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E-book152 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Intrusa. Così si sentiva quella bambina, ancora prima di nascere: un’intrusa nel ventre di sua madre. Si sentiva così quando non conosceva la parola, quando, se pur l’avesse conosciuta, non aveva ancora una bocca per pronunciarla. Non cercata, non voluta, non amata. Era solo volontà, quando a tutti i costi decise che sarebbe venuta al mondo.
Nata non voluta, è cresciuta in solitudine. La vita ci ha provato in tutti i modi a renderla infelice, ma lei ci aveva messo così tanto impegno a venire al mondo che non avrebbe mai permesso a nulla di toglierle il sorriso.
Questa è la storia di come ha preso la sua vita e ne ha fatto una cosa bella.
LinguaItaliano
Data di uscita19 dic 2023
ISBN9791220148016
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    Anteprima del libro

    Esclusa - Giuliana Raggi

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    Giuliana Raggi

    Esclusa

    © 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-4203-8

    I edizione dicembre 2023

    Finito di stampare nel mese di dicembre 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Esclusa

    Capitolo 1

    Quella bambina sono io, questa storia è la mia. Inizia molto prima della mia nascita.

    Nonno Gigetto e nonna Annamaria erano sempre stati molto poveri. Entrambi originari dell’Umbria, si erano innamorati e si erano sposati ma, avendo davvero poco di cui vivere, decisero di cercare fortuna altrove e partirono insieme per la Francia. A Thionville, dove si trasferirono, nonno Gigetto trovò lavoro come minatore. Ha lavorato in miniera per ventisei anni e otto mesi, spezzandosi la schiena, senza mai perdere il sorriso né la voglia di cantare. Vivevano in una casetta bianca, in un complesso più ampio fatto di case tutte uguali, con un piccolo giardinetto, dove mia nonna allevava i suoi amatissimi conigli. Ebbero una bambina, una sola, che chiamarono Luisa e a cui volevano dare tutto quello che loro non avevano mai avuto e di più. Nei limiti delle loro possibilità, non le dicevano mai di no. Indossava sempre il vestito bello, era circondata di affetto e di attenzioni e crebbe così, amata e viziata, abituata ad avere sempre quello che voleva.

    Luisa diventerà, suo malgrado, mia madre.

    Anche Agostino, mio padre, era emigrato in Francia nel 1953. Aveva diciassette anni, era l’ultimo di tre fratelli e, orfani di padre, non avevano di che mangiare. Anche lui era partito alla ricerca di una vita più agiata fuori dall’Italia e si trovò a lavorare come minatore a Thionville. Lì conobbe Gigetto e sua figlia Luisa. Sei mesi dopo, lui e Luisa si sposarono. Pare sia stato il destino a volere quell’unione, almeno il destino di mio padre, perché quel matrimonio gli salvò la vita.

    Il giorno in cui lui e Luisa andarono a consegnare i documenti al comune, in miniera avvenne un incidente in cui persero la vita tutti i minatori che lavoravano in squadra con mio padre. Lui avrebbe dovuto essere con loro e se quel giorno non si fosse assentato, sarebbe morto. Per lui fu un duro colpo. Aveva perso degli amici e si era salvato per un soffio. Poco dopo, si licenziò.

    Agostino e Luisa si trasferirono a Lussemburgo, dove lui trovò lavoro come idraulico e lei come addetta alle pulizie al Parlamento. Nacque loro una bambina, a cui diedero il nome di Rosanna. Quattro anni dopo, Luisa scoprì di essere di nuovo incinta, ma lei quel secondo figlio non lo voleva. Fece di tutto per avere un aborto. Sollevava carichi pesanti, era sempre in movimento, saliva e scendeva le scale di corsa e poi metteva i piedi nell’acqua gelata. Niente funzionò e la gravidanza andò avanti.

    Si dice che forti sentimenti negativi della donna possano causare un aborto spontaneo e sono sicura che la rabbia provata da mia madre in quei mesi sia stata tanto violenta da essere pericolosa. Ma, a quanto pare, io, ancora embrione, non volevo arrendermi.

    Il 20 settembre 1968, nonostante tutti i suoi sforzi per impedirlo, mi affacciai per la prima volta al mondo. Mia madre non aveva voluto fare neanche lo sforzo di pensare a come chiamarmi. Quando ormai si era rassegnata al fatto che la gravidanza sarebbe andata avanti, lei e mio padre avevano iniziato a pensare a un nome da dare a quel nascituro indesiderato. Avendo già una bambina, avevano scelto un nome maschile: Giancarlo. In quel periodo, era incinta anche la cugina di mia madre, Maria, che, nel caso in cui avesse partorito una femmina, avrebbe voluto chiamarla Giuliana. Ma mia madre partorì per prima una bambina e si prese il nome scelto da sua cugina. Quando, sei mesi dopo, Maria partorì un maschietto, la decisione più logica fu quella di mettergli il nome che era stato destinato a me: Giancarlo.

    Io e mio cugino, legati appena nati da uno scambio di nomi, siamo cresciuti uniti e vicini, se pur non fisicamente, quanto meno con il cuore.

    La mia nascita non cambiò i sentimenti di mia madre nei miei riguardi. Non riusciva ad accettarmi, non riusciva a rassegnarsi al fatto che quella neonata non prevista facesse ora parte della sua vita. Non permetteva a nessuno di guardarmi o toccarmi. Quando mi battezzarono, molti amici e parenti vennero a Lussemburgo per conoscermi, ma lei non lasciava che si avvicinassero a me. Appena finiva di allattarmi, mi chiudeva in una stanzetta da sola. Diceva che ero brutta perché avevo la pelle troppo scura. Mi ha allattato per nove mesi e in quei nove mesi io non ho mai smesso di piangere. Forse sentivo, attraverso il latte che mi dava, la sua rabbia, il suo rancore. Non c’è una sola foto di me neonata in cui sorrido. Non appena fui abbastanza grande da essere svezzata si liberò di me, mandandomi in Francia dove ancora vivevano i miei nonni. Con loro ho vissuto fino ai tre anni, quando mi hanno riportato a Lussemburgo perché avrei dovuto iniziare la scuola. Non ho molti ricordi di quella casa, se non l’ampia scalinata che portava al nostro appartamento, sulla quale mi sedevo spesso a piangere.

    Mia madre riuscì a tollerarmi a casa insieme a loro solo per un altro anno e mezzo, prima di mandarmi di nuovo a stare dai nonni, che nel frattempo erano tornati a vivere in Italia. Mi fece il passaporto e, con un documento firmato, mi affidò a un signore che mi avrebbe accompagnato nel lungo viaggio. E così, mi mise sul treno che mi avrebbe portato in Italia, con un vestito grigio e la faccia gonfia per un ascesso al dente, gli occhi arrossati dalle lacrime di dolore e di paura.

    Avevo quattro anni.

    Mio nonno era andato in pensione e lui e nonna erano tornati a vivere in Umbria, a Gualdo Tadino, in una casetta che somigliava ai disegni dei bambini, con il tetto spiovente e il prato tutto intorno. Era lontana dal centro del paese, un po’ isolata, circondata dai campi, dalla natura, dal verde. Poco lontano c’era un ruscello, vicino al quale amavo giocare. Saltavo da una sponda all’altra, cercando di arrivare sempre più lontano. Mio nonno mi chiamava pesciaiolo matto, perché spesso ci cadevo dentro e i miei vestiti erano sempre bagnati.

    Non c’erano altri bambini con cui giocare, per cui passavo tutto il mio tempo insieme agli animali. Parlavo con le oche e con le anatre. Ogni sera, mia nonna mi ordinava: «Vai a chiudere il cancelletto». Ed io ne approfittavo per andare a trovare le mie amiche. Lasciavo uscire tutte le anatre e le oche dal recinto, io passeggiavo avanti per il cortile e loro dietro. Finito il giretto, le rimettevo dentro e finalmente chiudevo il cancelletto come mi era stato chiesto. Mio nonno mi regalò un cagnolino, che adoravo. Era un meticcio dal pelo marrone e bianco e divenne subito il mio migliore amico. Nonno lo chiamò Charly, come la città francese.

    A ripensarci adesso, che torture! Povero cagnolino! Lui era buonissimo e si lasciava fare tutto. Ricordo che una volta lo truccai, mettendogli del pennarello indelebile sotto gli occhi e il rossetto. Quando se ne accorse, mio nonno si arrabbiò tantissimo. Mi ordinò di andarlo a lavare, perché avrebbe potuto fargli male, così lo misi nel passeggino di Cicciobello e lo portai al ruscello per lavarlo. Ma l’acqua fece sciogliere l’inchiostro e tutto il muso gli divenne nero. Povera creatura, cosa ha dovuto sopportare!

    Andavo poi a cercare i gattini per i fienili vicini. Ogni volta che ne trovavo uno, lo portavo nel mio. Per distinguerli, mettevo loro dei nastrini colorati. Mi piaceva il modo in cui si strusciavano intorno alle mie caviglie, mi rilassava il suono vibrante delle loro fusa, rispondevo prontamente a ogni miagolio e mai mi sottraevo a un gioco.

    Mio nonno non voleva che portassi i gatti in casa, ma ce n’era uno a cui ero particolarmente legata. Quando mio nonno andava a letto, mi alzavo in punta di piedi e aprivo la porta piano piano, attentissima a non fare rumore. Prendevo il gatto e lo portavo in camera con me, per farlo dormire nel mio letto. La mattina dopo, prima che mio nonno entrasse in camera, lo nascondevo. Non so quante notti sia andata avanti questa storia, ma dopo un po’ mio nonno lo scoprì e il gattino non poté più entrare in casa.

    Le mie braccia erano piene di graffi, le mie ginocchia sempre sbucciate e le mie gambe piene di lividi. Non riuscivo a stare ferma. Mi svegliavo la mattina ed ero già in giro a correre per i campi, con mio nonno dietro che cercava di fare in modo che non mi facessi troppo male mentre mi arrampicavo sugli alberi come una scimmia.

    Non si spiega dove trovassi l’energia per correre avanti e indietro, visto che mangiavo pochissimo e rifiutavo quasi tutto il cibo che mi davano. Ero fatta solo di ossicini e i miei nonni erano molto preoccupati. Mio nonno comprò un tavolino da picnic con una piccola sediolina e lo mise in corridoio – non so perché mi piacesse mangiare lì. All’inizio parve funzionare, ma presto mi stancai anche di quella novità. Allora, a mia insaputa, il nonno chiese ai vicini di casa di invitarmi a pranzo. A casa loro non feci i miei soliti capricci e mangiai tutto quello che mi diedero. Da allora, nonno ogni tanto portava loro la spesa e mi faceva invitare a pranzo. Solo così riusciva a farmi mangiare.

    Mio nonno aveva un

    Ape

    50 e un motorino con i quali mi portava sempre in giro. In estate lavorava come giardiniere dagli Zoccolanti, dei frati che vivevano in un convento non molto distante da noi; ogni volta che mi portava con sé ne ero felicissima, perché sapevo che avrei potuto dar da mangiare le ghiande ai due cinghiali allevati dai frati. Mi portavano in giro per il bosco a raccogliere i mirtilli, poi, tornati in convento, cucinavamo e mangiavamo tutti insieme.

    Per farmi giocare con gli altri bambini, temendo potessi soffrire la solitudine, mio nonno mi caricava in spalla e mi accompagnava, a piedi, in un paese vicino dove c’erano delle giostre. Erano giusto uno scivolo e un’altalena, ma a me sembrava il più bello dei parchi giochi. Passavo lì il pomeriggio a giocare e, arrivata la sera, nonno mi riprendeva sulle spalle e si incamminava di nuovo verso casa. Per tutto il viaggio, andata e ritorno, cantava. La sua voce era meravigliosa.

    Purtroppo, la vita idilliaca che ho vissuto sola con i miei nonni è durata solo due anni.

    Quando avevo sei anni, i miei genitori tornarono a vivere in Italia. Ricordo come fosse ieri il momento in cui vidi la loro macchina entrare in paese e dirigersi verso di noi. Mentre la osservavo, piangevo.

    Mia sorella scese dall’auto e ci trovammo, dopo anni, l’una di fronte all’altra. Indossava un vestito bianco con le margherite gialle, un nastro dello stesso colore legato in vita e teneva un palloncino in mano. Aveva le guance morbide e il viso pulito. Di fronte a lei c’ero

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