auto dopo appena cinquanta metri.

    Il tizio aprì la portiera di una vecchia e malandata Fiat croma grigia, il bagaglio fu riposto sul sedile posteriore e Salvatore sedette su quello anteriore.

    L’auto partì singhiozzando, l’autista forse per la fretta di ritornare in aeroporto per prelevare altri clienti sfrecciò lungo la via d’uscita a velocità impressionante.

    Non si fermò allo stop e a tutta velocità inforcò la strada a scorrimento veloce che portava nel centro città.

    Non si accorse di una berlina blu che marciava anch’essa a velocità elevata.

    L’impatto fu inevitabile.

    La Fiat croma girò tre volte su se stessa e andò a sbattere violentemente contro il guardrail.

    Salvatore capì di essere stato vittima di un incidente dentro l’ambulanza che a sirene spiegate lo stava trasportando in ospedale.

    Accusava un dolore molto forte al lato destro del corpo, provò a muovere i piedi e le mani che fortunatamente risposero alle sollecitazioni.

    Dal sopracciglio destro perdeva un po’ di sangue che gli infermieri tamponarono immediatamente.

    «Come sto?», chiese al medico a bordo.

    «Non lo sappiamo, è necessario eseguire alcuni esami», fu la risposta.

    Arrivarono in ospedale dopo trenta minuti.

    Ad attenderlo due operatori sanitari che, dopo averlo sistemato su una barella, lo accompagnarono al pronto soccorso.

    Un medico lo sottopose a una visita accuratissima che durò non meno di quaranta minuti.

    «Lei è stato molto fortunato», disse con un sorriso. «Ha qualche escoriazione, ma occorre tenerla in osservazione per qualche giorno».

    Salvatore ringraziò con uno sguardo.

    Due infermieri lo condussero al nono piano nel reparto di medicina generale attiguo a quello dei malati oncologici.

    Il suo pensiero fu rivolto a S. Rosalia e alla sua amata zia.

    Grazie Santuzza (così i palermitani chiamano Santa Rosalia) per avermi protetto anche questa volta.

    Senza volerlo gli vennero in mente le vicissitudini dell’ultimo periodo della sua vita: la ricchezza perduta sottratta con l’inganno da quello che considerava il suo migliore amico, i tradimenti, gli amori, il lavoro, le delusioni, le sconfitte e Maria Assunta su tutto.

    Un velo di tristezza gli accapponò la pelle, dolorante si alzò dal letto, indossò la vestaglia e uscì dalla stanza.

    Aveva bisogno di distrarsi, vedere gente forse per convincersi, passeggiando nel corridoio esterno, che c’erano persone che stavano peggio.

    QUATTRO - MI FIDO DI TE

    Erano passati sette giorni da quando Pietro era stato operato con successo dal migliore chirurgo al mondo venuto apposta dagli Stati Uniti d’America, dott. Leonard Mattera di origini italiane.

    La ferita dell’operazione era quasi del tutto rimarginata.

    Si sentiva molto debole ma determinato a riprendersi la propria vita.

    Il suo amico Eduardo non lo lasciava da solo un solo istante.

    Aveva fatto amicizia con quasi tutti gli operatori sanitari dell’ospedale e con gli stessi ricoverati.

    Anche quel giorno Pietro ricevette la visita del suo amico.

    «Ciao mio caro amico», esclamò mentre varcava la soglia della stanza dell’ospedale. «Ancora cinque giorni e finalmente potremo tornare a casa».

    «Il bravissimo dottor Mattera ha escluso una ricaduta, abbiamo avuto una bella fortuna intervenendo in tempo, finalmente si torna a vivere».

    «A proposito, caro Pietro, ho portato il modulo bancario per il pagamento dell’onorario al chirurgo. Non è indicata la cifra totale in quanto ai centomila euro del suo onorario vanno aggiunte le spese ospedaliere, il cui conteggio mi sarà fornito a breve».

    «Nessun problema», rispose Pietro. «Lo sai, caro Eduardo, mi fido ciecamente di te che mi hai salvato la vita».

    Recuperò una penna dal suo comodino e appose la firma in calce al modulo bancario con il quale delegava il suo amico a gestire le operazioni di prelievo lasciando in bianco la specifica della somma.

    Eduardo con calma s’impossessò del modulo che ripiegò su se stesso e lo ripose all’interno del borsello del quale non si separava mai.

    Pietro ancora una volta si reputava fortunato di avere un amico sul quale poteva fare pieno affidamento.

    Senza di lui non avrebbe potuto arricchirsi sulla pelle di Salvatore, senza di lui poteva anche morire, senza di lui non avrebbe potuto continuare la sua vita rovinata da sua moglie Maria Assunta.

    Eduardo si alzò dalla poltroncina verde accanto al letto di Pietro e dopo avergli stretto con forza le mani in segno di affetto si diresse verso la porta d’uscita.

    Non fece in tempo ad aprirla perché il suo amico pronunciò il suo nome.

    «Eduardo, Eduardo,

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