Nero di Seppia. Dai taccuini di un giornalista seduto in riva al mare
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cammina, osserva, guarda, pensa, scrive.
E quel mare, che è avvolgente quanto inquietante, feroce quanto rassicurante, ha una forza espressiva totale quasi fosse umano.
O, forse, divino. Il mare ha cromatismi che variano, odori che avvolgono, “sprizzii” che toccano, silenzi che parlano.
E quell’uomo vi è immerso tutto. Seduto in riva al mare.
E quell’uomo riempie i suoi taccuini di nero di seppia e i fogli si bagnano di storie e narrazioni che sanno d’infanzia,
di adolescenza e di una vita che cresce.
E sanno di quel piccolo mondo antico che è sedimentato nella memoria dell’uomo che scrive e che, d’un tratto, appartengono a tanti. Forse a tutti. Ci sono fichi, clementine, uva, pescato, profumi e sapori che hanno palpiti e ticchettii d’anima.
E quel nero di seppia lentamente si fa osservazione del mondo e racconta altre storie perché quell’uomo, l’uomo del mare, diventa giornalista e le sue pagine si fanno mondo e storie di umanità, spesso dolorosa e dolente. Ma anche ironica, eroica, immaginifica, progressiva, scottante. Perché un giornalista dipinge nei suoi taccuini il mondo tutto con le sfaccettature più diverse e complesse.
Come il mare. Dove torna e ritorna sempre.
Seduto in riva al mare. E lì, l’ uomo del mare, si fa mare.
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Recensioni su Nero di Seppia. Dai taccuini di un giornalista seduto in riva al mare
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Anteprima del libro
Nero di Seppia. Dai taccuini di un giornalista seduto in riva al mare - Gregorio Corigliano
premio.
Nota dell’anima
Avendone la possibilità, bisognerebbe tentare questo esperimento. Prendere questo libro e metterlo in valigia. Anzi, più precisamente, in quello che le compagnie aeree chiamano bagaglio a mano
, in modo da poterlo tirare fuori al momento opportuno. Poi avere la fortuna di recarsi dall’altra parte del mondo o, quantomeno, avere la forza d’immaginazione di sognare di farlo.
A questo punto, che sia reale o pura fantasia, siamo in uno di quelli che i sociologi chiamano i non luoghi
. La sala d’attesa dell’aeroporto di una grande città asiatica, il centro congressi all’avanguardia di una capitale del Nord Europa, l’interno di una stazione ferroviaria del Nord America. Uno di quei luoghi, insomma, che sei lì ma potresti essere anche dall’altra parte del pianeta, a decine di migliaia di chilometri di distanza.
Ecco che a questo punto entra in scena il libro di Gregorio Corigliano, ordinatamente estratto dal bagaglio a mano. Basterebbe aprirlo, sfogliarne anche solo qualche pagina e, nel luogo esatto del globo in cui abbiamo scelto o immaginato di trovarci, si sentirebbe il profumo del basilico fresco, il vento che soffia sugli ulivi secolari della Piana di Gioia Tauro, l’inconfondibile sensazione della salsedine di Ionio o di Tirreno, la consistenza della mano con cui nostra nonna ci accarezzava da bambini, la gioia nel cuore dei nostri genitori che ci accompagnavano a scuola, l’irrequietezza tranquilla dei bar in cui gli anziani giocavano a carte e i ragazzini al flipper, il suono di un juke-box che scambia una canzone con una moneta da cento lire, la forza tranquilla di un vino di Cirò.
Perché il libro di Gregorio Corigliano non inventa nulla ma riscopre il tutto. Il nostro tutto migliore, quello della Calabria che c’era e che sogniamo di riscoprire, l’album dei ricordi dei nostri sogni più belli, le foto ingiallite che speriamo di rivivere a colori. In fondo, nulla di così tanto dissimile al meccanismo virtuoso innescato dalla madeleine di Marcel Proust, solo che al posto del dolcetto questa volta ci sono le pagine di un libro.
Qualcuno più bravo di me ha scritto che leggere libri equivale a vivere molte vite
, e non esiste formula migliore per descrivere quel sentimento di evasione che ci regalano le pagine di un libro.
Io, di fronte al libro di Gregorio Corigliano, ho scoperto che leggere equivale anche a rivivere la propria, di vita.
Ho ripensato alle estati che duravano quattro mesi (oggi, sì e no, riesci a mettere insieme due settimane), alla bottiglietta da 25 centilitri della Birra Dreher (che chiamavamo Dregher
) e alla condensa che le si formava attorno quando nonna la toglieva dal frigorifero, all’insalata di pomodori.
Ma soprattutto a tutto quello che c’era attorno, la nostalgia del tempo andato, la nostra vita.
Tommaso Labate
Ora sono vecchio e prima ero bambino
cosa che cambia e non è mai la stessa
col mare che ha il colore dell’oblio
nell’accecante buio del sole!
da L’ora del blu
di
Eugenio Scalfari
I primi tuffi nel mare dell’anima
Il caldo era davvero insopportabile. Ed anche se abitavo a duecento metri dal mare, non c’era bagno o tuffo che mi potesse rinfrescare. D’altro canto in acqua non si poteva stare a lungo. Mia madre non me lo consentiva. Senza guardare l’orologio, mi diceva quando dovevo uscire perché ero rimasto troppo a fare capriole, nuotate e salti mortali con i miei amici. Ed io non volevo uscire. Le acque del Tirreno erano molto coinvolgenti. Se non fosse stato per le labbra che diventavano blu per il freddo, le dita raggrinzite e le mani tremanti, sarei rimasto a lungo.
Il mare era una calamita per me. Non riuscivo a staccarmi. Solo lo sguardo di mia madre che, raramente, mi lasciava scendere sulla spiaggia da solo, mi poteva convincere a risalire a casa. E per prolungare il mio rimanere a contatto con il mare, mi arrinavo
, cioè mi stendevo sulla rena che bruciava per il sole, per scaldarmi visto che, senza ammetterlo, stavo morendo di freddo. Stavo a pancia in giù a lungo, poi con la schiena sulla finissima sabbia. Riprendevo vita e colore, l’asciugamano mai usata. Scendevo da casa direttamente in costume. L’ombrellone per chi doveva stare all’ombra, lo portava mia madre e altre volte, quando era libero dagli impegni di lavoro, mio padre. A me piaceva solo piantarlo. No so perché. Mi divertiva l’idea di ficcare il paletto dentro la sabbia, ma sotto il grande ombrello non ci stavo mai. Il primo (ed unico) pensiero era quello di buttarmi in acqua. Mi aspettavano i miei amici di avventura, sia quando il mare era calmo, una tavola
dicevamo sia, soprattutto quando era agitato. C’era un differenza notevole.
Quando il mare era calmo e trasparente e si vedevano i pesciolini che ti illudevi di prendere con le mani, avevamo la possibilità di fare lunghe nuotate verso il mare turchino oppure di farci le calate
a vicenda o ancora di fare i tuffi a pesce, se non i salti mortali. Questi erano possibili se insieme riuscivamo a riempire tre quattro sacchi di iuta con la sabbia, e con l’aiuto di una pala che i marinai lasciavano sulle barche, li posizionavamo a qualche metro dalla battigia e li utilizzavamo come trampolini. E via ai tuffi. Non tutti eravamo bravi. Fare il salto mortale era complicato e, mi ripeteva mia madre, pericoloso.
C’era chi, invece, non ci pensava due volte e si mollava, spesso riscuotendo l’applauso di chi non era capace o non riusciva. Gira e volta si facevano le dodici-dodici e trenta. Erano trascorse due ore, quasi sempre in acqua, pur con qualche arrinata
necessaria.
Quando il mare era agitato, e da noi si agitava davvero, qualche volta rendendo impossibile il bagno, per via dei cavalloni altissimi che si formavano, eravamo costretti a bagnarci sulla battigia, pur tentati dal tuffo, sempre e comunque.
Quando invece era agitato assai, ma non tanto da impedirci il tuffo, eravamo più che felici. In sprezzo ad ogni pericolo ci posizionavamo in attesa di un momento di calmeria e poi via, via sott’acqua. La testa usciva fuori solo quando il mare si ritirava. Ed allora erano lacrime sia per rimanere dentro l’acqua che soprattutto per uscire. Era veramente difficile guadagnare la spiaggia, dovevi aspettare e cogliere il momento meno agitato. Il costume, intanto, si era riempito di sabbia e con il peso, scendeva sulle gambe. Vergogna delle vergogne, ma non si poteva fare diversamente. L’onda maestosa ti buttava nudo sulla spiaggia ma non potevi preoccuparti perché era più importante salvarsi e non bere acqua. Pazienza se qualcuno ci beccava nudi.
Se ci fosse stato il telefonino (lo smartphone) saremmo finiti sui social e su youtube
. Eravamo ragazzi: chi si dava pensiero? Ci piaceva correre e sfidare il pericolo per guadagnare l’applauso dei grandi e delle ragazze. Poi stavi disteso sulla riva in attesa di riprenderti ed il cavallone lo guardavi da lontano, sperando che diventasse cavallino. Ed a quel punto pur di non rientrare a casa giocavamo sulla spiaggia a tamburello, toc-toc, attento, non fare cadere la palla, guarda il mare, che facciamo, ci ributtiamo? Lo sguardo vigile di mia madre me lo impediva, giustamente.
Mio padre, non ci pensava due volte, smontava l’ombrellone e gridava il consueto tutti a casa
! A quel punto non c’era nulla da fare, nessuna implorazione, dai papà, ancora dieci minuti, un attimino. Occorreva rientrare. Gli amici non accompagnati ti sfottevano per un attimo perché sapevano che l’indomani ci saremmo rivisti. Se i tamburelli non li avevamo portati ed il mare era sempre più agitato, c’era la lettura del grande Blek
o di Capitan Miki
, fino a quando non arrivavano altri tre compagni di mare coi quali buttarsi
sotto un barcone, per stare all’ombra e giocare a scopa o a tressette. Mio padre e mia madre, quando anche loro non facevano il bagno, parlavano coi vicini di casa. Cosa mangiate oggi, hai cucinato già?
La parmigiana? Buona! E come la fai? I peperoni li mangiate? Certo. Abbiamo la fornacetta
e li facciamo arrostiti. Una delizia. Sono piccanti? Ce ne sono di tutti i tipi, piccanti e non. Quelli piccanti ti fanno impazzire, ti piacciono, ma poi paghi le conseguenze. E vabbè, una volta si può fare. L’importante è non mangiarli tutti i giorni.
Mio padre, invece, discuteva di pesca e di caccia, le sue vere passioni, soprattutto d’estate. "Sei andato a mare, Nino stamattina? Avevi l’esca ed il bolentino, che noi chiamavamo volantino? Certo, ma oggi niente, non toccavano, ci siamo spostati in continuazione, di qua e di là, solo qualche tracina qualche pettine, due-tre surici. Nulla, purtroppo. Il più delle volte era così.
Altre volte, invece, la pesca era stata fruttuosa ed il pesce era abbondante. Non c’eri quando abbiamo tirato la barca? Ho regalato a chi era vicino e a chi ci ha aiutato a tirare la barca all’asciutto chili di pesce. Mio padre aveva la sua di barca. Rigorosamente di legno e con i remi, senza motore. Il gusto era quello. Scendere a mare la mattina alle quattro e mezza, raramente alle cinque, equipaggiati di cesto con le lenze, maglioncini, i remi, due bottiglie d’acqua, l’ancora ed il sego. U sivu
serviva per spalmarlo sulle falanghe e far così scivolare la barca verso l’acqua.
Spesso, se non avevo fatto le ore piccole in piazza, facevo compagnia a mio padre ed ai suoi alunni che collaboravano con lui nella mattinata di pesca. Ah! E l’esca? Quando non si trovava in paese, mio padre si fiondava in macchina sulla spiaggia di Trainiti, nel vibonese, perché lì, dicevano tutti, si trovavano i migliori vermi da esca e da pesca.
Questo era l’argomento di discussione di mio padre coi vicini di ombrellone. Ogni tanto, però, passava Peppino Lazzaro, il figlio del medico condotto del paese, super stimato da tutti, e l’argomento di discussione diventava la politica e l’amministrazione locale. Peppino studiava anche lui da medico, ma voleva bene a mio padre e discuteva volentieri con lui, perché voleva essere informato soprattutto delle disavventure del Comune. Allora eravamo frazione del Comune di Rosarno e non eravamo, giustamente, mai soddisfatti, noi cittadini di San Ferdinando. Ritenevamo, infatti, che il comune capoluogo non si occupasse e si preoccupasse di San Ferdinando come avrebbe potuto e dovuto. E sulla spiaggia si gettavano le basi per la protesta di tutti i cittadini per quella rivolta
popolare, che a distanza di anni avrebbe portato all’autonomia da Rosarno. Due comuni distinti e separati. Allora c’era voglia, molto più che oggi, di occuparsi della cosa pubblica. Se poi dalle nostre tende
passava qualche compagno di infanzia o di prigionia di mio padre i discorsi erano più impegnativi e certo più coinvolgenti.
In quel caso, non mi muovevo dall’ombrellone, seguito dai miei amici che volevano sapere dal professore, mio padre, come aveva potuto vivere dieci anni, o quasi, tra militare, ufficiale, guerra e prigionia.
Militare in Libia, come sottotenente di complemento a Bengasi e poi, a guerra perduta, prigioniero in India, ai piedi dell’Himalaya.
Più o meno così, passavano i nostri giorni dell’estate. Felici e spensierati. Almeno io, che avevo l’occupazione
di farmi il bagno, studiare al pomeriggio, tornare a mare la sera e, spesso, accompagnare mio padre in campagna, quasi sempre all’alba, per i lavori al giardino di arance. E si faceva l’ora di pranzo.
E mentre noi stanziali tornavamo a casa, decine e decine di pullman arrivavano sulle strade che portavano al mare. Centinaia e centinaia di villeggianti, bagnanti si fiondavano sulla spiaggia per le vacanze di mare.
Il mio primo ricordo è una finestra sul mare!
da L’ora del blu
di
Eugenio Scalfari
A proposito di vacanze
Ed a proposito di vacanze, come si facevano realmente in quel periodo ormai lontano?
Non è da moltissimo tempo che si fanno le vacanze. Anzi. Fino a poco più di 50 anni fa, probabilmente, la parola vacanza era conosciuta da pochi.
Nei mesi canonici di luglio e di agosto in Italia ed in parte in Europa, si rimaneva in casa. I fortunati erano coloro che avevano la casa di abitazione al mare (o in montagna).
I più la preferivano al mare perché così avrebbero potuto cullarsi
tra le onde o stendersi sulla spiaggia con la scusa del sole per l’inverno
o per fare le sabbiature
contro i possibili reumatismi.
C’erano anche coloro che ritenevano di dover andare in Aspromonte, in Sila o sul Pollino per godere delle frescure dei boschi.
C’erano delle differenze, però.
Chi aveva la casa di abitazione al mare, ricavava due ore per prendere
il bagno e poi tornava a casa.
Chi invece viveva in montagna, a meno che non fosse ricco ed avesse la casa di proprietà, o doveva viaggiare, ma era una faticaccia, oppure provvedere al fitto di un localino.
Gli storico-statistici fanno risalire al 1967 l’anno di inizio delle vacanze. Era l’anno in cui si scendeva a mare e ci si portava dietro, racconta chi questa esperienza l’ha fatta, un lenzuolo bianco che si doveva sistemare come ombrellone, ma da utilizzare anche come spogliatoio, i giochini dei bambini, e, rigorosamente, un cocomero ed un paio di bottiglie d’acqua che si facevano rinfrescare con l’acqua di mare. I frigoriferi ancora non c’erano. Questo per chi rientrava a casa per l’ora di pranzo, perché, c’erano anche quanti restavano l’intera giornata a mare, viaggiando dai paesi vicini, in autobus. In questo caso, le masserizie da portare sulla spiaggia erano davvero molte di più. Sedie e sedioline di tutti tipi, salvagenti, tovaglie, cibo preparato la mattina, vino. Sistemate le masserizie, via al mare a sciacquettarsi. Non meno di due ore.
Poi, il pranzo luculliano
, il sonnellino, rigorosamente, d’obbligo, da parte degli uomini, mentre le mogli dovevano accudire i bambini che erano il motivo ufficiale della calata
al mare.
Con la scusa dei ragazzini, anche mamma e papà godevano della frescura delle acque del Tirreno o dello Ionio. Naturalmente non c’erano lidi o stabilimenti balneari per cui tutto avveniva sulla spiaggia, compreso il cambio dell’eventuale pannolino. E dove finivano i resti
della giornata a mare?
Tutto sulla spiaggia, che