Vita di Arnaldo
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Anteprima del libro
Vita di Arnaldo - Benito Mussolini
Congedo
Introduzione
Mentre l’anno 1931 tramontava, Benito Mussolini era già diventato il duce d’Italia
. Nel ’22 aveva preso il potere, nel ’25 aveva abolito il parlamento, nel ’26 sostituito sindaci e giunte con podestà e giunte fasciste, resi illegali tutti i partiti al di fuori del P.N.F. e posto una forte censura alla stampa; nel ’29 aveva siglato l’accordo, la tanto attesa pace, con la Chiesa di Roma. Era il capo indiscusso del Paese e lo era diventato dopo una lunga carriera passata tra il mondo del giornalismo e quello della politica. Il suo passato era rappresentato dal giornale che fondò nel 1914, quando era socialista e interventista, «Il Popolo d’Italia». Quando Benito fu nominato presidente del Consiglio da Vittorio Emanuele III, la direzione del giornale, ormai diventato organico del partito, passò nelle mani di suo fratello Arnaldo, il quale guidò il quotidiano fino alla sua morte, avvenuta il 21 dicembre 1921. Quattro giorni più tardi Benito iniziò a scrivere un libro, Vita di Arnaldo
che cominciava con queste parole scritte di getto la sera di Natale: Voglio scrivere stasera, 25 dicembre 1931, X, uno dei più tristi Natali, forse il più triste, della mia vita, le prime pagine del libro che dedico alla memoria di Arnaldo. Oggi, a palazzo Venezia, per sei ore, ho cominciato lo spoglio delle carte lasciate da lui; operazione necessaria, delicata, che ho compiuto e compirò con grande trepidazione. Ho trovato, fra l'altro, manoscritti di miei discorsi che consideravo perduti, documenti di qualche importanza politica e lettere antiche, recentissime di me o di altri ad Arnaldo. Nato l’11 gennaio del 1885, due anni dopo di me, non aveva potuto essere allattato dalla mamma, già esausta per causa mia e fu dato a balia ad una contadina di casa dei Gaiani, a un chilometro da Meldola, a destra, scendendo verso Forlì. La casa colonica esiste ancora, ma non so se vi risieda sempre la stessa famiglia, che aveva una certa parentela con noi, per via del nostro nonno materno. La casa dei Gaiani ha una parte importante nella storia dell'infanzia di Arnaldo e mia. Egli vi passò alcuni anni e frequentò le scuole elementari di Meldola. Di poi tutti gli anni, all'ultima domenica d'agosto, ricorrendo in Meldola la famosa sagra della Madonna del popolo andavamo, come si dice in Romagna, «a parenti», cioè eravamo ospiti per un giorno o due dei Gaiani. Talvolta anche la mamma ci accompagnava, ma più di sovente andavamo soli, a piedi. Partivamo da Dovia, nelle prime ore pomeridiane del sabato, già vestiti con gli abiti domenicali (ricordo che i sarti lavoravano al domicilio dei clienti), salivamo rapidamente, attraverso le ancora esistenti scorciatoie, il colle dominato dalla Rocca delle Caminate; qui, sempre ci fermavamo per rimirare il panorama della pianura e per la strada comunale scendevamo a Meldola, dove la vecchia Rocca ci faceva sempre una grande impressione. Arnaldo ed io dormivamo allora nella stessa stanza, nello stesso grande letto in ferro, costruito da mio padre, senza materasso e col saccone di foglie di granturco. Il nostro appartamento si componeva di due stanze al secondo piano di palazzo Varano e per entrarvi bisognava passare dalla terza stanza, che era la scuola. La nostra stanza serviva anche da cucina. Al lato del nostro letto c’era un armadio di legno rossiccio che conteneva i nostri vestiti; di fronte c'era una scansia ad arco, piena di vecchi libri e di vecchi giornali. Arnaldo ed io li sfogliavamo: fu lì che leggemmo le prime poesie: i primi fogli illustrati, come L'Epoca, che allora usciva a Genova; e fu tra quelle caselle che un giorno io feci una scoperta che mi riempi di curiosità, di stupore e di emozione: trovai le lettere di amore che mio padre aveva scritto a mia madre. Arnaldo rivelava fin d'allora il suo temperamento. Egli era infinitamente più tranquillo di me e più buono. Mentre, spesso, i miei giochi coi compagni finivano in lotte furibonde, io non ricordo ch’egli ne abbia mai provocate. Era mite e riflessivo. Mi tratteneva, mi consigliava, mi aiutava, poi, a rimettermi a posto, per presentarmi al babbo senza pericolo di buscarne. Mentre traccio queste linee, rivedo il fiume, il torrente, la strada, i casolari, il campanile di San Cassiano, i miei coetanei, il «callarone» che dalla provinciale saliva a Varano; le spigolatrici d'estate e le interminabili partite a briscola d'inverno nella stalla di Cireneo, partite interrotte soltanto quando giungevano i fogli illustrati con la guerra d'Africa
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Stefano Poma
Primi ricordi
Voglio scrivere stasera, 25 dicembre 1931, X, uno dei più tristi Natali, forse il più triste, della mia vita, le prime pagine del libro che dedico alla memoria di Arnaldo. Oggi, a palazzo Venezia, per sei ore, ho cominciato lo spoglio delle carte lasciate da lui; operazione necessaria, delicata, che ho compiuto e compirò con grande trepidazione. Ho trovato, fra l'altro, manoscritti di miei discorsi che consideravo perduti, documenti di qualche importanza politica e lettere antiche, recentissime di me o di altri ad Arnaldo. Anche le bozze dì un libro, di certa signora Benedetti di Cesena, sono venute tra le mie mani e in esse ho scorto una data: 25 settembre 1896: il primo dolore di Arnaldo e mio e, forse, dell'Edvige; dico forse, perché era troppo piccina: la morte di mia nonna, Marianna Ghetti. La ricordo con una precisione nettissima: era una donna alta, segaligna, continuamente in moto. La sua mania era quella dì andare lungo il fiume a raccogliere tutti i detriti legnosi lasciati sul greto, dopo le piene che costituivano, insieme coi grandi temporali estivi, un avvenimento nelle nostre giornate; un'altra era quella di non mai voler sedere a tavola, con noi, a consumare i pasti frugalissimi, che consistevano per tutta la settimana, in una minestra di verdura a mezzogiorno e in un piatto di radicchi di campo, alla sera, mangiati nello stesso piatto in comune. La domenica, un mezzo chilo di carne di pecora per il brodo, che bisognava continuamente schiumare. L'intercalare dialettale di mia nonna religiosissima, consisteva nel dire «Accidenti al peccato mortale!». Ci amava moltissimo e noi la facevamo non poco disperare. Un giorno di quel lontano settembre, mia madre e noi tre figli eravamo andati nel pomeriggio alla nostra vigna di Camerone, detta Cuclon, che ce l'aveva affittata per nove anni. Non era grande e non produceva più di un carro di uva, cioè otto quintali, ma c'erano tre fichi, uno dei quali aveva frutti particolarmente dolci. Per recarci alla nostra vigna, si partiva da Varano, si saliva per un ripido sentiero, tra le vigne di Filippone, di Giuliano; si passava dal podere Casola, vigilato da un