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Il mistero della scogliera
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E-book319 pagine4 ore

Il mistero della scogliera

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Info su questo ebook

Quando Leslie si vede recapitare una lettera, che la informa di un’attesa eredità nella Cornovaglia del Sud-Ovest, stenta a credere ai suoi occhi. Ha sempre saputo di avere per metà sangue inglese ma nessuno della famiglia di suo padre finora si era messo in contatto con lei. Per Leslie è come un sogno che si avvera. Fin dal primo giorno che visita la suggestiva dimora, a picco sulla scogliera, sente di far parte di quella casa e di quella famiglia. Ben presto però si accorge che quell’eredità potrebbe dare fastidio a qualcuno e che tutti nascondono qualcosa. I dubbi e i misteri che non trovano risposte la porteranno a indagare sui segreti custoditi da quelle mura e a svelare una sconcertante realtà, un segreto che potrebbe costare la sua stessa vita.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2018
ISBN9788827837313
Il mistero della scogliera

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    Anteprima del libro

    Il mistero della scogliera - Ida Perrone

    Flaubert

    Prologo

    Febbraio 2009 – Cornovaglia Sud-Ovest

    «Ci siamo quasi. Tieni gli occhi chiusi.»

    «Ma… dove mi stai portando?» Ivet seguì l’uomo che la teneva per mano lasciandosi trascinare su per i ripidi scalini.

    Faceva particolarmente freddo, quella notte, e sentiva addosso una specie di ansia premonitrice. Avrebbe fatto meglio a non accettare l’invito in quella grande casa, tanto suggestiva quanto inquietante.

    Non sapeva ancora cosa aspettarsi da quell’uomo. Aveva detto che si trattava di una sorpresa, magari qualcosa che aveva a che fare con tutti i misteri che facevano parte del suo mondo, a lei sconosciuto.

    Era giunta alla conclusione che non poteva più fidarsi di lui, doveva darci un taglio, ma si era spinta fin troppo e non aveva il coraggio di troncare quella strana, conturbante relazione.

    «Se te lo dico non è più una sorpresa», rispose lui senza voltarsi.

    Ivet avvertì una sferzata di vento gelido sulla faccia, non aveva dubbi che si trovasse sulla terrazza più alta. Aprì gli occhi senza aspettare l’ordine e lo spettacolo che le si presentò innanzi la lasciò senza fiato.

    Le luci del porticciolo, come tanti puntini luminosi, si riflettevano nel mare di inchiostro. Il vecchio faro sovrastava il villaggio come un guardiano della notte solitaria; la luce dei lampioni rischiarava la costa con le calette e gli scogli conferendole la visione di un paesaggio lunare.

    «È meraviglioso! Non immaginavo che si godesse di questo scenario da quassù! »

    «Bello, vero? Ho pensato che non potesse esserci un posto migliore per concludere la nostra storia.» La voce dell’uomo rintronò come un’eco lontana e sinistra tra le mura dell’antica struttura.

    Ivet si girò a guardarlo un tantino confusa, ma il sorriso rassicurante di lui la indusse a rimproverasi delle sue congetture. Era il momento che stava aspettando. L’aveva portata lassù per chiederle di sposarlo. La loro storia giungeva a una svolta decisiva. Di certo era questo che voleva dirle.

    «Io… non lo so se sia giusto. Il fatto è che… credo che dovremmo parlare», obiettò sovvenendosi del discorso che aveva preparato.

    Lui la zittì posando l’indice sulle sue labbra e con un impeto affettuoso la sollevò sulle braccia portandola a sedere sul muro del parapetto. Ivet emise un allegro gridolino scambiando l’esuberanza del giovane con l’euforia dettata dalla proposta che stava per farle.

    «Chiudi di nuovo gli occhi», le sussurrò lui tenendola per la vita ben salda sulla ruvida superficie di pietra.

    Ivet obbedì fiduciosa. Qualunque segreto nascondesse quell’uomo non le avrebbe mai fatto del male.

    Chiuse gli occhi convinta che volesse baciarla, ma il bacio tardò ad arrivare. Le mani di lui la spinsero all’indietro e, prima che volesse rendesi conto di quello che le stava accadendo, si trovò a contemplare il paesaggio dall’alto a testa in giù.

    Gettò un urlo di orrore e sorpresa che si perse nel buio, tra lo sciabordio delle onde. Poi le mani dell’uomo allentarono la presa intorno alla vita di lei e si spostarono sulle caviglie facilitando il suo salto nel vuoto.

    Il tonfo sordo del corpo innalzò un’onda anomala che andò a infrangersi sull’alta scogliera. Gli spruzzi raggiunsero la merlatura del parapetto. Uno stormo di gabbiani svolazzò stridendo come impazzito e andò a rifugiarsi tra gli anfratti della struttura.

    «Buon viaggio, Ivet.» L’uomo inspirò l’aria umida della notte asciugandosi gli schizzi dal volto al bavero della giacca. Si sistemò la cravatta e girò le spalle allo sciabordio lamentoso del mare che si increspava sotto di lui. Per un momento quel lamento gli rammentò il pianto di una creatura vomitata dagli abissi profondi. E in quel preciso istante ebbe la certezza che il suo grido disperato lo avrebbe perseguitato per tutti i giorni che gli fosse stato concesso di vivere.

    Capitolo 1

    Appena ci lasciammo dietro il villaggio di Sennen Cove per intraprendere il sentiero che portava sulla scogliera, la maestosa costruzione si stagliò ai nostri occhi. Le mura di pietra grigia e bianca svettavano contro l’azzurro del cielo frammezzato da nuvole bianche. Il sentiero si snodava tra prati di erica e fiori selvatici mossi dal vento sferzante. L’odore del mare divenne più intenso. La spiaggia sabbiosa luccicava sotto l’ultimo sole del giorno. Il grido stridulo dei gabbiani salutò il nostro arrivo.

    Quei luoghi mi erano divenuti ormai familiari, ma le sensazioni che suscitavano in me non erano cambiate con gli anni, soprattutto la vista della grande casa risalente a otto secoli prima. Forse per la sua posizione strategica, a picco sul mare. O semplicemente per la sua struttura imponente, quasi minacciosa, come un gigantesco arciere in procinto di scoccare la freccia dal suo arco infallibile contro chiunque avesse osato disturbare la quiete della dimora. Probabilmente era stata costruita in quel punto preciso per garantirle una maggiore difesa nei tempi della incursioni straniere sul territorio. Una visione suggestiva, degna dello scenario di un film d’avventura, o frutto della mente fantasiosa di uno scrittore.

    Per una come me, che soffre di vertigini, quello non era davvero il posto ideale per viverci, anche se solo per un week-end. Questo pensai la prima volta che misi piede sui gradini che conducevano al grande giardino, e quindi al portone dell’ingresso principale. Ciononostante, appena varcai quella soglia ebbi l’impressione di fare parte anch’io di quel luogo, dei mobili e degli arredi che conservavano ancora l’odore delle generazioni passate. Come se quella fosse stata la mia vera casa, l’unica che mi appartenesse davvero e vi fossi tornata dopo una lunghissima assenza. Qualcosa di inspiegabile e di innaturale mi attirava in quelle stanze corrose dal tempo. Una presenza invisibile, come l’eco di una voce che mi chiedeva di non abbandonarla alla sua solitudine. E dimenticai all’istante il proposito di disfarmi di quell’eredità scomoda, che per la verità capitava a proposito.

    Tutto era cominciato alcuni anni prima, quando le cose non andavano proprio per il verso giusto e avevo bisogno di voltare pagina e ripartire da zero. Non avrei mai immaginato che la mia vita cambiasse radicalmente dal giorno che imboccai quel sentiero, al punto da ritrovarmi prigioniera del mio stesso destino. Quello che prima di me era toccato alla mia bis-bisnonna e alle sue discendenti. Ma se sono ancora qui a raccontarlo, vuol dire che la buona sorte ha avuto la meglio sulle forze negative che agivano in sintonia con il fascino misterioso di Sammounth Hall.

    ******

    Quell’anno il Natale era arrivato più in fretta del solito. Una leggera nevicata aveva imbiancato il giardino intorno all’edificio dove occupavo un minuscolo appartamento, all’ultimo piano in uno dei quartieri più popolosi di Roma. Le strade già addobbate delle luminarie e le vetrine scintillanti erano una gioia per i più piccoli e per chi si preparava con trepidazione alle festività imminenti. Sul lavoro non si parlava che delle vacanze, di quello che si sarebbe mangiato la sera di Natale, dei regali che ci si aspettava di trovare sotto l’albero. E poi dei balli, i concerti e i viaggi in qualche località sciistica dove brindare al nuovo anno.

    Ascoltavo i discorsi dei colleghi fingendo un entusiasmo che, da anni ormai, non condividevo, assecondando le loro confidenze e i pettegolezzi sul capo e la presunta relazione con la sua segretaria. Annuivo e sorridevo alle loro battute umoristiche nella pausa caffè, quando invece avrei voluto fuggire, chiudere i ponti con tutti e sparire in un raggio di mille miglia.

    Non ero tipo da farmi commiserare e non mi andava davvero di passare per la solita ragazzina che non ha ancora capito nulla di come va il mondo. Perciò, avevo deciso di tenermi tutto dentro e non accennare nemmeno alla mia ennesima delusione affettiva.

    In realtà non era solo la rabbia per essermi lasciata abbindolare dall’ultimo donnaiolo impenitente che mi ero ritrovata sul cammino. Mi ero presa la mia soddisfazione lanciando la sua roba giù per le scale e facendogli trovare la porta chiusa a chiave quando era tornato a cercarmi spergiurandomi eterno amore. La mia melanconia aveva origini remote, ora che ci pensavo. Non ero mai stata felice, non avevo avuto un’infanzia normale, come quella di ogni bambina. Nonostante nonna Elsa avesse fatto del suo meglio per sostituirsi ai miei genitori, mi era mancata quella vera famiglia, la figura di un padre e di una madre con cui confrontarmi negli anni della pubertà. Non intrecciavo facilmente amicizie con i miei coetanei, ero una bambina silenziosa e musona. «Sempre con la testa tra le nuvole, a viaggiare con la fantasia», diceva la nonna quando mi sorprendeva a inseguire una visione materializzatasi dalle pagine di una nuova storia che avevo inventato. Infatti, per compensare il mio bisogno di evadere dalla realtà, avevo iniziato presto a familiarizzare con i personaggi partoriti dalla mia immaginazione. Quell’hobby, se così possiamo definirlo, mi aiutò a superare la difficile fase dell’adolescenza e mi tornò utile anche più avanti, quando non ero più la ragazzina musona e insignificante di un tempo, ma nella mia vita non c’era nulla che andasse per il verso giusto.

    Ero venuta in città con la speranza di trovare maggiori opportunità in quello che a tutt’ora restava il mio sogno nel cassetto. Non avevo mai smesso di credere che i miei scritti potessero valere qualcosa e non mi rassegnavo a tenerli rilegati in una cartella.

    Le poche persone a cui avevo permesso di leggere qualcosa dicevano che potevo avere un futuro. Ero brava quasi quanto la Jane Austen o le sorelle Brontë, mi ripeteva la mia insegnante di lettere. Il paragone mi lusingava ma, a dire il vero, i miei racconti erano un po’ diversi in quanto non avevano nulla di romantico. Narravano per lo più di drammi, di misteri e morti ammazzati. La nonna leggendone a caso uno stralcio si fece il segno della croce e mi portò la mano sulla fronte chiedendomi se stessi bene.

    «Mio Dio, ma come ti vengono certe idee? Dove hai visto queste cose, forse in un film dell’orrore?»

    «No, nonna. Le ho solo immaginate.»

    «Be’, d’ora in avanti dovrò stare più attenta a quello che leggi, e a quello che vedi quando vai al cinema con le tue amiche.»

    In effetti ci andavo di rado e i pochi film che avevo visto erano basati su banali avventure di adolescenti.

    Quello che più di ogni altro l’aveva sconvolta era stata la violenza con cui descrivevo le scene del crimine. Eppure non avevo mai avuto un’indole malvagia. Cominciò quindi a preoccuparsi sul serio chiedendosi se non avesse sbagliato tutto con me e, vedendo che il mio genere letterario non accennava a cambiare, fissò un appuntamento con uno psicologo. Questi, per fortuna, dopo un rilassante colloquio la tranquillizzò sulla mia presunta schizofrenia. «La ragazzina non soffre di allucinazioni o problemi psichici. Ha una fervida immaginazione ma è perfettamente in grado di scindere la realtà dalla fantasia. Scrivere per lei è terapeutico, l’aiuta a sentirsi meno sola. Avrebbe solo bisogno di stare di più insieme a gente della sua età. Posso consigliarle di iscriverla in palestra, a un corso di danza o recitazione, ma non può obbligarla se si ostina a passare il tempo libero in compagnia delle sue creature immaginarie.»

    Così, per accontentare la nonna, cominciai a uscire più spesso dopo la scuola, togliendo del tempo prezioso alla mia vera passione, che recuperavo durante la notte mentre lei dormiva tranquillamente nella stanza accanto.

    Le angosce di nonna Elsa scomparvero man mano che mi trasformavo sotto i suoi occhi nella ragazza studiosa e avvenente che lei pretendeva. Col tempo si rese conto che quello di scrivere era per me un dono del cielo, un antidoto al mio bisogno di evadere e assecondò la mia scelta di andare a studiare in città. Tutto purché non mi facessi venire in mente di partire in Inghilterra per perfezionare il mio inglese; o intraprendere la carriera di giornalista, perché a sentire lei quella era stata la causa che aveva letteralmente distrutto la vita di mia madre.

    Sapevo che avevo sangue inglese nelle vene, ma nessuno dei parenti di mio padre si era preso la briga di venirmi a cercare. Non sapevano neppure della mia esistenza. Quando provavo a parlarne con nonna Elsa, lei si innervosiva cambiando improvvisamente discorso. «Che te ne importa di quella gentaglia? La tua famiglia sono io. Che cosa ti manca qui, insieme a me?»

    «Niente, nonna», rispondevo per non mortificarla, ma in cuor mio avrei desiderato saperne di più di quella famiglia nella lontana Inghilterra che non avevo mai conosciuto. Non escludevo che, appena fossi stata più indipendente, avrei intrapreso quel famoso viaggio che tanto preoccupava la nonna.

    Spronata dalle sue stesse insistenze, cominciai a contattare alcuni nomi famosi dell’editoria a cui sottoporre i miei inediti, ma come diceva spesso anche lei: «Cara mia, se non hai un bel calcio nel culo in questo mondo non andrai mai lontano.»

    In effetti, non facevo sogni di gloria. Mi bastava che potessi guadagnarmi da vivere facendo quello che più mi piaceva.

    Il mio sogno però stentava a decollare. Dopo alcune pubblicazioni che non mi avevano portato grandi gratifiche, mi ero decisa a darci un taglio. D’ora in avanti avrei scritto solo per me, a scopo puramente terapeutico. E siccome avevo bisogno di soldi se volevo starmene in città e non pesare sulla modesta pensione della nonna, mi diedi da fare per cercarmi un lavoro.

    Dopo una serie di colloqui, spedizioni di curriculum immaginari alle aziende piccole e medie del territorio, e qualche lavoretto saltuario, fui assunta per un periodo di prova in un’agenzia pubblicitaria. Il mio compito non aveva granché di stimolante o creativo. Me ne stavo tutto il giorno dietro una scrivania, a rispondere al telefono, a ordinare la posta e sbrigare una serie di seccature. Ma la paga era buona e mi impegnava solo fino alle cinque del pomeriggio, per cui del resto della giornata potevo disporne a mio piacimento.

    Naturalmente avevo avuto anch’io le mie complicate storielle sentimentali e le delusioni non avevano tardato ad arrivare, ma credevo di essere vaccinata in quel senso. Per cui, quando incontrai Charles pensai che comunque fosse andata non ne sarei rimasta scottata. Invece, dopo una travagliata relazione durata quasi due anni, mi ritrovavo ancora qui, a piangere sulle mie disavventure, nonché per quel famoso calcio della fortuna che stentava ad arrivare.

    Capitolo 2

    Una provvidenziale influenza mi aveva permesso di anticipare le vacanze. Così che mi fu risparmiato il compito di prendere parte alla festicciola che dava il capo ogni anno per scambiarci gli auguri di Natale. Il mattino dell’antivigilia mi ero alzata con la gola in fiamme e la testa come un pallone. Quella sera stessa avrei dovuto prendere il treno per tornare in paese e trascorrere le feste in compagnia della nonna. Non avevo ancora preparato la valigia, né avevo avuto il tempo o lo spirito necessario per lo shopping natalizio. La mia casa era la più triste dell’intero condominio, senza nemmeno un alberello, anche finto, o una decorazione di aghi di pino sulla porta che attestasse il mio credo. «Tanto non starò qui per le feste», ripetevo ai commenti dei vicini, giustificando me stessa per l’apatia in cui ricadevo ogni anno in quel periodo.

    Avevo sentito che durante le feste chi è solo si sente particolarmente triste. In alcuni casi si è portati addirittura a tentare il suicidio. Per fortuna il mio stato depressivo non era ancora giunto a questo stadio, ma mai come allora mi ero sentita così vuota e apatica.

    Presi un’aspirina e mi trascinai sotto la doccia. La situazione non migliorò e quando provai a vestirmi fui assalita dalla nausea, le pareti della stanza cominciarono a danzarmi intorno.

    Al diavolo!

    Forse non tutto il male veniva per nuocere. Tutto sommato, non potevo scegliere un periodo migliore per ammalarmi. Mi stesi sul letto e allungai la mano per prendere il telefono e avvisare che quel giorno non sarei proprio potuta andare in ufficio.

    Per alcuni minuti dovetti sorbirmi la voce contrariata del capo, che si dispiaceva per non potermi fare gli auguri dal vivo e mi raccomandava di riguardarmi per essere in forma il sette gennaio. Quando chiusi la conversazione decisi che da quel momento avrei spento il telefono e mi sarei barricata in casa senza più interagire con anima viva. Avrei dovuto comunque chiamare la nonna che mi aspettava a Velletri. Lei era la sola persona che avrei voluto vicino, ma tornare a casa in quei giorni significava sorbirmi la compagnia dei suoi nipoti, che arrivavano puntualmente dal Nord per trascorrere insieme il Natale.

    Non avevo mai familiarizzato con loro e non capivo perché ci tenessero a portare avanti quella tradizione. Per me erano solo dei lontani parenti, cugini di secondo o terzo grado, credo. Uno di loro mi aveva fatto anche il filo e la madre non perdeva occasione per buttarmi in faccia la sua meravigliosa carriera, il matrimonio della figlia con un cardiochirurgo e il pargoletto in arrivo, chiedendomi con una frecciatina insidiosa come mai non mi decidessi a sposarmi. E i miei libri? Quando avrei pubblicato il prossimo? Ma com’era che non li trovava in tutte le librerie della sua città?

    No. Nemmeno per nonna Elsa avrei fatto quel sacrificio.

    Passai la giornata in ozio, sotto le coperte, fin quando non mi accorsi che la luce del giorno aveva lasciato il posto a quella artificiosa dei lampioni e delle luminarie a breve intermittenza giù in strada. Mi affacciai alla finestra, la neve si era sciolta del tutto, la gente si ammassava sul marciapiede all’ultima corsa ai regali. In quell’istante suonò il cellulare e la voce allarmata di nonna Elsa quasi mi perforò il timpano quando le dissi che ero ancora a Roma.

    «Come sarebbe, non vieni? »

    «Quello che ho appena detto, nonna. Ho contratto un brutto virus. Non sarei di buona compagnia per nessuno. Stai tranquilla, non succede nulla se passo il Natale da sola. Me la caverò in qualche modo.»

    «Sei sicura che sia solo l’influenza? Cosa ti sta succedendo, Leslie? Dov’è finita la bambina combattiva che conosco io?»

    Sospirai portandomi le dita sugli occhi. Non volevo che si preoccupasse, ma non potevo nemmeno fingere che tutto andasse a meraviglia. E lei mi conosceva abbastanza per sapere che non mi sarei fatta fermare da una banale malattia da raffreddamento.

    «Voglio solo stare da sola, nonna. Ti prego, non insistere.»

    «Va bene», acconsentì dopo un lungo silenzio. «Allora so io cosa fare.»

    Nonostante le mie assicurazioni affinché non salisse su un treno per precipitarsi in città, il mattino dopo sentii suonare alla porta con insistenza. Quando finalmente mi decisi ad andare ad aprire era già sul punto di chiamare i pompieri affinché buttassero giù la porta.

    A essere sincera non potei che sentirmi sollevata. Non sapevo cosa avrei fatto senza di lei. Mi seccava ammetterlo, ma una notte passata a ingoiare pasticche al paracetamolo per farmi abbassare la febbre era bastata a bandire i miei propositi eroici.

    «Ma guarda come ti sei ridotta! Ti ha visto il medico? Dobbiamo chiamarlo subito.» Cominciò a tastarmi la fronte allarmandosi ancor più quando si accorse che scottavo e non riuscivo a reggermi in piedi.

    «È la vigilia di Natale, nonna, non credo che il medico sia disposto a visitare i suoi pazienti a domicilio per una banale influenza», replicai rimettendomi a letto.

    «Ci sarà qualcuno di turno per le emergenze. In caso contrario chiamerò un taxi e ti porterò in ospedale», si impuntò.

    Considerando che non avrebbe esitato a mettere in pratica le sue intenzioni, mi decisi a fare il numero dell’inquilino del piano di sotto, fresco di laurea in medicina, sperando che non fosse già uscito per il suo turno al Pronto soccorso.

    Quando il giovane medico se ne fu andato assicurandomi che ne avrei avuto al massimo per alcuni giorni, e mi raccomandò la terapia da seguire, nonna Elsa si rilassò. Cominciò a pulire la casa e mi costrinse a bere il latte caldo col miele, intanto che mi raccontava come aveva sistemato la faccenda con i suoi ospiti.

    «Non dovevi venire, nonna. Ti ho rovinato il Natale», commentai sentendomi in colpa.

    «Non dire sciocchezze. Non sarebbe un vero Natale senza di te. Sei tu la mia vera famiglia. Loro possono cavarsela anche senza di me, come fanno durante l’anno. Comunque non sono venuti. Gli ho detto che non stavi bene e dovevo venire in città per occuparmi di te.»

    Sapevo che nemmeno lei era entusiasta di festeggiare il Natale. Quel periodo dell’anno le riportava alla mente troppi ricordi che la intristivano. Sempre e solo per me si era sforzata di tenere vive le tradizioni. Almeno quell’anno eravamo in due a sfuggire ai festeggiamenti.

    Passammo il resto del giorno quasi senza parlare, io a letto, lei a farmi da infermiera. Uscì solo per fare la spesa e si diede da fare per prepararmi un pasto leggero.

    La mattina di Natale mi alzai dal letto e mi sforzai di mandar giù qualcosa per farle compagnia, ma ero ancora molto debole e le medicine mi facevano venire sonno, quindi la lasciai sola per gran parte del tempo.

    Al terzo giorno la febbre era calata e mi era tornato anche l’appetito. Ci sedemmo al tavolo della cucina per fare colazione. Parlammo del più e del meno ma mi accorsi che qualcosa la turbava.

    «Cosa c’è, nonna?» le domandai vedendo che si torceva nervosamente le mani come se volesse dirmi qualcosa ma non ne trovava il coraggio.

    «Non so se faccio bene a dirtelo ma… credo che tu abbia diritto a saperlo», sospirò tirando fuori una lettera dalla sua borsa. Lì per lì non mi stupii più di tanto. Nonostante avessi trasferito la mia residenza in città, una parte della posta arrivava ancora al mio vecchio indirizzo. Ma quando lessi il mittente sul frontespizio della busta e vidi che era stata spedita da una cittadina della Cornovaglia, sgranai gli occhi allibita. «Emma Sammounth… Penzance!?»

    La nonna si strinse nelle spalle abbassando lo sguardo con aria colpevole. A quel punto non mi ci volle molto a capire e compresi anche lo sforzo che le era costato prendere quella decisione.

    Capitolo 3

    «Davvero vorresti andare laggiù? In queste condizioni?» mi rimbrottò nonna Elsa costringendomi a contenere il mio entusiasmo.

    «Ma nonna, non hai capito? Qui dice che sto per ereditare una casa nella Cornovaglia del Sud. Un castello!» esclamai sventolando la lettera sotto i suoi occhi.

    «Veramente c’è scritto solo che quella vecchia sta per morire e vorrebbe lasciarti in eredità un mausoleo in cui nessuno vuole più abitare. A patto però che tu vada a conoscerla e decida di trasferirti laggiù», precisò lei facendomi cenno di sedermi e tornare con i piedi per terra. «Da quello che ho capito vorrebbe sottoporti a una specie di esame, per valutare se è il caso di lasciarti la sua bella casa.»

    «L’hai letta, vero?» chiesi dando per scontato la sua risposta.

    «Scusami», annuì di riamando. «Non sono solita leggere le tue cose, lo sai, ma questa volta era diverso. Mi sono stupita quando ho visto da dove arrivava… Non ho potuto farne a meno.»

    «Tu sapevi dell’esistenza di questa signora, non è così? E che lei sapeva di me? Magari non è nemmeno la prima volta che cerca di mettersi in contatto con noi. Perché non me lo hai mai detto?» incalzai rammentandomi del suo atteggiamento quando si

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