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L’odore delle Emozioni
L’odore delle Emozioni
L’odore delle Emozioni
E-book610 pagine9 ore

L’odore delle Emozioni

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Info su questo ebook

Intriganti, interessanti, avvincenti: i racconti di Fabio Landi hanno tutte le migliori qualità per coinvolgere il lettore in una appassionante lettura che è più che un passatempo. Uniscono, infatti, diverse sfumature narrative in una prosa chiara ed affabile, incontrando i gusti di un pubblico anche esigente, impossibilitato ad annoiarsi tra pagine letteralmente da divorare: una fantascienza fin troppo reale, uno spaccato sociale a tratti amaro, la scoperta della propria identità, delle proprie passioni, un umorismo accattivante, il thriller e il noir, l’impossibile che diventa possibile... ce n’è per tutti gusti, permettendo di volare in un attimo da un contesto ad un altro, rimanendo però sempre estremamente appagati.

Fabio Landi è nato a Roma nel 1956 e a Roma ha studiato e lavora da sempre, laureandosi in Sociologia e conseguendo un dottorato in Teoria e ricerca sociale. È sposato e ha due figli. Il suo percorso professionale si è svolto nell’ambito delle politiche comunitarie di coesione; in particolare, si è occupato a lungo di teoria critica della società e di approfondimento delle problematiche dell’inclusione sociale, soprattutto quelle delle fasce deboli e culturalmente deprivate. A partire dal 1985, ha svolto prevalentemente attività di studio, ricerca, insegnamento, sperimentazione pedagogica e ha pubblicato numerosi saggi. Da sempre onnivoro lettore di ogni genere ed appassionatissimo di musica e cinema, dal 2013 ha iniziato a dedicarsi in proprio alla redazione di racconti brevi e romanzi. La raccolta L’odore delle emozioni costituisce il suo esordio letterario.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2020
ISBN9788830626027
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    Anteprima del libro

    L’odore delle Emozioni - Fabio Landi

    Fabio Landi

    L’odore delle Emozioni

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2602-7

    I edizione elettronica luglio 2020

    Dedicato a

    Rosaria,

    Lorenzo,

    Federica

    ed anche a Sofia e Rinaldo.

    «Before you cross the street

    Take my hand

    Life is what happens to you

    While you’re busy making other plans»

    (John Lennon, Beautiful boy, album: Double Fantasy)

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile:

    Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere.

    Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi, ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre, è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi, potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    L’odore delle emozioni

    «Che sensazione di liberazione, di spazio; la casa sembra grande il doppio, ora che finalmente se ne sono andati tutti gli ospiti...» disse Elena.

    «A chi lo dici, una sensazione di ebbrezza, quasi: tornare ad usare tutti i nostri spazi, le stanze di quei barbari che tornano nostre... dà euforia! Guarda Rinaldo, il gatto è addirittura più contento di noi!» rispose Massimo.

    Rino, infatti, esplorava tutto ronfando sonoramente, strusciandosi agli angoli dei muri delle stanze... ogni tanto, con la coda diritta, lanciava uno sguardo languido verso i padroni, strizzava gli occhi... li accompagnava nella camminata per la casa o con improvvise corse in avanti ne anticipava i passi.

    «Certo! Tornare nelle stanze che gli sono state proibite per anni... dormire sui letti... entrare negli armadi e nei cassetti, annusare di nuovo i maglioni... guarda che muso soddisfatto ha!» concordò Elena.

    «È stata dura... – disse Massimo con un sospiro – non posso credere di essere andati avanti per due anni con il bed and breakfast... e poi gli affitti agli studenti, ancora peggio; ora che tutti se ne sono andati, che il B&B è chiuso, che lavoro di nuovo e l’emergenza è alle spalle, è una sensazione... mi fa venire in mente quanto sia più bello ritrovare un vecchio oggetto, non so, riparare un giradischi che pareva da buttare via, che non comperare nuove cose. È più emozionante ritrovare che comprare».

    «Sai, però cosa ci aspetta ora...».

    «Lo so... la cantina da sgomberare... l’ebbrezza durerà poco, se penso alla fatica che ci attende... disdire il contratto, riportare tutto qui a casa...».

    «D’altronde, la cantina ha svolto il suo compito, bisogna lasciarla, Massimo. Non ha più senso pagare, non ci serve più. È stata indispensabile: senza la cantina, non avremmo mai potuto liberare spazi per il B&B, svuotare gli armadi... se solo non fosse stata così distante da casa, l’avrei anche tenuta.».

    «Sì, anche io, ma ci saremo andati quattro volte in tre anni...».

    «C’è una cosa su cui non so quanto tu abbia riflettuto, conoscendoti».

    «Qualcosa mi dice che me lo dirai tu presto, anzi fammi fare un esercizio. Quasi quasi te lo leggo nel pensiero: che sgomberare la cantina sarà una scocciatura, ma anche l’opportunità di svuotare gli spazi, buttare via un sacco di roba. Chissà quanto ti piacerà, razionalizzare gli spazi!».

    «Naturalmente tu non la vedi così, tu che non butteresti mai niente».

    «Io... non lo so. Nemmeno ricordo con precisione, dopo tre anni, che cosa sia finito in quel posto. Non posso sapere se mi vada, adesso, di sbarazzarmene o no».

    «Ma ragiona: se nemmeno ricordi che cosa contengano gli scatoloni, non è un segno che si tratta di cose inutili, di cui ora si potrà fare a meno? Se ce le siamo dimenticate, se non ne abbiamo avuto bisogno per tre anni, dovremmo averne bisogno ora solo perché sono cose che ci ritroviamo sotto gli occhi? Ovvio che non butteremo tutto, altrimenti basterebbe chiamare uno sgombera-cantine. Dico però che sarà l’occasione per scegliere, riordinare...».

    «Sì, è vero, come al solito il tuo ragionamento ha una logica schiacciante. Sabato prossimo iniziamo: andiamo lì e cominciamo a vedere, organizzare. Un solo fine settimana non basterà, ce ne vorranno due o tre...».

    Elena e Massimo sapevano che la cantina, nel corso dei quasi tre anni trascorsi, era sbiadita nel loro ricordo... non osavano provare a ricordare quanti oggetti custodisse. Ma ormai da tempo era diventata un deposito silente di ricordi: quegli oggetti, quei documenti, quegli abiti che giacevano distanti da anni, avrebbero mai avuto una utilità, uno scopo per essere conservati? Oppure, Massimo rimuginava, si può vivere tranquillamente senza, o quantomeno si è nel tempo andata perdendo la percezione della loro utilità, della loro ragion d’essere? Si può riportare un ordine negli oggetti stessi, ripensarli all’interno degli spazi di una casa che, nel frattempo, è cambiata?

    Anche Elena e Massimo non erano quelli di tre anni prima... le difficoltà e le vicende di salute avevano tramutato entrambi. Massimo era invecchiato più negli ultimi tre anni che negli ultimi venti. Il suo mondo emotivo era stato sconvolto dall’esaurimento nervoso, fino al trauma del ricovero, dell’ansia in attesa degli esiti degli esami clinici. Sì... adesso, grazie a Dio, il peggio era passato, il percorso della guarigione era avviato ma, nella lacerazione della propria intimità che sentiva di aver subito, i punti di riferimento delle sue emozioni, dei suoi ricordi non erano più gli stessi... i suoi programmi per il futuro erano stati profondamente sconvolti. Si sentiva molto più fragile di un tempo e guardava alla propria vita rivolto più al tempo trascorso che a quello futuro.

    Nemmeno Elena era la stessa di prima: si era consumata, aveva prosciugato le proprie energie dietro la malattia di Massimo, aveva portato avanti la famiglia quasi da sola, tirando fuori da un cilindro ormai troppo liso infinite strategie di sopravvivenza. Per entrambi, razionalizzare e ripensare gli oggetti, i materiali, i documenti, i vecchi giocattoli in cantina, equivaleva ora a riposizionarli in uno spazio emotivo diverso.

    Massimo ed Elena entrarono nella cantina come tecnici della scientifica in un episodio di CSI: tute da ginnastica, guanti di gomma, occhialoni antipolvere, mascherine a proteggere nasi e bocche e poi una borsa piena di grandi buste di plastica, scotch, forbici, attrezzi di lavoro. Mezz’ora dopo, la porta della cantina era aperta, la luce accesa, il vano antistante era ora invaso dagli scatoloni, dalle valigie, dai contenitori in cui erano stati stoccati tutti gli oggetti portati via da casa per liberare spazi e poter poi affittare le stanze agli ospiti.

    Mentre rovistava negli scatoloni e nelle buste, Massimo decise di disfarsi di una grande quantità di carte e documenti: erano in buona misura atti amministrativi riferiti a concorsi pubblici di tanti anni addietro, occasioni perdute o colte, curriculum vitae ed elenchi di pubblicazioni che – a pochi anni ormai dalla pensione – non potevano né dovevano essere più esibiti per nessuno. Andava verso la fine della propria esperienza e della propria storia di lavoro, non sarebbe occorso dimostrare più nulla, né agli altri né a sé stesso: quel che era fatto era fatto. I libri e gli articoli pubblicati quasi certamente non sarebbero mai stati più letti da nessuno, non avrebbero dovuto mai più attestare nulla: molto di quello che era stato inutilmente e faticosamente pensato e scritto ora poteva essere gettato via, far parte della razionalizzazione degli spazi. Mentre Massimo prendeva in mano quelle carte e le esaminava brevemente, prendeva nota dei decenni trascorsi da quando erano state scritte, richieste da qualcuno, del tempo in cui avevano significato qualche cosa. Quanta fatica sprecata, pensava Massimo, quanta intelligenza buttate via per questioni e problemi che parevano, venti o trenta anni prima, così importanti e che non erano altro, adesso, che questioni e carte inutili, reperti di un passato il cui unico significato emotivo ora pareva l’eccesso: l’eccesso di tempo e lo spreco dell’investimento emotivo che vi erano stati dedicati.

    Via, via! Buttare via! Senza rimpianti, senza rimorsi... ha ragione Elena – pensava Massimo – questa roba può non tornare a casa, può finire in un cassonetto della spazzatura senza rimpianti....

    Massimo era quasi catturato da una furia di razionalizzare, gettare il passato inutile nella spazzatura... tuttavia, ad un tratto, proprio mentre stava per pigiare nel sacco della spazzatura l’ennesimo blocco di vecchi documenti, scorse quasi nascosto in un lato del sacco un foglio pieno di forme e colori elementari...

    «Ah! Un momento, diavolo!».

    «Che hai?!» fece Elena allarmata.

    «Guarda che cosa stavo buttando via preso dalla foga!».

    «Oddio! Un disegno di Federica, degli anni dell’asilo, addirittura!».

    «Guarda Elena, si riconosce... ma sì! È un disegnino di Paco. Ti ricordi? Tornammo dalle vacanze estive e trovammo un pappagallino scappato da chissà dove, che aveva trovato riparo nella sua stanza».

    «E Fede ci chiese di tenerlo ed anche tu, mi ricordo, dicesti che cantava quando mettevi i dischi di Charlie Parker...».

    «Una propensione, un’assonanza che non potevano essere casuali».

    «Fede fu così felice della decisione che decise di immortalare l’evento e poi dopo una settimana gli comprammo anche una fidanzata...».

    «Sara...».

    «Non possiamo correre il rischio di buttare via, col resto, questi tesori».

    Infatti, gli scatoloni non contenevano solo le carte del passato... le vecchie buste paga, le certificazioni, le relazioni, le note, gli esami clinici, i verbali... le idee... no. Gli scatoloni e le valigie iniziavano a portare alla luce mille altri aspetti del passato... altri ricordi...

    Il tuffo nel passato travolse Massimo ed Elena con molte cifre emotive diverse: tristi, grottesche, divertenti, commoventi... iniziarono a scorrere davanti agli occhi e riassumere spessore e peso nelle loro mani vecchi oggetti impolverati, abiti ormai divenuti troppo stretti o fuori moda, attrezzi sportivi divenuti ora troppo ingombranti, vecchie cornici vuote che un tempo avevano contenuto immagini ora dimenticate, icone e simboli che erano stati e forse erano tuttora importanti per loro due e per i loro figli. Iniziarono a riassumere spessore e peso, oltre ai giocattoli, soprattutto le immagini su carta, fotografie, disegni, lettere e fogli riempiti dei messaggi e delle scritture dei bambini: questi, sopra ogni altra cosa – avvertirono Massimo ed Elena – avevano mosso qualcosa dentro di loro, pur senza la necessità di dirselo esplicitamente.

    Come Massimo aveva previsto, lo sgombero della cantina diventò un percorso a più tappe: diversi fine settimana furono necessari per organizzare i viaggi, i trasporti delle cose da riportare a casa, quelli verso i cassonetti della spazzatura, quelli da amici o parenti interessati a recuperare qualche oggetto. Le serate, a casa, vennero dedicate all’esame del contenuto degli scatoloni delle cose conservate. Tutto si analizzava insieme, si riposizionava negli spazi della casa, vecchi, nuovi o semplicemente riconquistati. Molte delle cose della cantina, non eliminate ad un primo esame, venivano riesaminate e smaltite dopo, nei cassonetti della spazzatura sotto casa.

    Nel corso della settimana, Massimo ed Elena andavano al lavoro, come al solito. E, proprio sul lavoro, Massimo ne parlava con il suo collega ed amico Andrea, molto più giovane di lui...

    «Credimi, Andrea, l’aspetto più lacerante di questa esperienza, sono proprio le immagini del passato... l’enorme quantità di fotografie e disegni che hanno accompagnato, dagli anni dell’asilo fino a quelli della gioventù e della maturità, l’universo iconografico dei miei figli...».

    «Universo icono-che?! Per favore... io ti ascolto volentieri, ma se filosofeggi o fai troppo il sociologo ti seguo poco...».

    «Universo iconografico... l’iconografia si occupa di quelle immagini che possono essere una fonte documentale utile alla ricostruzione di eventi, usanze, costumi, contesti storico-culturali... Nella storia di una famiglia, io dico che sono un universo non solo perché sono tantissime, ma anche perché possono racchiudere tanti significati differenti...».

    «Sì, ma... in pratica?».

    «In pratica sono centinaia di fotografie: della famiglia, delle classi scolastiche dei figli, dei viaggi, degli amici, dei fidanzati e delle fidanzate, dei gatti, del cane... e centinaia di disegni infantili, via via, nel corso del tempo, sempre meno abbozzati e sempre più definiti nelle forme e nei colori, generati dalla fantasia del sogno e da quella emotiva di Lorenzo e Federica, stimolati dagli insegnanti o emersi dal flusso quasi involontario del loro mondo interiore in crescita, dei propri punti di riferimento affettivi...».

    «Ho capito... allora anch’io ho tanti universi iconografici. La storia di me e della mia famiglia, gli amici, le fidanzate... Anche i miei genitori conservano i miei disegni delle elementari».

    «Esatto! Ci saranno decine di dediche da parte dei miei ragazzi per i nostri compleanni, composizioni fatte di messaggi, ornamenti di cartapesta incollati, conchiglie, piccole pietre colorate. Forse, la cosa che ci ha colpito di più è stata una cartellina, piena zeppa di tante fotocopie di un unico messaggio... guarda».

    Massimo tirò fuori dalla cartellina una fotocopia sgualcita. Il messaggio sulla fotocopia diceva: Attenzione, smarrita una gatta certosina grigia con una macchia bionda sulla metà destra del muso: ricompensa a chi ritrovi questo animale di inestimabile valore affettivo.

    «Di che si tratta? Un avviso che avevate diffuso per ritrovare un gatto smarrito?».

    «Sì... è stato duplicato ed affisso in ogni possibile angolo del quartiere. Un ricordo drammatico... parecchi anni fa, Lorenzo e Federica erano bambini, ci fu il misterioso smarrimento della nostra amata gatta che ha accompagnato la loro infanzia... Lorenzo, che era più grandino di Federica, ha cercato inutilmente di ritrovarla frugando ogni angolo del quartiere e tappezzandolo di questo appello accorato. Un bimbo che parla di inestimabile valore affettivo... è la prova che quella piena di emozioni, di sentimenti e di amore è stata parte di una storia, di un racconto familiare, che non solo io ma l’intera famiglia ha attraversato».

    «Conservatelo, allora, questo avviso...».

    «Era solo un esempio, quelle scatole, in realtà, sono piene di cose di questo tipo, capisci? Quello che mi mette in crisi, mi lacera, è la domanda: che cosa conservare, ora, di tutto questo? Che cosa gettare via? Perché conservare, per quanto tempo? Con quale probabilità che torni il giorno, il pomeriggio piovoso d’inverno nel corso del quale porre sulle proprie ginocchia e riguardare i disegni e le fotografie, magari facendosi travolgere, al tempo stesso, dal divertimento e dalla nostalgia, dal riso e dal pianto, come due facce indistinguibili della medesima osservazione dello scorrere del tempo?».

    «Proprio non riesci a parlare e pensare in un modo meno complicato, eh? E soprattutto, non riesci a non esagerare: con te ogni cosa si carica di un pathos sproporzionato. E alla fine ti fa stare male... non lo capisci? Io non so quanto riesca a seguirti su questo terreno, soprattutto ad esserti utile».

    «Si tratta di immagini e fotografie da riordinare, cui dare una serie di spazi organizzati che ne rendano intellegibile il posizionamento nel tempo e nel ricordo stessi, un vero e proprio lavoro che richiederà tempo e dedizione e che – soprattutto – produrrà nuovi volumi, nuovi spazi da occupare, mettendo a repentaglio la ratio originaria dalle quali il nostro lavoro è partito: vale a dire, ottimizzare gli spazi».

    A quel punto Andrea, che oltre ad essere un esperto di informatica era anche un appassionato di nuove tecnologie, congegni audio-video e domotica, ebbe un’illuminazione e capì come aiutare Massimo.

    «Ma allora, se questo è il lavoro da fare, perché straziarsi l’anima, pensare a ri-accumulare volumi su volumi? Le parole-chiave sono: digitalizzazione, smaterializzazione...».

    «Scannerizzare, intendi dire? Mettere tutto in un hard disk?».

    «Certo! Centinaia di pagine, foto e disegni potranno essere recuperati in un piccolo supporto magnetico. Tutto o quasi delle cose delle quali mi hai parlato, in realtà, può essere smaltito, gettato via. Dopo che sia stato fotografato, scannerizzato o compresso in un minuscolo chip di memoria elettronica, tutto o quasi può essere, al tempo stesso, superato e conservato».

    «Ma noi non siamo in grado di...».

    «Subentro io. Voi dovete continuare a scegliere... e quando avrete finito, passerò un week end da voi e faremo insieme la digitalizzazione».

    Ed è proprio questo che, con l’aiuto e l’affiancamento di Andrea, fecero nei giorni successivi. In capo ad una settimana, Massimo ed Elena – una volta memorizzate le cose importanti nelle capaci e rassicuranti stanze di un hard disk – erano nella condizione di riempire una decina di grandi scatole di documenti, disegni, foto e carte. Da quel momento, immagini, disegni e molte foto potevano essere buttate via, o ricomprese all’interno di grandi scatole di cartone da donare ai rigattieri, o ai rivenditori di libri usati, o ai clochard che presidiavano i cassonetti dell’immondizia alla ricerca di qualcosa di utile o di rivendibile. Foto, disegni ed oggetti – nei giorni successivi – si dispersero in mille rivoli e luoghi della città: cassonetti dell’immondizia, negozi di cose usate, rivenditori di fumetti e libri, mendicanti...

    Il lavoro terminò, la cantina tornò all’ente che ne era proprietario. La casa era ordinata e pulita, gli oggetti utili erano tornati negli armadi e nelle cassettiere di provenienza, il soppalco era di nuovo pieno di scatole e valigie...

    Il primo sabato pomeriggio di riposo e di pace, dopo la grande fatica dello sgombero, a Massimo venne la voglia di accendere il computer e riscorrere con lo sguardo, sul suo schermo, alcune di quelle icone conservate e digitalizzate, recuperare ricordi ed emozioni ora miniaturizzati ed ordinati in uno spazio infinitamente piccolo ed allo stesso tempo infinitamente capiente.

    Ma il suo viaggio nel passato, nei ricordi, non riusciva. Mentre scorreva sullo schermo del computer le foto e le icone dei disegni, vecchi libri consumati di favole e di divulgazione scientifica, sentiva che qualcosa sembrava essersi perso... quelle immagini e quei disegni avevano perduto la propria aura, come l’avrebbe chiamata Benjamin. There is a hole where you are supposed to be scrisse John Lennon in una canzone dedicata a Yoko Ono, per descriverle come si sentiva, quello che provava quando la sua quotidianità era deprivata della presenza fisica di lei: c’è uno spazio vuoto dove invece dovresti essere tu...

    Le immagini, i disegni, le dediche dei bambini, i dinosauri riprodotti, le streghe, le fate, i cani ed i gatti, i libri delle favole lette per anni ai bimbi prima che si addormentassero, papà e mamma nei disegni della fantasia di trenta anni prima, tutto aveva perso qualcosa: la smaterializzazione aveva tolto loro consistenza, fisicità, polvere, tempo reale, colori sbiaditi e veri, soprattutto odori. Erano le consistenze degli oggetti e delle carte nella mani di Massimo a non trovare più la concretezza di un tocco e la potenza evocativa di un odore... una macchia di latte ed orzo sull’angolo di un vecchio libro, una pagina strappata e riparata con lo scotch che, nel corso del tempo, si era ingiallito e che rimandava, con esattezza straordinaria, al momento preciso in cui quella pagina si era strappata, al viso di un figlio addolorato o deluso e poi rasserenato, perché una mano amorevole aveva concretamente riparato quell’oggetto e quel sentimento e trasformato quello scotch ingiallito in una testimonianza ed in una promessa di conservazione, di amore. Di certezza che nulla di quel tesoro sarebbe mai andato perduto.

    È così sembrava essere per tutti gli oggetti smaterializzati, la scomparsa dell’odore e della consistenza fisica avevano tolto loro spessore e capacità di creare un nesso con il passato, avevano fatto un danno emotivo alla memoria; a Massimo tornava in mente Dalla parte di Swan, il primo volume della Recherche di Proust. Cento pagine dedicate al ricordo ritrovato di un sapore, quello di un particolare biscotto bagnato nel tè, che aveva riportato Marcel indietro nel tempo, nel contesto di un’atmosfera, di un universo emotivo popolato da persone (la madre, i parenti, gli amici della fanciullezza, i luoghi delle vacanze e delle passeggiate nei giardini antistanti la casa delle vacanze), fino a fargli recuperare, quaranta anni dopo, il tempo perduto. Occorrono migliaia di pagine e sei volumi, pensò Massimo, partendo da Dalla parte di Swan fino ad arrivare all’ultimo volume Il tempo ritrovato, per comprendere l’enigma di quelle prime trecento pagine, davanti alle quali interrompe il percorso di lettura il novantanove per cento degli aspiranti lettori di Proust. La chiave di comprensione del viaggio, la soluzione dell’enigma, come in un romanzo giallo, è nell’ultimo volume.

    Allo stesso modo, i disegni di Lorenzo e Federica, le dediche a mamma e papà, non esprimevano solo l’assolutezza incondizionata dell’amore dell’infanzia – il contenuto dei messaggi – ma la forma e gli odori del momento, degli attimi in cui erano stati scritti. La ricerca disperata della gattina scomparsa, le fotocopie di quella richiesta accorata di aiuto per il suo ritrovamento, erano altrettanti segni di quell’inestimabile valore affettivo che riportava alla memoria il mondo emotivo, la casa di trenta anni fa, le sue stanze, i suoi spazi, il suo disordine popolato dalle corse, dalle risate, dai pianti, dalle grida e dalle emozioni dei figli, della madre, del padre, delle nonne. Ed ancora, la cassettina con la lettiera per la gatta, il suo cibo, i giochi, le carezze, le fusa ed il vuoto della mancanza, la consapevolezza dei genitori di non poter riparare i figli dal dolore che la vita può riservare, di non poterli proteggere da tutto e per sempre.

    Ora, però, che tutto era stato smaterializzato, ora che esisteva solo nella virtualità della memoria del computer, quel tempo appariva impossibile da ritrovare, non solo in ragione delle sue perdite, dei suoi vuoti, ma anche in ragione dei suoi pieni. Le icone, le immagini, i disegni ed i libri tecnicamente riprodotti non restituivano le gioie e le risate, la pienezza assoluta dei momenti dedicati alla lettura delle favole serali, lette rigorosamente sempre nello stesso modo, con gli stessi toni, per rispondere alla perenne ricerca, da parte dei bambini, di conferme, riti solidi, certi e sempre uguali, di immagini da ritrovare giorno dopo giorno sempre identiche, allo stesso punto del percorso di lettura, senza deviazioni o incertezze... le pagine di quei libri parlavano al passato e facevano rivivere nel presente la loro aura solo attraverso il loro peso nelle mani, le pagine rattoppate, più amate, lette e pertanto consumate, l’odore – appunto – che emanavano, che sapeva di bambino, di umido, di stropicciato, di significativo in un momento particolare della vita, o di significativo perché legato ad un altro ricordo, affatto differente, ma in qualche modo e per qualche misteriosa sinapsi collegato al libro di favole.

    Massimo ed Elena entrarono in una crisi profonda e si misero in testa di ricostruire la perdita, tracciando, per quanto la memoria li potesse assistere, una sorta di mappa degli oggetti perduti, delle mille schegge in cui erano deflagrati, lungo il percorso dello smaltimento: cassonetti, mendicanti, negozi, svuota cantine, siti web di vendita... ogni modalità attraverso cui arrivavano a ricordare come si fossero sbarazzati dei documenti ormai dematerializzati. Ma la ricerca si rivelò complicatissima... Elena lavorava ancora in banca a tempo pieno... Massimo aveva più disponibilità di tempo e di spostamento...

    Alla sera, a cena, si faceva il punto sulle ricerche.

    «Più trascorrono i giorni, più la situazione peggiora... gli oggetti hanno preso mille percorsi diversi, sono finiti in luoghi così distanti tra loro...».

    «Mh... alcuni giocattoli li abbiamo regalati a quella signora rom che stazionava presso i cassonetti adiacenti alla cantina».

    «Sì, sono tornato lì ovviamente e non è stato difficile nemmeno ritrovarla , mi ha detto che i giocattoli hanno raggiunto i suoi figli in Ungheria ...».

    «Abbiamo distribuito molti libri di fiabe ai negozi di libri usati della città».

    «E lì sono finiti, sepolti sotto centinaia di altri libri indistinti, introvabili come aghi in altrettanti pagliai. Altri, ho controllato, sono già stati venduti».

    «Mi ha detto una mia amica che alcuni vecchi giochi di società donati alle parrocchie hanno preso percorsi verso associazioni di carità che lavorano nei paesi del Terzo mondo: ormai qui i bambini, compresi quelli delle famiglie disagiate, usano i giochi elettronici».

    Massimo rifletteva su come quei libri e quei giochi da tavola sarebbero entrati nel vissuto e nel tempo, da perdere e ritrovare, di altri essere viventi, distanti migliaia di chilometri, sotto il cielo di un destino comune... si ricordò anche che solo alcune delle moltissime foto della cantina erano state digitalizzate; molte altre, insieme ai disegni, erano finite nei cassonetti della città. Avrebbe, di lì a poco, iniziato la sua personale ricerca contro il tempo...

    Se alcuni cassonetti di periferia fossero stati svuotati con meno frequenza, forse alcuni avrebbero potuto essere ancora depositari di qualche reperto?

    Forse alcuni robivecchi di strada non erano ancora riusciti a vendere le proprie mercanzie.

    La ricerca giornaliera di Massimo procedette per giornate sane... in giro in automobile per la città, seguendo la memoria delle tappe di uno smaltimento durato tre fine settimana... intanto, nella sua mente, si rincorrevano le immagini ed i ricordi degli oggetti più evocativi, degli odori più persistenti e più in grado di gettare un ponte tra presente e passato, di creare una sorta di tempo continuo.

    Una sera, Massimo si imbatté di nuovo nella signora che aveva conosciuto nei pressi del cassonetto adiacente alla cantina. Le chiese se avesse visto svuotare il cassonetto della carta negli ultimi giorni. Lei rispose che sapeva dove veniva parcheggiato il cassonetto della carta da riciclare prima di essere svuotato e vi accompagnò Massimo. Lì, insieme, frugarono in mezzo alla spazzatura ed alla fine emerse, ammaccata, sporca, inumidita, una cartella dall’aspetto familiare: dentro, una parte dei disegni realizzati da Federica alla scuola materna! La sera a cena, Massimo mostrò emozionato il reperto ad Elena e insieme si commossero...

    «Ha un senso continuare a cercare!».

    L’indomani, dalla robivecchi di strada che esponeva la sua merce su una coperta gettata sul marciapiede, a poche decine di metri dalla cantina, Massimo riconobbe e ricomprò una copia malconcia de Gli Aristogatti: era malridotta, ma era lei... quella che aveva letto per tante sere ai figli, quella con le macchie di caffellatte e lo scotch.

    In un altro cassonetto, in una strada adiacente a quella della cantina, un’altra scatola ammaccata emerse dal pattume, una dall’aspetto familiare: conteneva, ancora ben conservate, le foto dell’amata cagnolina, dei gatti passati per la casa. Erano foto malriuscite, sfocate... ma che , nella loro imperfezione, esprimevano movimenti. Un’imperfezione era il motivo per cui erano state smaltite e non digitalizzate, un difetto che tuttavia catturava l’attimo in cui la fotocamera aveva avuto uno scossone, una imprecisione meccanica e questa riconduceva con puntualità al giorno, alla circostanza in cui le foto erano state scattate, agli stati d’animo di quegli istanti. E parlavano al presente, odoravano di una essenza che si fondeva, nella sinapsi di un attimo, con il contesto di tanti anni prima: luoghi, volti e atmosfere si ricomposero intorno al ricordo ritrovato.

    Nell’ultimo cassonetto riapparve l’ultima cartella raccogli-documenti riconosciuta: era quella delle fotocopie dell’avviso di Lorenzo: Attenzione, smarrita una gatta certosina grigia con una macchia bionda sulla metà destra del muso: ricompensa a chi ritrovi questo animale di inestimabile valore affettivo.

    La sera, Massimo riportò tutto a casa, la ricerca era finita, più di così non era stato possibile fare. Nel salotto di casa, sedeva al fianco di Elena. Ora sopra il tavolo erano, uno a fianco all’altro: una vecchia copia rattoppata de Gli Aristogatti, una cinquantina di foto riuscite male, una cartella di disegni dell’epoca della scuola materna, alcune copie dell’avviso di smarrimento della gatta. Infine, un disegno di Lorenzo: riproduceva due tartarughine d’acqua dolce, comperate e tenacemente sopravvissute grazie all’impegno ed alla dedizione di un papà e di un bambino che gli avevano ricreato intorno le condizioni perché invece continuassero a vivere e crescere e volassero infine verso la libertà, nel laghetto di un’oasi naturalistica dove alcuni biologi le studiavano. Questo era tutto quello che erano riusciti a ricomporre.

    Al tatto ed all’odorato, questi oggetti si animavano e parlavano del tempo andato, Massimo ed Elena ricordavano e commentavano. Erano pochi reperti, pochi indizi, ma rimandavano ad un universo di ricordi sterminato, gli oggetti smaterializzati riprendevano forme e pesi reali e costruivano altrettanti ponti solidi per ripensare il tempo e ripararlo.

    Il restauro riguardava reperti di sentimenti e gli odori ricostruivano il tessuto lacerato delle emozioni e le emozioni restituivano i torti e le ragioni, le cose fatte o riuscite male e bene, di un lungo lasso di tempo. La trama dei tessuti logorati e sfilacciati ritrovava una ragione ed una pace nel tessuto rammendato del passato e del presente, un significato di inestimabile valore affettivo.

    Il mio nome è 8

    Il mio nome è 8... dinanzi a me: rotaie. Rotaie, foschia e pioggerella fine, la luce delle strade è biancastra e monotona, io scorro piano, cammino... assecondo docile i comandi del conducente. È anziano, esperto, immalinconito ed assorto nei suoi pensieri del primo mattino. Mi conduce senza scossoni, fluido e lento per il solito percorso. Pochi, squallidi bar aperti... un distributore di benzina. Poco traffico davanti e affianco e me, nei due sensi di marcia, uno dei soliti scooteristi nella mia corsia riservata. L’occhio rosso di un semaforo perfora debolmente la luce biancastra. Mi fermo, attendo: occhio verde... riparto senza scosse. Fermata. Apro le porte: due passeggeri insonnoliti scendono, prendono a piedi due direzioni opposte; tre passeggeri infreddoliti e bagnati salgono. Senza scosse, riparto... rotaie, rotaie e pioggerella fine davanti allo sguardo dei miei fanali fiochi. Io guardo ed osservo. Cammino ed osservo. Da anni.

    Osservo le strade, le case, le automobili, le persone... memorizzo; porto dentro i ricordi di anni ed anni di corse, fermate e ripartite. Non governo le mie ruote, gli ingranaggi, i bulloni, le vasche, i filtri, i pistoni e le parti elettriche del mio enorme corpo meccanico, sono guidato. Obbedisco, assecondo... ma ricordo e penso, da decenni. I miei fanali sono occhi attraverso i quali il percorso del mio cammino ha attraversato la storia della città, dei suoi quartieri, dei suoi abitanti. Tutto così cambiato, nel corso degli anni. Le feritoie al fianco degli specchi retrovisori sono orecchie dalle quali il mondo esterno mi parla ed imprime nella memoria i suoni, i clacson, le voci e le urla delle persone, i rumori della vita quotidiana e quelli della vita straordinaria. Quasi nulla è rimasto come era... io ho conservato nel mio incomprensibile e segreto interno le immagini, i documenti visivi della vita quotidiana della città, il suo estenuato trascinarsi verso la deriva di questo presente, che non mi appartiene più.

    Io sono solo. Sono sempre stato solo. E silenzioso. Sono condotto da un conducente... obbedisco, assecondo i comandi ed il percorso obbligato dei binari, ma sono un pezzo della memoria visiva dei quartieri di questa immane, disperata, perduta città. Ho visto nel tempo, attraverso i percorsi delle rotaie e delle strade per le quali mi hanno condotto, interi quartieri nascere e morire, cambiare, lasciare dietro di sé la memoria e la malinconia di bellezze irripetibili e di irrecuperabili abissi. Ho visto nel tempo la luce, l’aria e la vita della metropoli scomparire ed ho udito il silenzio dei palazzi, dei vicoli, dei cavalcavia e delle piazze diventare assordante. Gli spazi ed i tempi della città invasi e soffocati dalle automobili, dalla spazzatura, dalla sempre più ottusa, ignorante umanità che li occupa. Le rotaie sulle quali le mie ruote arrugginite scorrono, gli scambi che – con uno scossone – costringono il mio corpo meccanico a curvare, vibrare, inclinarsi, fermarsi e ripartire, sono state sostituite molte volte... loro sono quasi nuove, io sono molto vecchio e mi avvicino al termine del mio cammino.

    Sempre più raramente, vengo condotto al deposito per le manutenzioni: sto lì immobile per alcuni giorni, osservo i tecnici muoversi fuori e dentro il mio corpo meccanico, odo i loro dialoghi... entrano nei miei meccanismi, smontano e sostituiscono ingranaggi, cinghie, nastri, batterie, bulloni, freni. Oliano, puliscono, avvitano, incollano. Non fa male... una volta terminato, mi rimettono sui binari, un contatto elettrico ed uno scossone; riparto... mi sento meglio, più forte e veloce. Ma rimango vecchio. Sono uscito dalle officine meccaniche di produzione nel 1958, ho quasi sessant’anni... un anno o due al massimo e verrò rottamato, relitto vivente ancora costretto in vita da un’amministrazione col bilancio in rosso.

    In questi ultimi anni, ho visto scomparire i vecchi tram che incrociavo lungo il mio percorso negli anni ‘60, ‘70 e ‘80; li ho visti arrugginirsi, perdere lo smalto della vernice, farsi sempre più rumorosi e cigolanti e poi... finire. Finire in qualche area di smaltimento, poche parti meccaniche da salvare, qualche reperto di archeologia industriale elettro-meccanica da collocare in un museo, forse un’ultima fotografia e poi, il nulla.

    Sono stato appena nato, nuovo e fiammante, per un fugace momento del cinema italiano, anche famoso. Ero il tram dove, in una delle sequenze finali de I soliti ignoti di Monicelli, in un’alba fredda e grigia Mastroianni, dopo l’infelice esito del tentato, comico furto, salutava Capannelle e prendeva il tram 775 in via Britannia, per tornarsene a casa. Lo ricordo bene, salì a bordo con la troupe delle riprese; allora il mio nome era 775... aveva al collo il braccio ingessato, questa volta per davvero, dopo aver inopinatamente incontrato il proprietario di una vecchia cinepresa che Marcello aveva rubato a Porta Portese, col trucco dell’ingessatura finta. Entrava e – mostrando al bigliettaio la sua menomazione – «Grande invalido!» diceva... e proseguiva senza pagare il biglietto, per andarsi a sedere più avanti. Non lo dimenticherò mai.

    Quando mi realizzarono, ero una specie di prototipo innovativo, avevo un motore e dei dispositivi elettro-meccanici all’avanguardia. Ero fatto per durare, più degli altri. E sono durato! Accidenti se sono durato... quasi più di sessanta anni. Nessuno più di me. Ero un modello costruito con la possibilità di sostituire le parti a rischio di usura periodicamente, così che la manutenzione mi consentisse di continuare a fare il mio lavoro per un lasso di tempo superiore rispetto a quello degli altri tram. Ma nessuno si aspettava che vivessi sessanta anni, chissà... forse, tra quelle parti elettro-meccaniche, quei dispositivi innovativi che mi resero sperimentale alla fine degli anni ‘50, finì anche una piccola parte elettronica partorita dal sapere geniale dell’ingegnere che mi progettò, forse senza rendersi conto nemmeno lui che mi stava facendo, insieme al resto, il dono e la condanna di essere vivo. Perché è da allora che io penso e custodisco il mio segreto. Ho avuto, per decenni, il privilegio e la pena di osservare e riflettere sulla deriva della città e della sua gente.

    Perché il mio sguardo non sono solo i miei fari, come occhi che guardano fisso dinanzi a sé le rotaie, i quartieri e le persone; le mie orecchie non sono solo le feritoie esterne da dove percepisco i rumori delle strade. No... io vedo ed ascolto dentro di me. Le luci sul soffitto dei vagoni sono altrettanti occhi, i punti elettrici dei comandi che innescano le richieste di fermata sono altrettanti orecchi sensibili. Così, ho visto ed ascoltato, per decenni, le persone salire e scendere, sedersi, sostare in piedi allacciati ai sostegni per restare in equilibrio ai miei strappi, alle mie curve, parlare tra di loro, ridere, vociare, litigare... ho visto i volti e subìto gli stili di guida di decine e decine di conducenti, decine e decine di bigliettai, prima che mi installassero a bordo i congegni elettronici che timbrano i biglietti.

    Ho visto ed ascoltato la gente di questa città, l’ho vista usarmi, spostarsi per la città con me, grazie a me. Ho portato le loro esistenze da un punto all’altro di Roma, per andare al lavoro, a scuola, per fare commissioni, recarsi agli uffici, agli ospedali, ai ristoranti, ai cinema, ai cimiteri, recarsi da amici o parenti... le ho portate ogni giorno, due volte al giorno, per i percorsi che hanno scandito la loro vita quotidiana per l’intera sua durata, le ho portate una volta ogni tanto o anche una sola volta; ho visto la gente invecchiare, nuova gente affiancarla o prenderne il posto: uomini, donne, bambini, vecchi, giovani, romani, italiani, stranieri, poveri, meno poveri ma non abbastanza ricchi da potersi risparmiare il tram. Infine, impiegati e gente di quasi ogni ceto sociale, che ha iniziato ad usarmi, quando ha tempo e pazienza per aspettare il mio arrivo e tollerare i miei inciampi . E’ così da quando girare Roma in automobile e parcheggiarla è diventato più insopportabile che usare me... con i miei tempi, la gente di ogni tipo che mi affolla, si pigia dentro di me, coi suoi odori, i suoi umori, le sue follie, le sue tristezze. Nel corso dei decenni, ho visto e udito le persone di questa città, cambiare.

    Attraverso i miei punti luce aperti come occhi ed i pulsanti di fermata come orecchi, ho osservato le facce della gente ed imparato a decifrarne le storie, il destino, le gioie, le speranze, la fatica, le disillusioni, i pianti. Ho visto e sentito persone piangere e ridere, in compagnia e da soli, ho imparato a riconoscere i volti arrabbiati, assonnati, assorti, preoccupati, chiusi... ho indovinato le fatiche di qualcuno di loro, al termine della serata, nell’abbandono del sonno, ad ogni arrivo dei miei capolinea... dagli abiti che indossano, dai bagagli, dalle sporte e dai pesi che portano, si può indovinare molto delle loro vite.

    Li ho sempre osservati, curioso, in particolare le loro scarpe... scarpe consumate, opache, sbiadite; talvolta comunque dignitose nel residuo luccicore che mandano del lucido passatovi il mattino presto; talvolta, immemori di ogni antico decoro, amore o semplice rispetto di sé stesse. Scarpe nuove, griffate e luccicanti, costose quel tanto che basta per dire agli altri me le posso permettere... Imitazioni di scarpe nuove, griffate e luccicanti, quel tanto che basta per dire vorrei ma non posso... scarpe vistose da cafoni, ai piedi di uomini e donne deprivati di cultura, gusto e consapevolezza di sé. Scarpe sformate di piedi femminili che vorrebbero il tacco, ma tengono in piedi per ore al lavoro qualcuno che non può sopportare la loro elegante scomodità. Scarpe da ginnastica di ogni colore, per giovani ed anziani che intendono sembrare giovani, di marca e contraffatte, scarpe bucate, sporche, trasandate e portate slacciate, da cretini, doppiamente cretini se viaggi in tram e rischi di pestarti i lacci mentre scendi e di cadere. Clark o imitazioni Clark che danno, anche all’uomo elegante o azzimato, quel tocco di informalità che vuol dire lavoro in divisa, sì... ma solo perché devo, in realtà sono stato, oppure sono rimasto dentro, un figlio dei fiori. Scarpe pacchiane, con le fibbie e le nappe di chi è rimasto, nel tentativo di mostrarsi al passo con la moda, al passo di trenta anni fa. Scarpe coi tacchi altissimi e colorati di giovani ragazze di periferia, che scimmiottano qualche cantante o attricetta viste in TV, o sui giornaletti splatter, o sui social network... scarpe di chi scimmiotta un’identità già perduta e disperata e sognano principi azzurri che le condannino a vite da schiave ed a portare, prima o poi, scarpe basse e sformate. D’estate, scarpe leggere, sandali, zoccoli indossati da piedi curati e con le unghie smaltate, o sporchi, impolverati ed invadenti... talloni di donne ricoperti da cerotti per scarpe troppo belle ma anche troppo dolorose per fasciare un tallone o una caviglia.

    Osservo anche pantaloni, gonne, tute, camicie, bluse, canottiere... anche questi capi d’abbigliamento mi suggeriscono da dove la gente venga, dove vada... i turisti, in particolare. Quelli li riconosco subito, ancor prima di guardare le espressioni del viso che osservano interessate ed al tempo stesso cafone ed ignoranti le strade, i monumenti e le chiese: abbigliamento di chi deve solo riempire la giornata di passeggiate, musei, finte trattorie per turisti scemi. Gli italiani, i romani, gli impiegati, in particolare, indossano completi resi lucidi e consumati dagli anni; talvolta portano in vita cinture che hanno subito l’oltraggio dei fori previsti per pance che col tempo sono cresciute e debordate, o l’oltraggio dell’usura dei buchi aggiunti, per pance di persone che tempo prima hanno mangiato di più o meglio. D’estate, spesso le camicie degli uomini o gli abiti sbracciati delle donne sformate di mezza età si orlano sotto le ascelle di aloni scuri maleodoranti. Come tutti i tram, io sono spietato, in questo... costringo ascelle lavate ed accuratamente deodorate a pigiarsi, strusciarsi, sovrapporsi, incollarsi ad ascelle lavate forse una volta a settimana, che sanno di case sovraffollate, con un solo bagno, o della disabitudine al sapone... o semplicemente dell’incuria che si trascina dietro la perdita della stima di sé stessi e del proprio, trascorso futuro.

    In generale, d’inverno ancora più che d’estate, le persone che salgono si coprono troppo... nemmeno fossero Totò e Peppino a Milano alla ricerca della malafemmina. E inevitabilmente puzzano... così, finiscono per puzzare sempre, d’estate e d’inverno. Gli ambulanti di tutte le provenienze del mondo: Italia, Filippine, India, Pakistan, Africa... puzzano del sudore della fatica e delle strade percorse a cercare di vendere qualcosa per mettere insieme pranzo e cena. Indovino il loro odore appena salgono, guardando in viso la loro sconfitta, la loro rassegnazione verso un giorno amaro come quello prima e quello che verrà dopo. Tanti italiani e romani puzzano di sudore e basta, chissà perché... me lo chiedo sempre. Io, da decenni, odoro... sento le essenze di persone che coprono di profumo la putrefazione dei cervelli, di persone che sanno di puzzare e coprono la puzza, di persone che non vogliono puzzare per sé stessi, che non vogliono puzzare neanche per gli altri.

    Io sono, per definizione, uno specchio deformante e concentrato delle puzze, degli odori delle persone, dei loro drammi, delle loro gioie, dei loro progetti, della loro assenza di progetti, delle loro fatiche, delle loro vanità e della vanità delle loro fatiche, agitazioni, prepotenze, meschinità, abiezioni, sottomissioni, piaggerie, malvagità, sopraffazioni, miserie... quelle dei poveri, dei meno poveri e persino dei ricchi, sono le medesime miserie dell’anima e tutte quante, allo stesso modo, puzzano. Le sento da sessanta anni, solo che ora sono peggiori perché hanno perso sogni, progetti e speranze... negli anni ‘60 e ‘70, ad esempio, i ragazzi in particolare portavano dentro di me, quando salivano, gli odori della freschezza e della fiducia nel futuro... ma ormai puzzano anche loro, come gli anziani.

    Ho imparato a riconoscere ed attribuire plausibili ipotesi di esistenza alle borse, alle valigie, ai passeggini che le persone portano in tram, persone che entrano impacciate e mi fanno guardare dalle mie fiancate con apprensione che le porte non si chiudano mentre entrano o escono... ma non ho mai potuto farci nulla... come ho già detto, non sono io a guidare, a scegliere, partire, fermarmi, aprire e chiudere le porte. Altrimenti avrei potuto evitare le grida, le rimostranze irate all’indirizzo di un conducente distratto o frettoloso, evitare che qualcuno si facesse del male, come invece purtroppo qualche volta è anche accaduto. Quelli con i borsoni o i passeggini entrano con più fatica degli altri e guardano subito con apprensione se ci siano posti a sedere liberi. Nel corso degli anni, ho visto gradualmente scomparire la gentilezza di quelli che cedono il posto agli anziani, o alle donne incinte, o anche a quelli impediti dai grandi bagagli. Un po’ è perché l’educazione si fa sempre più rara, ancor più perché domina l’indifferenza di chi – con gli occhi ipnotizzati dai cellulari – nemmeno si accorge di chi gli stia accanto, o condivide più le chiacchiere da tram di una volta. Anche borse e borsoni portano addosso tracce ed indizi di storie. Possono essere vecchi, consunti, polverosi, acquistati dai cinesi per pochi euro; possono essere nuovi e moderni, con ancora appese le etichette dei check-in dei viaggi in aereo. Possono parlare di gente che trascina fardelli immani come le proprie esistenze, o leggeri come l’ossigeno delle vacanze. I passeggini, poi... Con a bordo bimbi ancora assonnati da un risveglio mattutino troppo precoce, o assonnati dalla stanchezza di un’altra giornata che sta per finire. Storie di chi viaggia coi passeggini sul tram perché non ha l’automobile per spostarsi, o non sa a chi lasciare i piccoli in custodia, mentre si reca al lavoro per fare la badante, o l’addetta alle pulizie... anche i passeggini, che ormai possono essere modernissimi, di design, praticissimi, multifunzionali, sono invece fuori moda, vecchi e consunti dall’uso di anni ed anni e dai passaggi dalle mani ad altre mani di chissà quante famiglie.

    Poi, ci sono gli zaini degli studenti, sulle spalle di ragazzi coi visi preoccupati dalla prossima interrogazione o compito in classe, ragazzi vocianti insieme ad altri ragazzi, esuberanti e molesti per altri passeggeri. Gli zaini sanno per lo più di anni e anni passati a scuola in apnea, in attesa della fine e di una agognata rinascita, di aule, insegnamenti ed insegnanti grigi, di insegnanti brillanti che ti rimangono dentro, coi loro stimoli, per l’intera vita. Gli studenti con gli zaini sulle spalle, insieme

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