Eglia e Altre Storie
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Anteprima del libro
Eglia e Altre Storie - Elettra Bedon
delizie
Knosòs
Il topolino disse: «In realtà io non sono che un pezzo di canna sfilacciata». «D’accordo» rispose il lombrico «ma se adesso ci mettiamo tutti a risalire alle origini non si finisce più. Cosa dovrebbero dire i sassolini, e la sabbia, poi? Ma lo sai che se i granelli di sabbia dovessero ripensare al passato comincerebbero a raccontare degli abitanti di Knosòs?».
Eglia intervenne: «Ci risiamo con i discorsi sconclusionati. Parlare e parlare e parlare, pur di parlare. Qui si salva solo il gatto che, oltre che cieco da un occhio, è anche muto».
Si guardò intorno nel giardino: ogni cosa era al proprio posto. Gli oleandri carichi di fiori bianchi e rosa, i fiori di ibisco – piccole rosse trombe per suoni di gioia -, ciuffi di gerani, di margheritine.
«Gatto» disse Eglia «ma come si chiamano questi fiorellini gialli, e questi azzurri?». Poi scosse la testa ricordandosi che il gatto non poteva risponderle.
Oltre il giardino c’era la spiaggia, e poi il mare. Gli uccelli stavano tranquilli sui rami, in silenzio, dopo i voli e i cinguettii frenetici del primo mattino. Le cicale avevano cominciato a cantare, al sole, e i grilli, nei nidi di terra, aspettavano la sera per prendere il loro posto.
«Turnisti» borbottò Eglia, pensando a loro. «Solo le formiche lavorano sempre, poverette. E a me le formiche non piacciono».
Il gatto prese a giocare con una bacca secca facendola rotolare, rincorrendola, bloccandola con un movimento improvviso della zampa. Era lungo e sottile, il corpo agile simile a quello dei siamesi (e così uno degli occhi, azzurro), e ciuffi di pelo beige mescolati ad altri neri. L’altro occhio era verde, e benché Eglia avesse sentito dire che era cieco da un occhio, non sapeva decidere quale dei due fosse.
Il gatto con un balzo le venne vicino, le si strofinò contro, alzando il muso verso di lei. Eglia lo accarezzò leggermente sotto il mento. Il gatto sembrava rispondere al suo sorriso, ma nessun suono usciva dalla sua gola.
Eccomi qui, pensò Eglia, a parlare ad alta voce con un gatto che non mi può rispondere. «Ma sei proprio sicuro di essere muto?» domandò al gatto. Non ne era del tutto convinta, o forse era il suo desiderio di sentirlo parlare che non glielo faceva credere completamente. Le sembrava che avrebbe potuto dirle cose interessanti, allegre, importanti, sagge. Cose ben diverse dal bla-bla-bla che scambiava quotidianamente con gli altri compagni.
Il vento costantemente teso manteneva il mare agitato, benché non proprio in burrasca. Le onde si frangevano con forza a riva, la schiuma bianca mista alla sabbia. Più avanti il mare diventava verde, e poi blu, all’infinito. A destra lo sguardo arrivava all’orizzonte. A sinistra la spiaggia era chiusa dalle montagne, digradanti, che più indietro si univano all’entroterra. Giorni prima il vento si era un po’ calmato ed Eglia era uscita sulla spiaggia, verso il mare. Era stato allora che aveva raccolto dalla sabbia il topolino – che importava che fosse davvero un pezzetto di canna secca, appuntito a un’estremità, con un piccolo nodo che sembrava un occhio e la corteccia sfilacciata simile al pelo di un animaletto. (Quanto alla mancanza dell’altro occhio, be’, bastava guardarlo di profilo).
Si era rivelato subito un buon compagno, benché avesse la tendenza a ricordare un po’ troppo spesso la sua origine, quasi volesse scusarsene. Era molto bravo a far di conto ed era un valido aiuto per catalogare e registrare i molti sassi (piccoli e grandi e piccolissimi) che Eglia andava raccogliendo durante le sue passeggiate in riva al mare: non finiva mai di stupirsi della varietà di forme e di colori che incontrava.
Dove finiva il giardino cominciava la sabbia, fine e calda, e poi, a qualche passo dall’acqua, c’erano i sassi più piccoli, la metà di un granello di pepe verde. Al mattino, durante la bassa marea, restavano scoperti quelli che di solito erano immersi nella sabbia, coperti dall’acqua del mare. Bastava chinarsi ed ecco un sasso e un altro e un altro ancora, lucidi dell’acqua che, dopo averli coperti per un attimo, si era appena ritirata. Eglia li raccoglieva uno dopo l’altro fino ad averne la mano, chiusa a conca, piena; coprendola con l’altra li portava con sé per riguardarli con calma. Una volta asciugati alcuni perdevano attrattiva, altri erano troppo simili tra loro e andavano scartati. Ogni giorno c’era la speranza di trovare qualcosa di completamente nuovo, di originale.
Diverso, ma altrettanto entusiasmante, era ricercare i sassi piccolissimi. Passando una mano, delicatamente, sopra un mucchio di granelli di sabbia, lo allargava, lo appiattiva, sino a che dalla massa informe emergevano evidenti i singoli sassetti, con forme diverse sorprendentemente nette e precise pur nell’estrema piccolezza. Era un piacere sempre nuovo togliere a uno a uno i sassetti dal mucchio, dare loro una identità, in certo modo creandoli.
Quelli che preferiva, di forma e misura diverse, erano raccolti in un sacchetto trasparente chiuso da un laccio rosso, e venivano ripresi in mano in giorni come questo, in cui la sabbia sollevata dal vento smerigliava la pelle e impediva quasi di tenere gli occhi aperti.
Eglia spinse un bastoncino sotto un lombrico e lo guardò corrugare la pelle mentre vi si arrampicava. Lo sollevò con precauzione depositandolo sopra una foglia, in giardino.
«Bruco» disse «io non ho niente contro di te, ma non puoi pretendere che ti si lasci stare in casa». Rientrando prese dallo scaffale il libro che stava leggendo e si dispose ad aspettare il ritorno del bel tempo.
Piede di porco
Quando Eglia abitava nella casa di pietra, Piede di porco viveva al piano superiore. Tardi nella notte, ogni notte, lo sentiva rientrare. Saliva la scala esterna pesantemente, ansimando, accompagnato dallo scalpiccio quasi impercettibile della sua compagna del momento. Si sentiva il tono grave e profondo della voce di lui, e le risposte di lei sembravano essere unicamente delle cascatelle di riso, una variazione di note più e meno acute: il loro colloquio era un duetto tra un clarino e un trombone. Una volta in casa, ancora per un po’ si sentiva il tomp tomp tomp del suo passo.
Per un certo periodo doveva aver ospitato un animale esotico, non si riuscì a capire quale potesse essere. Non lo si sentiva assolutamente muoversi; solamente, a lunghi intervalli, si sentiva un suono rauco e gutturale che faceva pensare a un coguaro, a una pantera. Al mattino presto, però, si sentiva lo sciacquio di acqua smossa in un grande contenitore: avrebbe potuto essere una foca? Poi una notte Piede di porco passò con altra gente, in silenzio, ed Eglia sentì un rumore metallico che le fece pensare a una gabbia di ferro. Dopo di allora non ci fu più alcun segno dell’animale.
Piede di porco non era molto alto; i capelli castani gli scendevano ai lati del viso largo e gli sfioravano le spalle. Le sue ragazze sembravano sempre la stessa ragazza, anche se il colore della pelle, a volte, era diverso. Piccole e snelle, con i capelli lunghi (lisci sulle spalle, o raccolti in una grossa treccia sulla nuca, o arricciati e gonfiati intorno alla testa a nascondere quasi il viso), con la stessa risatina intermittente che a sentirla