Dal porticato
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Info su questo ebook
Per Ottavio Mirra raccontare assomiglia al guardare. C’è il colpo d’occhio capace d’isolare un dettaglio, lo sguardo quasi cinematografico nel seguire una lunga storia oppure la profondità di osservazione concentrata in passaggi brevissimi, fulminanti. Con tutta la ricchezza evocativa della parola, si narra la vita, le sue infinite sorprese e la forza dell’inatteso, che qualche volta riguarda persino il passato.
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Anteprima del libro
Dal porticato - Ottavio Mirra
Segnò
Vicoli
Un paese ci vuole, non fosse altro per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
CESARE PAVESE, La Luna e i Falò
1. Salvatore Procolo
Salvatore Procolo non era tipo da lasciarsi intimorire da un tuffo. Sarà stato anche lo scoglio più alto sul quale fosse mai salito, ma ormai non poteva più tornare indietro. Da lì si tuffava solo Annibale, muscoli, altezza e dieci anni di vita più avanti. Quando c’era burrasca tirava in secca il gozzo da solo. Quando c’era da vendere fichi d’india e lenticchie, ceci e fagioli, caricava la barca fino al bordo, la faceva andare un po’ a vela e un po’ a remi, e arrivava a Castellamare o a Sorrento sempre prima degli altri. Annibale era forza e coraggio, era l’esempio. Chiunque si fosse arrampicato lassù sarebbe diventato un suo pari. Annibale era un traguardo.
«Volete vedere che ci salgo?» aveva gridato Salvatore per farsi sentire dagli altri che sguazzavano in acqua. Tonino, Ciro e Sebastiano si erano fermati a guardarlo e lui, per farsi coraggio, l’aveva urlato di nuovo. Ora dall’alto poteva vedere tutta la baia, le linee nette dei capi, l’acqua schiumosa che vi si rifrangeva. Si affacciò a valutare la distanza da colmare e il coraggio da metterci. Acqua limpida e lontana. A destra e sinistra rocce sommerse, spigolose e sporgenti. Un nugolo di castagnole marroni, come uno sciame alla ricerca di un nuovo alveare, girava intorno a un pinnacolo. Il blu era al centro, l’acqua profonda e salvifica giusto di fronte ai suoi occhi.
Si può fare, pensò.
Guardò in basso, trattenne il respiro e senza rincorsa saltò. Entrò nell’acqua come una freccia (Come fa il cormorano
disse poi Ciro), scivolando rapido arrivò quasi sul fondo. Con un colpo di reni si girò. In superficie, occhi sgranati a fissarlo. Doveva tornare lassù, un’altra distanza da coprire in fretta. Stavolta però un dolore all’orecchio, una stilettata violenta e improvvisa lo fermò. Sentì la testa scoppiargli. Intorno a lui tutto si mise a girare veloce, una sorta di giostra vorticosa, dolorosa e perversa. Fondale e superficie si confusero al punto che, per un momento, non seppe da che parte nuotare. Fu un attimo, accecante e interminabile. Non c’era tempo da perdere. Raccolse le forze e aprì appena le labbra a costruirsi la strada per l’aria, poi spinse di gambe e disperazione. Quando finalmente poté spalancare la bocca e respirare forte, sentì le voci degli altri soffuse, vide le facce agitate. Sembrava che urlassero. Guardando di lato si accorse dell’acqua arrossata. Un rivolo di sangue gli usciva dall’orecchio. Il dolore era forte, ma la ferita più grave era dentro di sé. Il tuffo non era riuscito.
Quello che proprio non si aspettava, accadde nei giorni a venire. Annibale andò a fargli visita portandogli un piatto di fichi d’india sbucciati e freddissimi.
«Come stai?» gli chiese in modo amichevole e quasi fraterno. Gli disse che sull’isola si parlava di lui e lo trattò con grande rispetto. Poi volle sapere come avesse fatto a salvarsi.
«Il maestro Scotto mi ha salvato la vita» rispose Salvatore. «Un giorno in classe ci spiegò che l’aria è più leggera dell’acqua e una bolla d’aria sale sempre in superficie. Così, quando sott’acqua ho aperto la bocca ed è uscita un po’ d’aria, ho seguito le bolle».
Annibale lo guardò con ammirazione, gli allungò la mano e gliela strinse forte come fanno gli adulti tra loro.
A Salvatore la ferita nell’anima si rimarginò e gli sembrò, da quel giorno, di essere entrato nel mondo dei grandi.
A dieci anni non c’è posto migliore che il tavolo degli adulti. I grandi sanno tutto, pensava. Le domande, a guardare la vita dall’alto hanno sempre risposte, e lui ne aveva di domande irrisolte. Che ci fanno tutte quelle stelle in cielo, come vive la gente dall’altra parte del mare, perché le femmine si mettono le gonne, come fa uno a sapere che è arrivato il momento di sposarsi?
Ottobre 1983
Chiudo un occhio. Con quello aperto seguo il crinale della spalliera del divano allineandolo alla fotografia sul piano della credenza. Dietro le ante di vetro lavorato, piatti e bicchieri utilizzati solo nelle feste comandate e nelle grandi occasioni. Al centro la televisione, coperta da un velo di organza con una cucitura a sbuffo. Il ragazzino che ride in costume da bagno, racchiuso nella cornice dorata, agguanta per le branchie un pesce alto quasi quanto lui. Indice e pollice a mo’ di pistola: BUM, ma il ragazzino continua a sfidarmi, a sorridere sfrontato.
Ce ne sono altre di fotografie. In una è cresciuto e indossa una divisa militare. Nell’altra è sposo, mano nella mano a Livia vestita di bianco. Al centro, davanti a tutte, quella della laurea, la più importante. Uno di noi cambiava vita.
Le voci di Ciro e Sebastiano mi arrivano nitide, come se non fosse passato neppure un minuto. Ridiamo, ci spingiamo lungo i vicoli assolati di estati interminabili.
«Si fa a chi arriva primo alla Chiesa dell’Annunziata».
Una salita che spezzerebbe le zampe a un asino.
I rumori di casa, mia madre che riordina, l’odore delle alici in tortiera. Ricordi sballottati da una parete all’altra in queste stanze vuote. È risacca, acqua morta, senza carattere. Quando arriva sembra niente, poi invece fa male più dell’onda vera, dell’acqua viva.
Mia madre se n’è andata.
Al telefono la voce roca di Annibale, sigarette e commozione «…ché Concetta non ce l’ha fatta a chiamare dotto’, proprio non ce l’ha fatta. È troppo affezionata a vostra madre. Venite presto così la salutate. State tranquillo che lei vi aspetta».
Invece no. Sulla porta mi ha fatto segno con la testa.
Annibale ha le rughe solo più accentuate. Ha una faccia da la-bride, pesce di scoglio. Labbra grosse rivolte verso il basso, sguardo severo e corrucciato. D’estate, dopo l’incidente e la stretta di mano, spesso mi portava sul gozzo. Si partiva prima che albeggiasse. Di sera passava per casa e si affacciava alla porta.
«Salvato’, alla marina alle quattro».
Io non dormivo per niente, alle tre ero già pronto.
«Lavati le mani con l’acqua di mare» mi diceva prima che salissi a bordo «ché i pesci lo sentono che non sei dei loro».
Allora mi stendevo sul molo di pietra lavica dalla parte dello scivolo per le barche, ché lì c’è un gradino. Allungavo le braccia e ci arrivavo.
Mi ha insegnato un sacco di cose Annibale. Il silenzio, per esempio
«Dottore, la natura non tiene rispetto» mi ha detto «se l’è presa stamattina alle cinque» e mi ha abbracciato. Hai voglia a dirgli che deve chiamarmi Salvatore. Non c’è niente da fare. Dopo