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E-book296 pagine3 ore

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Congratulazioni! Come Ginevra hai scelto di vivere il presente perché il passato a volte pesa ed il futuro, con le sue incognite a volte intimorisce. Ginevra, ormai sessantenne, vuole riprendere in mano la sua vita dopo la morte del marito, cosi compie un viaggio negli Stati Uniti dove vive la figlia Virginia, che ci si è trasferita per lavoro. Ginevra, che è un’oceanografa di fama mondiale depressa dagli effetti del cambiamento climatico, a Washington DC, decide di acquistare una casa da ristrutturare per realizzare il sogno di renderla totalmente ecosostenibile. L’impresa parte con la complicità di eventi favorevoli e personaggi in cui via via Ginevra suscita una grande simpatia tanto da aggregarsi per darle aiuto per far nascere la casa ecosostenibile. Tutti insieme daranno vita al sogno e diventano una specie di grande famiglia allargata. Purtroppo, alcuni eventi drammatici cambiano il corso degli eventi e mettono a dura prova la solidità dei rapporti interpersonali e l’ottimismo della stessa Ginevra. Un libro che parla di amore e di amicizia, ma soprattutto di rinascita interna a qualsiasi età attraverso la collaborazione non solo tra individui ma anche tra l’uomo e la natura.
LinguaItaliano
Data di uscita27 dic 2019
ISBN9788831652506
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    Anteprima del libro

    Present - Jacopo Stante

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    PREFAZIONE

    Gi­ne­vra ha ses­sant’an­ni ed è ri­ma­sta ve­do­va, il suo ama­to Gia­co­mo, com­pa­gno di una vi­ta, do­po me­si di sof­fe­ren­za, è sta­to por­ta­to via da una pro­fon­da tri­stez­za sfo­cia­ta in ma­lat­tia.

    È an­che ma­dre fie­ra di Vir­gi­nia, una ra­gaz­za bel­la co­me il so­le, for­te co­me una roc­cia ma de­bo­le co­me un sof­fio­ne che vi­ve a New York e la­vo­ra per una ca­sa di mo­da co­me sti­li­sta.

    Gi­ne­vra, ocea­no­gra­fa di fa­ma mon­dia­le, or­mai in pen­sio­ne, per vin­ce­re la so­li­tu­di­ne da­ta dal­la mor­te del ma­ri­to, de­ci­de di an­da­re a Wa­shing­ton, nell’Ame­ri­ca del­la sua Vir­gi­nia– un’Ame­ri­ca per da­re uno scrol­lo­ne a quel­le gior­na­te tri­sti e im­mo­bi­li che si sus­se­guo­no una do­po l’al­tra.

    Par­te al­la ri­cer­ca di qual­co­sa di nuo­vo, che nep­pu­re lei rie­sce an­co­ra a de­fi­ni­re con mol­ti dub­bi e qual­che cer­tez­za .

    «Ma a que­sto pun­to del­la vi­ta a me non in­te­res­sa af­fat­to co­sa il mon­do giu­di­chi fa­mo­so o me­no, giu­sto o sba­glia­to, non mi in­te­res­sa­no i ra­ting, il net­work e il com­pia­ce­re. Mi in­te­res­sa il mio istin­to di pas­sa­re il tem­po con per­so­ne dall’ani­ma gen­ti­le.»

    Ap­pro­da­ta al B&B di Ja­net, don­na con la qua­le l’ocea­no­gra­fa in­stau­ra un cer­to fee­ling, co­min­cia a esplo­ra­re la cit­tà dei giar­di­ni, del ver­de a pa­la­te, e già dai pri­mi gior­ni ri­tor­na a guar­da­re con oc­chi nuo­vi un tra­mon­to, un edi­fi­cio, una stra­da al­be­ra­ta, fa in­con­tri che la sti­mo­la­no a fi­dar­si del­la sua se­te di ri­cer­ca.

    «An­che io so­no ve­do­va, Bao, e an­che io so­no al­la ri­cer­ca del­la lu­ce.»

    «La tro­ve­rai, ma ci de­vi la­vo­ra­re tan­to. I pez­zi mi­glio­ri di un al­be­ro so­no quel­li che rac­co­gli, non quel­li che ca­do­no da sé. Bi­so­gna tro­va­re la for­za di sa­li­re sull’al­be­ro e rac­co­glier­ne i frut­ti.»

    Nel suo pe­re­gri­na­re, si im­bat­te in una ca­sa in ven­di­ta bel­lis­si­ma, ma da ri­strut­tu­ra­re qua­si in­te­ra­men­te, cui lei da un no­me evo­ca­ti­vo – "so­gno sul ma­re" –. Que­sta ca­sa la in­cu­rio­si­sce a tal pun­to che no­no­stan­te la ra­zio­na­li­tà le gri­di l’op­po­sto, de­ci­de di con­tat­ta­re l’agen­te im­mo­bi­lia­re per ve­der­la.

    Com’è pos­si­bi­le che a Wa­shing­ton si par­li di ma­re? Ma la ca­sa so­gno sul ma­re si ri­ve­la per quel­lo che è: un pro­get­to di ri­co­stru­zio­ne su un la­go che ri­cor­da a Gi­ne­vra la sua pas­sio­ne, gli ocea­ni, i ma­ri, la sal­va­guar­dia dell’am­bien­te, ma so­prat­tut­to un pro­get­to che l’aiu­ta a ma­te­ria­liz­za­re il suo sta­to d’ani­mo. La ca­sa in co­stru­zio­ne di­ven­ta la sua ani­ma in co­stru­zio­ne. Fi­ni­re la ca­sa si­gni­fi­ca ri­na­sce­re e sce­glie­re co­me ve­de­re e vi­ve­re la sua real­tà. Vuo­le ve­de­re il ma­re an­che do­ve il ma­re non c’è.

    In­sie­me al­la fi­glia Vir­gi­nia, all’ami­ca di sem­pre Zoe e a due co­no­scen­ze ina­spet­ta­te e nuo­ve di zec­ca – Die­go l’ar­chi­tet­to ita­lia­no dell’am­ba­scia­ta, e Ro­bert, l’af­fa­sci­nan­te in­ge­gne­re edi­le –, Gi­ne­vra s’im­bar­ca in una del­le più gran­di av­ven­tu­re del­la sua vi­ta: ri­tro­va­re il co­lo­re dell’en­tu­sia­smo, com­pra­re la ca­sa so­gno sul ma­re e ren­der­la non so­lo abi­ta­bi­le, ma eco­so­ste­ni­bi­le per­ché lei ha a cu­ra il de­sti­no del­la spe­cie uma­na nel pia­ne­ta ter­ra, mi­nac­cia­to dai cam­bia­men­ti cli­ma­ti­ci.

    «Vuoi ve­de­re il pro­get­to Pre­sent nel­la sua gran­dio­sa bel­lez­za?»

    «Per­ché Pre­sent?»

    «Per­ché tut­to è un Pre­sent, è un do­no. An­che que­sta chiac­chie­ra con te. Per­ché al­la no­stra età ti di­co­no che il tuo fu­tu­ro è pre­ser­var­ti al me­glio per­ché le co­se an­dran­no peg­gio­ran­do. Ti di­co­no che la vi­ta pas­sa­ta è an­da­ta via e non tor­ne­rà più, in­si­nuan­do che tu sia mor­ta con il pas­sa­to. Nes­su­no osa dir­ti una fra­se del pre­sen­te. Trop­po im­ba­raz­zan­te. Sco­mo­do in mez­zo a que­sto pas­sa­to e fu­tu­ro co­sì pie­ni di si­gni­fi­ca­to.»

    Le vi­cen­de cam­bia­no re­pen­ti­na­men­te do­po un in­ci­den­te in cui Vir­gi­nia ri­ma­ne se­mi­pa­ra­liz­za­ta e Gi­ne­vra si tro­va ad af­fron­ta­re nuo­vi im­por­tan­ti in­ter­ro­ga­ti­vi ri­guar­do la vi­ta e l’amo­re. Il Pre­sent che si tra­sfor­ma, il Pre­sent co­me do­no che ine­vi­ta­bil­men­te por­ta Gi­ne­vra a evol­ver­si, a ri­met­ter­si in gio­co e a ri­guar­da­re tut­ta la sua vi­ta con one­stà nei con­fron­ti suoi e di chi le sta in­tor­no.

    Pre­sent è un ro­man­zo che, de­li­ca­ta­men­te, par­la di le­ga­mi: tra un uo­mo e una don­na, tra ami­che, tra ma­dre e fi­glia, tra pa­dre e fi­glia, tra aman­ti, tra sco­no­sciu­ti.

    I sen­ti­men­ti scor­ro­no co­me no­te di una te­ne­ra me­lo­dia, le emo­zio­ni sin­ce­re ren­do­no vi­vi tut­ti i pro­ta­go­ni­sti di que­sta toc­can­te sto­ria di ri­na­sci­ta, di ri­vin­ci­ta, di co­rag­gio e am­bi­zio­ne per­ché an­che a ses­sant’an­ni la vi­ta può – de­ve – ri­co­min­cia­re.

    Per­ché tut­ti han­no il di­rit­to di es­se­re fe­li­ci (sem­pre).

    INTRODUZIONE

    «Rien­tria­mo?» chie­se il gior­na­li­sta in­ti­mo­ri­to.

    «In por­to?» ri­spo­si ri­den­do.

    «Sa­reb­be l’idea­le, ma so che voi non rien­tre­re­te mai pri­ma del pre­vi­sto. La ve­ri­tà è che non so­no pron­to. Il ma­re in tem­pe­sta mi ter­ro­riz­za.»

    «Non si pre­oc­cu­pi ca­ro Pao­lo, ab­bia­mo stu­dia­to l’al­tez­za mas­si­ma del­le on­de e, da­ta la cor­ren­te esi­sten­te, non do­vrem­mo ave­re pro­ble­mi. E guar­di, le as­si­cu­ro, ne va­le la pe­na.»

    «Ma se lei du­bi­ta an­che mi­ni­ma­men­te, non do­vrem­mo rien­tra­re? In real­tà po­trem­mo ave­re pro­ble­mi.»

    «Pao­lo, si­cu­ra­men­te es­se­re in una bar­ca di que­ste di­men­sio­ni in un ma­re in tem­pe­sta ha un ele­men­to di ri­schio co­me in tut­to, ma le ri­pe­to va­le la pe­na con­ti­nua­re que­sta escur­sio­ne.»

    «Ma io ho fa­mi­glia. Ho pau­ra.»

    «Mi dia la ma­no. Ab­bia­mo tut­ti pau­ra e ab­bia­mo tut­ti una fa­mi­glia. Le con­fes­so che non c’è co­sa che io non fac­cia per la mia fa­mi­glia! Mi cre­da, ca­pi­sco la sua pau­ra, ma ab­bia fi­du­cia. Non sa­rem­mo usci­ti se non aves­si­mo po­tu­to dir­le un ele­men­to di ri­schio. Non un ri­schio to­ta­le, so­lo un ele­men­to. Ab­bia fi­du­cia, so che non è un sen­ti­men­to fa­ci­le, ma lei ab­bia fi­du­cia. Al­lo­ra vo­glia­mo con­ti­nua­re l’in­ter­vi­sta?»

    «Ci pro­via­mo, ma ri­ma­nia­mo qui sul pon­te?»

    «Per ora sì. Da fuo­ri, sul pon­te di co­per­ta si ca­pi­sce e si vi­ve me­glio l’espe­rien­za. Ven­ga con me, pro­via­mo a pas­seg­gia­re da pop­pa a prua. Po­trem­mo ca­de­re, ma ci rial­ze­re­mo!»

    «Con que­sto tem­po mi in­vi­ta per la pas­seg­gia­ta più te­me­ra­ria di cui ho ri­cor­do, ma pro­vo a fi­dar­mi. Mi ave­va­no pre­pa­ra­to al fat­to che lei ca­ra Gi­ne­vra è una che non de­mor­de mai. Al­lo­ra mi di­ca co­sa de­vo scri­ve­re, tor­nia­mo al­la pri­ma do­man­da. Al­la sua età co­sa l’ha spin­ta a fa­re que­sta nuo­va spe­di­zio­ne in ocea­no?»

    «La rin­gra­zio per la fi­du­cia. Dun­que, co­sa mi ha spin­ta a in­tra­pren­de­re que­sta nuo­va spe­di­zio­ne al­la mia età? L’os­si­ge­no. Aiu­ta­re gli ocea­ni o per lo me­no gran par­te di es­si a ri­tro­va­re l’os­si­ge­no. Il pe­tro­lio, i fer­ti­liz­zan­ti, la pe­sca in­ten­si­va, la pla­sti­ca e spaz­za­tu­ra di va­rio ge­ne­re, tut­to que­sto sta len­ta­men­te uc­ci­den­do gli ocea­ni per­ché crea­no l’osta­co­lo più gran­de all’as­sor­bi­men­to dell’ani­dri­de car­bo­ni­ca che pro­du­ce l’os­si­ge­no.»

    La piog­ge­rel­li­na si sta­va tra­sfor­man­do sem­pre più in piog­gia for­te. Le nu­vo­le era­no più cu­pe, an­che l’odo­re in­cu­te­va ti­mo­re, ma quel­lo che lo spa­ven­ta­va di più era quel ma­re mi­nac­cio­so che ave­va cam­bia­to co­lo­re. Un gri­gio scu­ro che non pro­met­te­va nien­te di buo­no. Sem­bra­va di en­tra­re nel ruo­lo di un per­so­nag­gio dell’Ilia­de. Un pe­ren­ne va­ga­re in un ma­re mi­nac­cio­so sen­za ben sa­pe­re do­ve ci si stes­se di­ri­gen­do.

    «Quan­do ve­drà il par­co na­zio­na­le sot­to­ma­ri­no do­ve fau­na e flo­ra ven­go­no pro­tet­ti, le as­si­cu­ro ca­pi­rà e non pen­se­rà che que­sto grup­po di scien­zia­ti vo­lon­ta­ri sia co­si paz­zo do­po tut­to. Cer­chia­mo di fa­re del no­stro me­glio.»

    «Sì, ma ades­so en­tria­mo al co­per­to qui sta ar­ri­van­do un tem­pac­cio…»

    «Va be­ne, scen­dia­mo. Le mo­stro un vi­deo sull’in­qui­na­men­to da pla­sti­ca ne­gli ocea­ni. Or­mai non è più no­ti­zia. Un sui­ci­dio col­let­ti­vo. Am­maz­zia­mo il ma­re, am­maz­zia­mo la no­stra uni­ca fon­te di vi­ta.»

    «Per­ché non si è fat­to nien­te o co­sì po­co?»

    «Per un li­mi­te uma­no di vi­sio­ne.»

    «Non ca­pi­sco.»

    «Sia­mo scien­zia­ti e sap­pia­mo rac­con­ta­re fat­ti. Sap­pia­mo an­che pro­por­re so­lu­zio­ni, ma se nes­su­no dei lea­der po­li­ti­ci, eco­no­mi­ci o ca­pi del­le gran­di mul­ti­na­zio­na­li, ci ascol­ta ve­ra­men­te, non pos­sia­mo fa­re mol­to.»

    «Quin­di?»

    «Quin­di non pos­so ta­ce­re. Non è pos­si­bi­le che par­lia­mo di tut­to tran­ne di que­sta ca­ta­stro­fe che ci au­to­di­strug­ge­rà. Al­la mia età ho vi­sto mol­te co­se brut­te, ma an­che bel­le per ac­cet­ta­re l’au­to­di­stru­zio­ne.»

    «Co­me di­ce lei, nes­su­no ne par­la per­ché nes­su­no pen­sa di po­ter fa­re nul­la a li­vel­lo in­di­vi­dua­le.»

    «Suv­via! La col­let­ti­vi­tà è fat­ta da in­di­vi­dui! Io cre­do che nes­su­no fac­cia nien­te per­ché nes­su­no sa. Non se ne par­la al pun­to da cer­ca­re ve­ra­men­te so­lu­zio­ni di mas­sa.»

    «Quin­di co­sa fac­cia­mo?»

    «La con­vin­ce­rò che but­tar­si in ma­re e cer­ca­re di pre­ser­va­re il pos­si­bi­le non è poi un’idea co­sì paz­za. È un’azio­ne in­di­vi­dua­le che in­vi­ta a es­se­re ri­pe­tu­ta. Se mi but­to in ma­re lei mi se­gue?»

    «Io?»

    «Sì, lei.»

    «Ho fred­do e non so­no bra­vis­si­mo con le bom­bo­le.»

    «Al­lo­ra fac­cia­mo una co­sa. Lei ora pas­sa tre gior­ni con noi. Ha que­sta gran­de op­por­tu­ni­tà di im­pa­ra­re a usa­re le bom­bo­le da im­mer­sio­ne per scen­de­re ne­gli abis­si e ve­de­re co­sa sta suc­ce­den­do e rac­con­tar­lo al me­glio pos­si­bi­le, men­tre noi ne­gli stes­si abis­si cer­chia­mo di sal­va­re il sal­va­bi­le. Ci sta? Glie­lo chie­de un’an­zia­na si­gno­ra.»

    «Ci sto, ma mi di­ca per­ché al­la sua età lei fa an­co­ra que­sto? So­no si­cu­ro che po­treb­be oc­cu­par­si d’al­tro.»

    «Oh, cer­to che po­trei oc­cu­par­mi d’al­tro, ma per me que­sto è l’al­tro, que­sto è il tut­to! Pro­vo a dir­le per chi e per co­sa lo fac­cio. Per mio ni­po­te per­ché lui è il pre­sen­te del mio pas­sa­to.»

    «Non la se­guo trop­po. Mi rac­con­ti di suo ni­po­te.»

    «Okay. Mi per­met­ta di cor­reg­ger­la. Non le rac­con­te­rò di mio ni­po­te, ma di co­me ogni at­ti­mo pre­sen­te por­ta a una sto­ria di fu­tu­ro che vo­glia­mo. Quan­do pen­so a mio ni­po­te l’uni­co pen­sie­ro che gli vo­glio de­di­ca­re è pro­prio que­sto. Ma de­vo cre­der­ci e vi­ver­lo io fi­no in fon­do pri­ma di tra­smet­ter­glie­lo.»

    «So­no tut­to orec­chie. Mi rac­con­ti del pre­sen­te.»

    «Al­la fi­ne del­la sto­ria il suo pre­sen­te sa­rà una bom­bo­la di im­mer­sio­ne, non se lo di­men­ti­chi.»

    «Cer­to. Ma ora met­tia­mo­ci co­mo­di e mi rac­con­ti.»

    CAPITOLO I

    1.

    Ero ar­ri­va­ta tar­di quel po­me­rig­gio. Non ave­vo dor­mi­to be­ne sull’ae­reo, for­se per l’an­sia del pen­sie­ro di ri­co­min­cia­re da ca­po o for­se per quel pol­lo che mi ave­va la­scia­to un sa­po­re di pla­sti­ca in boc­ca.

    Do­po quel mio ma­lo­re im­prov­vi­so, il dot­to­re mi ave­va det­to di non man­gia­re pe­san­te, ma ave­vo spe­so una for­tu­na per quel vo­lo da Bo­lo­gna a Wa­shing­ton  in bu­si­ness e per giu­sti­fi­ca­re il co­sto, mi ero im­po­sta di as­sag­gia­re tut­to quel­lo che l’ho­stess mi por­ta­va.

    Quel ma­lo­re di qual­che set­ti­ma­na pri­ma mi ave­va spa­ven­ta­to, ed an­che se al­la mia età era lar­ga­men­te giu­sti­fi­ca­to e ac­cet­ta­to sen­tir­si ma­le, per me rap­pre­sen­ta­va un cam­pa­nel­lo che qual­co­sa do­ve­va cam­bia­re o per lo me­no mi­glio­ra­re.

    Ave­vo par­la­to se­re in­te­re con Zoe del Pia­no Mar­shall per sal­va­re l’Eu­ro­pa e co­sì, no­no­stan­te tut­to quel­lo che si di­ce­va, a me gli Sta­ti Uni­ti sa­pe­va­no di ri­co­stru­zio­ne. Una scel­ta ot­ti­ma per la fa­se del­la mia vi­ta do­ve l’uni­ca co­sa che vo­le­vo era pro­va­re, non tan­to a ri­co­strui­re, quan­to usci­re da quel­lo sta­to di ab­ban­do­no emo­ti­vo.

    Il ta­xi che sfrec­cia­va tra le zo­ne al­be­ra­te del Ma­ry­land, ma che a trat­ti si bloc­ca­va in quel ser­pen­te di traf­fi­co sull’au­to­stra­da, in­ter­rom­pe­va il mio sta­to se­mi-as­son­na­to do­vu­to da quel ma­le­det­to fu­so ora­rio, ma an­che dal­la mia chia­ra de­pres­sio­ne che mi at­ta­na­glia­va da me­si or­mai. La stan­chez­za del viag­gio non aiu­ta­va. Da li­be­ra mi sen­ti­vo in trap­po­la. Co­no­sce­vo l’Ame­ri­ca trop­po be­ne per ca­de­re nell’il­lu­sio­ne di pen­sa­re che le stra­de fos­se­ro pa­vi­men­ta­te d’oro. Que­sto era il mio più gran­de li­mi­te, da quan­do Gia­co­mo non c’era più la mia es­sen­za era di­stur­ba­ta da  un con­ti­nuo bat­ti­bec­co in­ter­no tra una cer­tez­za ed un dub­bio e tut­to con tem­pi co­sì re­pen­ti­ni da non po­ter pro­teg­ger­mi dai miei stes­si pen­sie­ri e da non es­se­re ca­pa­ce di pren­de­re de­ci­sio­ni. Men­tre la ra­dio del ta­xi tra­smet­te­va mu­si­che di pae­si lon­ta­ni, io ero pas­sa­ta dal­la cer­tez­za di aver fat­to la scel­ta giu­sta al­le mil­le do­man­de e dub­bi sul sen­so stes­so di par­ti­re.

    Tut­ti mi ave­va­no det­to che que­sta idea biz­zar­ra di la­scia­re Ri­mi­ni e la mia vi­ta lì non era af­fat­to sag­gia e si­cu­ra­men­te det­ta­ta dall’im­pe­to.

    «Ti sen­ti­rai so­la» mi ave­va det­to mil­le vol­te Zoe. Pre­gan­do­mi, fi­no a quan­do mi ave­va ac­com­pa­gna­ta all’ae­ro­por­to, di ab­ban­do­na­re que­sta scel­ta di an­da­re in Ame­ri­ca per un po’ per­ché ave­va ti­mo­re che mi ci tra­sfe­ris­si. Il suo ti­mo­re pro­tet­ti­vo, mi fa­ce­va te­ne­rez­za e mi stu­pi­va, Zoe sa­pe­va che la so­la pa­ro­la tra­sfe­ri­men­to mi tur­ba­va per­ché a lun­go ter­mi­ne. Io non chie­de­vo tan­to, vo­le­vo so­lo smet­te­re di guar­da­re il sof­fit­to del­la no­stra ca­me­ra da let­to e riu­sci­re a tor­na­re ad es­se­re pa­dro­na dei miei pen­sie­ri. Ave­vo bi­so­gno di pen­sa­re e agi­re di con­se­guen­za a bre­ve ter­mi­ne e vo­la­re via mi aiu­ta­va.

    Ave­vo chie­sto al tas­si­sta di fer­mar­si in un ne­go­zio di te­le­fo­nia. L’in­gle­se lo par­la­vo be­ne, bi­lin­gue in ef­fet­ti. L’ave­vo im­pa­ra­to da pic­co­la quan­do mio pa­dre ame­ri­ca­no, a cau­sa del suo la­vo­ro di scien­zia­to, con­ti­nua­va a tra­sfe­rir­si con la fa­mi­glia in pae­si di­ver­si. Sin da pic­co­la ave­vo ca­pi­to che co­no­sce­re l’in­gle­se sa­reb­be sta­ta la mia ga­ran­zia di ca­sa in quel mon­do che non era mai lo stes­so, da­ti tut­ti gli spo­sta­men­ti. Mi ero ag­grap­pa­ta a quel­la lin­gua, co­me ora mi ag­grap­pa­vo a que­sta pic­co­la con­vin­zio­ne che un pe­rio­do in Ame­ri­ca mi avreb­be fat­to be­ne.

    Non ero mai sta­ta una da­gli strap­pi, ma in que­sto mo­men­to ave­vo di­spe­ra­ta­men­te bi­so­gno di cam­bia­re e for­se uno strap­po con la rou­ti­ne era la so­lu­zio­ne mi­glio­re. Gra­zie ai miei ge­ni­to­ri ave­vo im­pa­ra­to che la pru­den­za fi­nan­zia­ria nel­la vi­ta mi avreb­be da­to una tran­quil­li­tà di fon­do e co­si con qual­che sol­do in ta­sca mi so­no sem­pre sen­ti­ta li­be­ra di muo­ver­mi.

    «Ma­da­me, l’aspet­to?» chie­se il tas­si­sta gen­til­men­te.

    «No, va­da pu­re, ci met­te­rò un po’ per ave­re un te­le­fo­no fun­zio­nan­te. De­vo sce­glie­re con pru­den­za.»

    Il tas­si­sta era sta­to estre­ma­men­te gen­ti­le, era ar­ri­va­to dall’Af­gha­ni­stan un de­cen­nio pri­ma e per lui la pa­ro­la pru­den­za era fon­da­men­ta­le, an­cor pri­ma di gio­ia o ef­fi­me­ro.

    "Zoe ciao so­no ar­ri­va­ta, e que­sto è il mio nu­me­ro." È il pri­mo mes­sag­gio che ave­vo scrit­to dal mio nuo­vo te­le­fo­no ame­ri­ca­no.

    Ave­vo ag­giun­to un cuo­re e il mon­do.

    Mi ero sen­ti­ta pro­tet­ta quan­do ave­vo ri­ce­vu­to im­me­dia­ta­men­te ri­spo­sta. "Be­ne. Che bra­va che hai un te­le­fo­no, mi sa­rei sen­ti­ta per­sa. Mi rac­co­man­do man­da­mi una fo­to del­la B&B do­ve sa­rai que­sti gior­ni e, se non va, tor­na im­me­dia­ta­men­te." Zoe ave­va ag­giun­to una fac­ci­na sor­ri­den­te e un ab­brac­cio. Che ca­ra!

    C’era­no sta­ti mo­men­ti del­la mia vi­ta quan­do quel mes­sag­gio non l’avrei scrit­to, ma non ora, con gli an­ni ave­vo im­pa­ra­to ad ap­prez­za­re l’ami­ci­zia che mi ha cam­bia­to il mo­do di guar­da­re. Nel­la mia vi­ta adul­ta, nei mo­men­ti bui ho pen­sa­to spes­so al­la cro­sta­ta di Zoe e ho sor­ri­so.

    Il B&B era in una zo­na re­si­den­zia­le con le ti­pi­che vil­let­te da te­le­film ame­ri­ca­ni an­ni ot­tan­ta, che da­va­no al­lo stes­so tem­po la vo­glia di leg­ge­re un li­bro da­van­ti al ca­mi­net­to in­sie­me al ca­gno­li­no-de­si­gn e fa­mi­glia o di scap­pa­re per non tor­na­re mai più. Cer­to non avrei mai scel­to enor­mi grat­ta­cie­li che an­co­ra og­gi mi dan­no il sen­so di non uma­no. Da sem­pre, le ca­set­te con giar­di­no mi han­no da­to un sen­so di af­fi­da­bi­li­tà an­che se ora ero in fu­ga.

    Fi­nal­men­te con te­le­fo­no in ma­no a pro­teg­ge­re i miei af­fet­ti, ero ar­ri­va­ta con le mie due va­li­gie blu al B&B The Sun. Fa­ce­va fred­do e c’era­no le nu­vo­le, quin­di quel so­le di ce­ra­mi­ca sul­la por­ta, por­ta­to dal­la pa­dro­na co­me sou­ve­nir da chis­sà qua­le viag­gio, mi pia­ce­va.

    Ero su In­dian Bran­ch Rd. Uf­fi­cial­men­te mi sen­ti­vo un apa­che an­che io, il mio car­ro era­no i miei ba­ga­gli. Li tra­sci­na­vo pe­san­te­men­te co­me tra­sci­na­vo il pas­sa­to che c’era den­tro.

    La si­gno­ra Ja­net, al­la re­cep­tion, era una don­na mi­nu­ta con due gran­di oc­chia­li scu­ri e ton­di. Una ti­pa. Il suo ac­cen­to era for­te­men­te ir­lan­de­se.

    «Ben­ve­nu­ta Ms. Gi­ne­vra, spe­ro non le di­spiac­cia che la chia­mi per no­me.»

    «Oh si fi­gu­ri… ca­ri­no que­sto B&B.»

    «Sì, ci te­nia­mo mol­to a que­sta no­stra ca­set­ta. Io e mio ma­ri­to sia­mo ve­nu­ti qui da Du­bli­no qua­si tren­ta an­ni fa e per non per­der­ci in que­sta gran­de Ame­ri­ca, que­sta ca­sa è di­ven­ta­ta la no­stra Du­bli­no.»

    «Per­ché? Di­co, per­ché an­da­re via da Du­bli­no se poi si pas­sa­no tren­ta an­ni a ri­crear­la?»

    «Oh, si­gno­ra Gi­ne­vra, in un cer­to sen­so la rin­gra­zio per que­sto suo es­se­re fran­ca e di­ret­ta. L’Ir­lan­da era di­ven­ta­ta pe­san­te e non era più il ca­so né di re­star­ci, né di tor­nar­ci de­fi­ni­ti­va­men­te. Ma quan­do si na­sce con un’iden­ti­tà è dif­fi­ci­le rin­ne­gar­la com­ple­ta­men­te. Poi an­che uno nel­la vi­ta cer­ca di in­se­ri­re per lo me­no quat­tro di­ver­se vi­te!»

    «Quin­di non an­drà mai via da qui?»

    «For­se sì, ma sia­mo so­lo al­la ter­za vi­ta io e mio ma­ri­to! Le in­te­res­sa la pas­sword per In­ter­net?»

    «Cer­to si­gno­ra Ja­net, e le chie­do scu­sa se le so­no sem­bra­ta inop­por­tu­na. Non era cer­to mia in­ten­zio­ne.»

    «Si fi­gu­ri! For­se an­che lei è in una ter­za o quar­ta vi­ta. An­zi guar­di, per far­le ca­pi­re quan­to ho ap­prez­za­to la sua fran­chez­za, le ho as­se­gna­to la ca­me­ra vi­sta ma­re.»

    «Vi­sta ma­re a Wa­shing­ton ?»

    «Sì, guar­di. Mi di­ca lei in que­sti gior­ni se quel la­go ar­ti­fi­cia­le non le dà una sen­sa­zio­ne di ma­re…»

    «Va be­ne, ac­cet­to la sfi­da e le con­fer­mo che sa­rò qui una de­ci­na gior­ni.»

    «Ben­ve­nu­ta ca­ra si­gno­ra Gi­ne­vra. So­no con­vin­ta che le pia­ce­rà. Da que­ste par­ti l’Ame­ri­ca ha an­co­ra mol­to da of­fri­re.»

    Con quel­la bel­la sen­sa­zio­ne di aver scam­bia­to due chiac­che­re si­gni­fi­ca­ti­ve con la si­gno­ra Ja­net, en­trai nel­la mia ca­me­ra vi­sta ma­re e do­po aver scrit­to su Wha­tsApp a Zoe, pen­sai di an­da­re a dor­mi­re sen­za ce­na, in quel let­to di le­gno chia­ro che mi da­va un sen­so di tran­quil­li­tà fan­ciul­le­sca.

    La mat­ti­na al ri­sve­glio mi aspet­ta­vo di fis­sa­re il mu­ro del­la no­stra ca­me­ra da let­to, che, da quan­do non c’era più Gia­co­mo, era di­ven­ta­to il peg­gior li­mi­te dei miei so­gni. Su quel mu­ro si schiac­cia­va tut­to, nien­te usci­va vi­vo, una ca­me­ra da let­to che la mor­te ave­va tra­sfor­ma­to in una trap­po­la. For­se era pro­prio a cau­sa di quel mu­ro che ave­vo ra­ci­mo­la­to un po’ di for­ze per par­ti­re. Ora ero in que­sta ca­me­ra nuo­va. Con­sta­ta­vo con leg­ge­rez­za che il pre­sen­te era di­ver­so, qua­si non po­te­vo cre­de­re a quel­lo che ve­de­vo. Un la­go di di­men­sio­ni me­dio pic­co­le che for­ma­va pic­co­le on­de, es­sen­do una mat­ti­na ven­to­sa. Ave­vo stu­dia­to e vis­su­to ne­gli ocea­ni, pro­va­to l’ef­fet­to de­va­stan­te di tem­pe­ste ma­ri­ne e da pic­co­la mi ero fat­ta ac­ca­rez­za­re dall’Adria­ti­co, in­som­ma co­no­sce­vo il ma­re io! E sa­pe­vo be­nis­si­mo che quel­lo era un pic­co­lo la­go ar­ti­fi­cia­le e che so­lo con la fan­ta­sia lo po­te­vo tra­sfor­ma­re in ma­re! For­se per­ché la si­gno­ra Ja­net me lo ave­va det­to la se­ra pri­ma, for­se per­ché co­mun­que ave­vo un gran bi­so­gno di ca­sa, e l’ac­qua e gli ocea­ni han­no sem­pre rap­pre­sen­ta­to ca­sa, an­che io ave­vo de­ci­so che quel­lo era un ma­re per­ché quel la­ghet­to mi fa­ce­va sor­ri­de­re un po’ co­me la cro­sta­ta di Zoe.

    «Buon­gior­no Ms. Gi­ne­vra.»

    «Buon­gior­no Ms. Ja­net, ave­va ra­gio­ne sul­la

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