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Sei sorelle del Novecento
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E-book159 pagine2 ore

Sei sorelle del Novecento

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Info su questo ebook

Mio padre era partito per la guerra quando la mia sorellina più piccola aveva soltanto otto mesi, nel dicembre 1940 Prima di partire aveva preparato il presepio, come tutti gli anni, con il muschio vero, le montagne, il ruscello fatto con la carta stagnola, tanti pastori e paesaggi sullo sfondo. Un bel presepio. Poi aveva fatto venire due zampognari a suonare le nenie di Natale. A papà piacevano tanto le ciaramelle: forse gli ricordavano il Molise, dove aveva vissuto diversi anni da ragazzo.

Il diario storico-familiare di Ida Pinacci assume l’angolatura giusta per una lettura priva di sovrastrutture, riconsegnata alla semplicità dei fatti e dei comportamenti collettivi, mediati dalla dolcezza e dalla cruda verità delle life histories che lo compongono.  
 
LinguaItaliano
Data di uscita7 gen 2020
ISBN9788833465036

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    Anteprima del libro

    Sei sorelle del Novecento - Ida Pinacci Destrero

    libro.

    Introduzione

    Quella fu la notte più brutta della mia vita: la notte del 13 giugno 1946. Avevo 20 anni, accanto a me nelle brandine pieghevoli che rimanevano chiuse di giorno e venivano aperte la sera dormivano due mie sorelle: Nanda di 19 anni e Giuliana di 17.

    Nella stanza accanto dormivano la mamma e altre tre sorelle: Santuzza di 14 anni, Rosalba di 12 e Giuseppina Paola di 6 anni. Dormivano tutte tranquille e non conoscevano ancora la tragedia che si era abbattuta sulla nostra famiglia. Il pomeriggio era venuto a casa il mio fidanzato Vincenzo con due suoi fedeli amici, Giacomo e Raffaele. Sentivo che ogni tanto parlavano tra di loro ed erano un po’ impacciati. Poi Giacomo mi aveva presa in disparte e mi aveva detto che doveva parlarmi; pensai che dovesse parlarmi di Vincenzo.

    Allontanati dal davanzale mi disse.

    Perché? Hai paura che mi butti giù?.

    Non scherzare.

    Parla.

    Tuo padre non è più!.

    In un primo momento non avevo creduto alle sue parole. Cosa poteva sapere di mio padre, questo ragazzo? Papà si trovava in un campo di concentramento inglese, in India, come prigioniero di guerra.

    Poi mi aveva spiegato che mia nonna aveva scritto da Torino, pregando di avvertirci, prima che arrivasse l’annuncio ufficiale; aveva saputo la notizia da mio cu-

    gino Gianni, anch’egli prigioniero in India, tramite le

    sue sorelle. Mi ero sentita crollare il mondo addosso.

    Avevamo già perso la casa a Formia. Avevamo dovuto abbandonarla per ordine dei tedeschi da un momento all’altro, nel giro di poche ore, perché gli Inglesi e i loro alleati erano arrivati al Garigliano, e Formia era diventata zona di guerra; avevamo preso poche cose ed eravamo sfollate a Itri, avevamo dormito sulla paglia e nelle grotte per circa tre mesi. Poi fortunatamente eravamo venute a Roma. Avevamo trovato dopo tanta fatica un appartamento di due stanze dove stare provvisoriamente e stavamo aspettando il ritorno di papà per decidere cosa fare.

    Quando viene papà, poi si vedrà.

    Ma ora papà non sarebbe mai più tornato.

    Mi ero sentita stringere il cuore e tremare le gambe.

    Bisogna dirlo alla Signora.

    No, non ora.

    Non era possibile. Avevo avuto paura. E se la mamma fosse impazzita dal dolore? Aveva già tanto sofferto. Inoltre qualche anno prima si era ammalata di tifo, che a Formia era allo stato endemico. Era stata per morire e si era salvata per miracolo.

    Il pensiero di trascorrere la notte da sole, dopo questa notizia, mi aveva terrorizzato e avevo pregato Vincenzo e Giacomo di tornare il mattino seguente per parlare con la mamma.

    Ora ero io sola a sapere quanto era accaduto.

    A cena la mamma mi aveva detto:

    Sei pallida, perché non mangi?.

    Non ho appetito.

    Avevo inventato una storia su qualche marachella che aveva commesso Vincenzo. Guardavo le mie sorelle ad una ad una.

    Non sapevano di essere orfane di padre. La mamma ancora giovane, di 44 anni, bella, bruna con una ciocca di capelli più chiara sulla fronte, non sapeva di essere rimasta vedova, con un carico di sei figlie sulle spalle.

    Non potevo dormire: molti pensieri si affollavano nella mia mente. Quando era partito per la guerra, destinato al fronte dell’Africa settentrionale, mio padre mi aveva detto:

    Ida, ti affido la mamma e le sorelle.

    Quindi ora avrei dovuto dedicarmi a loro.

    Domani dirò a Vincenzo che non potrò più sposarlo, pensai.

    In quella lunga notte rividi tutta la mia vita passata.

    Mio padre era partito per la guerra quando la mia sorellina più piccola aveva soltanto otto mesi, nel dicembre 1940. Prima di partire aveva preparato il presepio, come tutti gli anni, con il muschio vero, le montagne, il ruscello fatto con carta stagnola, tanti pastori e paesaggi sullo sfondo. Un bel presepio. Poi aveva fatto venire due zampognari a suonare le nenie di Natale. A papà piacevano tanto le ciaramelle: forse gli ricordavano il Molise, dove aveva vissuto diversi anni da ragazzo.

    L’ALBA DEL NOVECENTO

    Le mie origini

    Mio nonno, Giovanni Pinacci, era professore di lettere, direttore delle Scuole Tecniche. Era toscano, della provincia di Massa-Carrara; si era laureato alla Normale di Pisa e Carducci era stato uno dei suoi professori. All’inizio della sua carriera il giovane professore toscano era stato destinato in Sicilia, ad Acireale, un posto incantevole, situato sul mare ai piedi dell’Etna. Fu anche chiamato a insegnare in casa del barone Paolo Costarelli, che aveva cinque figlie femmine e allora non si usava, in Sicilia, mandare le ragazze a scuola, fuori di casa. Ben presto il giovane professore si innamorò, ricambiato, della più grande di queste ragazze, Giuseppina. Quando la sera tornava a casa, Giovanni, percorrendo la lunga strada solitaria, accendeva tanti cerini, uno dopo l’altro e Giuseppina lo seguiva con lo sguardo dalla finestra.

    Si sposarono e nacquero ben nove figli: quattro maschi e cinque femmine. Il mio papà era il penultimo. Papà nacque ad Agrigento perché in quell’anno il nonno era andato a insegnare in quella città.

    Quando i figli furono cresciuti il nonno chiese il trasferimento a Napoli. Qui si accorse che alcuni professori della scuola in cui era direttore si vendevano le promozioni: li denunciò ed essi furono licenziati. Il nonno era una persona molto retta e non poteva tollerare tali comportamenti. Purtroppo in seguito a questo ricevette delle minacce che coinvolgevano anche la famiglia e allora si rifugiò in un piccolo paese del Molise, Agnone. In seguito fu trasferito a Viterbo, a Chieri, infine a Torino e qui la famiglia si fermò definitivamente.

    Quando nel 1915 scoppiò la Grande Guerra, chiamata in seguito Prima Guerra Mondiale, tutti e quattro i figli maschi partirono per il fronte: Cesare come ufficiale medico, Paolo, Giulio e Peppino come ufficiali dell’esercito.

    Peppino avrebbe potuto non partire avendo già tre fratelli sotto le armi, ma volle partire ugualmente. Giovane sottotenente di 21 anni morì sul Carso ed ebbe la Medaglia d’Argento al valor militare.

    Mio cugino Giovanni, allora bambino, mi raccontava che, saputa la notizia, corse fino alla scuola dove il nonno era direttore gridando per le strade di Torino: È morto zio Peppino!.

    Il dolore fu troppo grande. Il nonno Giovanni prese l’abitudine di andare alla stazione ad attendere i treni dei feriti che tornavano dal fronte. Un giorno morì all’improvviso.

    Poi venne l’epidemia di Spagnola, una influenza fortissima che mieteva molte vite.

    In ogni famiglia c’erano dei morti. Toccò alla nonna Giuseppina e alla zia Ida, di soli trent’anni.

    Mio padre, tornato in licenza a Torino, comprò un giornale alla stazione e lesse il necrologio della mamma e della sorella. Povero papà!

    Finalmente la guerra era finita: mio padre, che aveva dovuto interrompere gli studi di Ingegneria per servire la Patria, pensò che fosse meglio per lui continuare la carriera militare e diventò ufficiale effettivo. Per un periodo fu destinato ad Asti e qui, ad un ballo in maschera al Circolo Ufficiali, conobbe mia madre.

    I nonni materni

    La mamma apparteneva a una delle migliori famiglie di Asti: era nobile sia da parte di padre, che da parte di madre. Il nonno Tancredi Borelli aveva ereditato dal padre una grande distilleria di grappa con annessa una bella abitazione. Inoltre avevano una villa in campagna con molto terreno, una carrozza e un calesse. La nonna Ernestina Dalla Valle era molto affezionata alla sua cavalla, la Gigia e al cavallino che si fermava e non voleva più camminare se incontrava sul suo percorso un pezzo di carta bianca. La famiglia della nonna viveva in un grande cascinale a San Desiderio nel Monferrato. Il padre Ernesto Dalla Valle possedeva molti vigneti e diverse cascine. Aveva sposato una cugina di primo grado: Ifigenia Scamuzzi. Era anche il sindaco del paese e molti si recavano da lui per chiedere consigli. Erano molto ricchi. La nonna mi raccontava che la sua mamma andava una volta all’anno a Parigi in carrozza e che la prima figlia fu mandata a studiare in collegio in Francia. Allora in Piemonte si parlava anche la lingua francese e io ho ancora il libro delle preghiere della bisnonna scritto in francese. Poi la bisnonna si trasferì ad Asti per seguire lo studio dei figli e il bisnonno fu coinvolto in uno scandalo per mezzo di una giovane lattaia, che portava il latte nelle case. Lo sorpresero in flagrante e fu per lui la rovina.

    La bisnonna non lo perdonò più: vissero separati ed ella non si recò da lui neanche quando egli la fece chiamare in punto di morte.

    In seguito alla guerra gli affari della distilleria del nonno Tancredi non andarono più tanto bene.

    I due figli maggiori Gustavo e Ugo avevano intrapreso la carriera militare; il terzo, un po’ discolo, partì per l’America.

    Così il nonno incominciò a vendere tutti i suoi beni e infine cedette anche la fabbrica.

    La nonna portava spesso al ballo al Circolo Ufficiali le sue tre figlie: Bianca, Rosa e Maria. Quando conobbe mio padre, Maria indossava un domino nero, cioè un mantello di seta nera foderato di bianco con cappuccio e aveva una mascherina nera sugli occhi. Era una bella ragazza alta e slanciata, con l’erre moscia e le fossette nelle guance quando sorrideva.

    Dopo qualche giro di danza il giovane ufficiale chiese a Maria di togliersi la mascherina, ma lei non voleva. Allora egli stesso gliela sollevò, facendo leva con un dito. Fu amore a prima vista. Lei aveva 23 anni quando si sposarono, lui 36. Anche Giulio era un bell’uomo, non troppo alto ma dal viso intelligente, gli occhi vivi color nocciola, la muscolatura atletica.

    I primi anni

    I miei genitori si stabilirono a Torino, dove io nacqui. Mi misero il nome della zia Ida. Mio padrino di battesimo avrebbe dovuto essere lo zio Gustavo, fratello maggiore della mamma, capitano di Fanteria, che si trovava in Libia. Si aspettava il suo arrivo e invece giunse la notizia della sua morte improvvisa. Cadde in un’imboscata mentre andava all’attacco, alla testa delle sue truppe. C’era un vecchio indigeno nascosto dentro la cavità di un albero, che gli sparò un colpo in mezzo al mento, tra la barba.

    In questo modo, uccidendo un ufficiale cristiano, cioè infedele, secondo la sua religione, l’arabo avrebbe con certezza raggiunto il paradiso di Allah. Anche zio Gustavo ebbe la Medaglia d’Argento al valor militare. Zio Ugo fu allora il mio padrino: tenente dei Bersaglieri, amante dello sport, della caccia e del tiro a segno; mia cugina Giuse fu la mia madrina.

    Quando avevo 4 mesi, la mamma si accorse che non crescevo più; allora capì di essere di nuovo incinta e che il suo latte era diventato acqua.

    Non volevo il biberon, allora mi diedero una bella scodella di latte di mucca allungato con acqua. E io imparai presto a bere così.

    Papà fu trasferito a La Spezia

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