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I costruttori di ponti
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I costruttori di ponti
E-book234 pagine3 ore

I costruttori di ponti

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Info su questo ebook

«Scavalcamenti di finestre, zappate in testa e incidenti di tutti i tipi erano all’ordine del giorno. Questo vuol dire essere molto giovani e avere molti figli. Avere l’abbonamento con l’ospedale. Quando mamma aveva trent’anni c’eravamo tutti e cinque e avevamo un pulmino Fiat 850.»

Due genitori diversi come il giorno e la notte, cinque figli scatenati. Dall’unione tra gli opposti viene al mondo Matteo, voce narrante di questa storia.

«Lei ci avrebbe preso a fucilate tutti quanti.
Lui aveva la capacità di rendere maestosa qualsiasi cosa.»

Matteo attraversa i campi di cocomeri con la testa piena di domande. Lui e i suoi quattro fratelli viaggiano da soli per il mondo fin da piccoli, in quegli anni Settanta in cui – dalla musica alle visioni di Blake, dalla rivoluzione all’America – tutto esplode.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2019
ISBN9788832549874
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    Anteprima del libro

    I costruttori di ponti - Tiziana Zita

    Graves

    I Personaggi

    La storia dall’inizio

    Scavalcamenti di finestre, zappate in testa e incidenti di tutti i tipi erano all’ordine del giorno. Questo vuol dire essere molto giovani e avere molti figli. Avere l’abbonamento con l’ospedale. Le è anche capitato di essere fermata dalla polizia per trasporto abusivo di bambini. Quando mamma aveva trent’anni c’eravamo tutti e cinque e avevamo un pulmino Fiat 850.

    Era di sabato, ci aveva presi a scuola per andare al mare, perciò eravamo tutti col grembiule blu, il fiocco bianco e le cartelle. C’erano anche nonna e nonno. Arrivati a Lido dei Pini ci ha fermato la polizia e ha domandato a Emma, mia sorella, quanto pagava. Lei non capiva.

    Erano convinti che mamma fosse un corriere privato e che facesse l’autista. Con l’occasione nonno ha detto che doveva fare la pipì. Nonna Graziosa per distoglierlo gli diceva: «Non ti scappa!».

    E lui: «Mi scappa».

    Che poi se tu lo innervosivi quello cominciava a strillare e a battersi sul petto: «Io, Pietranera Bernardino!».

    Questi carabinieri guardavano perplessi.

    Allora mamma gli ha detto: «Va bene falla, basta che ti giri verso la cunetta».

    Poi ai carabinieri: «Quale trasporto, questi sono figli miei!».

    «Ma come signora, sono tutti suoi?»

    «E già, sono tutti miei!»

    «Tanti auguri!»

    E se ne sono andati.

    Graziosa Serafini, che è la nostra nonna – la nonna di Emma, Beatrice, mia, di Augusto e Silvia – era nata nel 1903 da una famiglia di contadini che non avevano niente, neanche la casa. Veramente la casa ce l’avevano finché non andarono a cogliere i funghi nel bosco. Il problema è che tutti mangiarono quei funghi, tranne nonna Graziosa e sua sorella. E i funghi erano avvelenati. Non hanno ucciso tutti immediatamente, li hanno uccisi due settimane dopo, tra atroci sofferenze. Questo perché al tempo non si andava all’ospedale. Nonna Graziosa non aveva mangiato i funghi perché non le piacevano. Non le sono mai piaciuti. Quando è successo aveva undici anni e si è trovata improvvisamente orfana di padre, madre, fratelli e sorelle, insomma di tutta la famiglia. Lei e sua sorella non avevano più niente e quindi sono diventate braccianti agricole. Così andavano a lavorare nei campi durante la stagione della raccolta: dormivano nelle stalle, venivano pagate alla giornata, non avevano diritto a niente e avevano sempre lo stesso vestito.

    Bernardino Pietranera era nato anche lui nel 1903, a Frasso Sabino, un paesino vicino a Roma. Nel 1800, nel castello di Frasso ci vivevano i duchi con i carabinieri e i domestici. Fra questi c’era una serva di cui abbiamo perso il nome che faceva all’amore con un carabiniere calabrese di cui ci è rimasto solo il cognome: Pietranera.

    I due si sono fidanzati, sposati e hanno fatto cinque figli, tutti maschi. Questi cinque figli a loro volta hanno fatto un sacco di figli, tutti maschi, così a Frasso Sabino si chiamano tutti Pietranera.

    Bernardino Pietranera conosce Graziosa Serafini e del loro incontro c’è rimasta solo una cartolina che lui le spedì. Davanti c’è la foto in bianco e nero di una donna molto vamp e dietro c’è scritto: Graziosa il mio pensiero va a te come l’uccellino va al nido. Frase densa di metafore.

    Graziosa e Bernardino si sposarono nel 1927, a ventiquattro anni, e vennero a vivere a Roma nel quartiere di Ponte Milvio, allora molto povero. La cosa peggiore era che Ponte Milvio era uno dei punti preferiti per lo straripamento del Tevere. Ad ogni piena si trasformava in una specie di diga e si allagava tutto. Loro stavano in una baracca dove vivevano in otto. Tutti i parenti dormivano nella stessa baracca. Niente elettricità, né acqua corrente, bagno esterno in comune.

    Nonno Bernardino di mestiere faceva il muratore, ma negli anni Trenta in Italia c’era il Fascismo e per lavorare dovevi essere iscritto al Partito Nazionale Fascista. Ora il nonno non si voleva iscrivere, solo che senza la tessera non trovava lavoro e non aveva neanche i soldi per comprare da mangiare. Aveva delle idee che non erano esattamente quelle fasciste e andava in giro cantando la canzone del brigante Musolino, che però con Mussolini al potere era meglio non cantare.

    Insomma, la famiglia ha avuto un sacco di guai e hanno subìto delle ritorsioni. Poi durante la guerra Bernardino Pietranera è stato portato in Sicilia a scavare le fosse dei morti. Quando è tornato dava i numeri.

    Ha ricominciato a fare il muratore ma era diventato gelosissimo, diceva che nonna aveva un amante e una volta l’ha inseguita con un coltello. La situazione è precipitata quando è caduto da un’impalcatura sbattendo la testa. Visto che si comportava in modo strano, hanno permesso che nostro padre, che era un bambino, andasse a lavorare insieme a lui. Però a un certo punto hanno dovuto rinchiuderlo in manicomio e lì un pazzo gli ha dato un pugno e gli ha accecato un occhio. Gli hanno anche fatto l’elettroshock. Poi l’hanno rimandato a casa dicendo che aveva manie di persecuzione.

    A trentasette anni, nonno Bernardino non poteva più lavorare ed era cieco a un occhio. Morivano di fame. Nonna Graziosa – che nel 1927 aveva avuto il primo figlio, lo zio Marino, e poi nostro padre Nicola nel 1930 – attraversava a piedi tutta la città per andare a fare i servizi da una signora che in cambio le dava roba marcia da mangiare.

    Nel 1940, quando l’Italia è entrata in guerra assieme alla Germania, nostro padre, Nicola Pietranera, aveva dieci anni e ha cominciato a lavorare: si è messo a fare la borsa nera, a vendere sigarette di contrabbando. Le comprava, le rivendeva e ci guadagnava. Quando i tedeschi sono scappati, ha continuato il mercato nero con gli americani a cui vendeva la benzina.

    Con gli americani ha imparato l’inglese e alla fine della guerra ha comprato una casa alla famiglia con i soldi che aveva guadagnato. Questa si trovava nel quartiere Prati a Roma, aveva le dimensioni di 36 metri quadri ed era un seminterrato con bagno: una reggia! E ci vivevano sempre in otto. Per loro era meravigliosa perché non ci pioveva dentro, non si allagava ed era una vera casa di mattoni.

    In tutto questo casino nostro padre ha capito che doveva studiare: senza lo studio uno nella vita non può fare tante cose. Studiava alla luce del lampione perché non avevano neanche i soldi per le candele. Erano talmente poveri che il fornaio gli regalava il pane. Lui lavorava e studiava. Ha fatto cinque anni in uno e lo hanno promosso. Poi si è messo a fare la guida turistica. Visto che parlava inglese, accompagnava i gruppi che andavano in vacanza in Africa. Così faceva un lavoro con cui manteneva la famiglia e che gli piaceva perché gli dava la possibilità di viaggiare e conoscere altri Paesi.

    All’epoca erano pochissimi quelli che prendevano l’aereo e viaggiavano. In uno di questi viaggi ha conosciuto il direttore della Italo American Bank, un uomo importantissimo.

    «Pietranera, lei mi sembra un ragazzo proprio sveglio, perché non mi viene a trovare?»

    C’è andato e il direttore gli ha proposto di assumerlo come impiegato nella sua banca. In Italia, negli anni Cinquanta, lavorare in banca era come aver vinto al Superenalotto: erano sedici stipendi all’anno. Però anche dell’altra attività lui era molto contento, perciò è tornato a casa e non sapeva che fare.

    Alla fine ha accettato.

    Finalmente aveva una casa, aveva un lavoro e per divertirsi andava a ballare. Era un ballerino nato. Si era pure trovato una compagna di ballo con cui facevano le gare di tango e rock and roll, ma un giorno, proprio prima di una gara, la ragazza si è rotta una gamba e lui è rimasto senza compagna.

    La teoria delle botte

    Mia madre era una sirena, ma non quella del mare, era una sirena d’allarme. Urlava continuamente dalla mattina alla sera e dovevi sempre guardarti dal suo furore.

    Lei non ci toccava e non ci baciava mai, a differenza di nonna Graziosa che ci dava i bacetti. Se devo pensare a mamma che mi tocca, ho l’immagine di lei che mi fa il fiocco del grembiule il primo giorno di scuola. Fiocco che poi rimarrà sempre sciolto perché io non me lo facevo e lei me l’ha fatto solo il primo giorno. E poi l’occupazione preferita degli altri ragazzini era tirarti il fiocco, così poi te lo dovevi rifare.

    Comunque lei menava tutti indistintamente, dall’età in cui uno se lo ricorda fino ai dodici, tredici anni. Le botte erano di vario tipo.

    C’era il manrovescio semplice: tu la incontravi in corridoio e lei non te lo dava di dritto, che ti preparavi, ma di rovescio che non te lo aspettavi. Botta secca ed efficace che poteva essere condita dal manrovescio con anello, quando si apprestava a uscire. Questo lasciava segni perché aveva un cavolo di brillocco che sulla guancia faceva male. Io ho dei segnetti sui polsi per le sue unghiate perché quando eravamo a un pranzo pubblico, quindi non potevamo essere picchiati selvaggiamente, la tecnica consisteva nel prendere il polso e infilarci le unghie. Allora tu strillavi: «Ahia!».

    E lei, sottovoce: «Stai zitto!».

    «Ahia!»

    C’era anche l’affondo per cui, o smettevi immediatamente, oppure continuava con l’affondo.

    Poi c’era il battipanni, che teneva nello sgabuzzino, e lo spolverino con canna sottile e piume d’uccello, forse il peggiore di tutti. Te lo dava sulle ginocchia nude, allora tu cercavi di saltare per evitarlo, ma era impossibile perché colpiva a raffica.

    Lei ti prometteva: «Dopo te le do con gli interessi!».

    C’era una sacra furia in tutto questo.

    «Io t’ho messo al mondo e io ti ci levo.»

    O quando ti minacciava: «Io ti cambio i connotati».

    Va detto che anche babbo, che non ci ha mai toccati, o almeno a me una sola volta, in quanto a minacce non scherzava: «Mo ti do uno sganassone che ti svito!».

    Noi siamo cresciuti con la teoria che le botte non avevano niente a che vedere con quello che avevi fatto. Io quando incrociavo mamma, muovevo istintivamente l’avambraccio a protezione del volto perché sapevo che tanto una pizza arrivava. Mi stupivo di più se non arrivava che se arrivava e non mi chiedevo se fosse legittima o meno. Non ho mai pensato che fosse ingiusto perché noi ne facevamo più di Carlo in Francia e quindi la sacra punizione si abbatteva su di noi indistintamente. Io sapevo che, pure se era stato Augusto che aveva fatto cascare quella cosa, era perché gli avevo rotto le scatole io.

    Tutto era collegato a casa nostra e non c’era nessuno che poteva rivendicare uno spazio suo – forse è per questo che mi è venuto l’amore per i grandi spazi – nemmeno in bagno perché due bagni li abbiamo avuti solo quando abbiamo cambiato casa. Prima ce n’era uno solo per tutta la famiglia. Di conseguenza non avevamo luoghi in cui nasconderci, non avevamo riparo, tranne che nel bagno e anche quello era da usare con parsimonia. In tutte le altre stanze era vietato chiudersi dentro.

    Quando ci hanno regalato dei fucili ad aria compressa con i pallini di gomma, io e Augusto eravamo tutti contenti e stavamo sempre a sparare a destra e a manca. Una volta, dal balcone vediamo due ragazzi un po’ più grandi di noi che stavano sul divano e si baciavano. C’era un bicchiere davanti a loro, perciò abbiamo preso la mira. Sono stato io, anche se Augusto dice che è stato lui, l’ho preso in pieno e l’ho spaccato. Dopo un po’ suonano alla porta e noi andiamo ad aprire: erano gli innamorati. Non so come avevano fatto a trovarci. Appena li abbiamo visti siamo scappati e ci siamo rinchiusi nel bagno. Insomma li abbiamo lasciati lì. Mamma, che stava in camera a riposare, se li è trovati davanti, senza sapere chi fossero.

    L’unica soluzione era farci fare una enorme quantità di sport per stroncarci.

    Il villino di viale Vaticano

    Gli altri nonni vivevano in un villino a viale Vaticano. Nonno Augusto da giovane era stato seminarista e voleva diventare prete. Poi però ha cambiato idea quando ha incontrato nonna Duse. A ventuno anni lei era una delle poche donne che lavorava in tutta Roma. Era impiegata in un grande giornale, Il Messaggero, dove faceva la segretaria particolare di un direttore. Anche nonno Augusto lavorava in un giornale che aveva sede a piazza Venezia, ma lei guadagnava di più, almeno finché lui non è diventato editore.

    Nonna Duse era figlia di un ricco proprietario terriero toscano. Era nata nel 1899, aveva fatto la sesta e studiato francese. Suonava il banjo, la chitarra e il mandolino e non usciva mai senza il cappello in testa. È stata lei che ha insegnato a mia sorella Emma i tre accordi della Canzone del sole.

    Il bisnonno Giovanni, suo padre, era innamorato di Eleonora Duse e aveva chiamato le figlie, una Eleonora e l’altra Duse: alla nonna è toccato il cognome della diva.

    Poi c’erano anche i maschi. In tutto erano cinque figli e vivevano in una grande tenuta in Toscana.

    Nonno Augusto e nonna Duse si sono fidanzati, sposati e hanno cominciato a fare una barca di figli, come da tradizione di famiglia. Ne hanno fatti nove e l’ultimo, Giulio, è nato quando nonna aveva cinquant’anni come sant’Anna.

    Sono andati a vivere nel villino di viale Vaticano, proprio davanti al Papa e avevano come vicini, da un lato le suore, dall’altro i preti.

    Nel villino a due piani c’era un piccolo giardino pieno di alberi di limone e una siepe di bosso che diffondeva un profumo leggero. Al primo piano c’erano le stanze delle figlie femmine, al secondo quelle dei cinque maschi e la stanza matrimoniale dei nonni, mentre al piano terra c’erano il salone, la cucina e lo studio di nonno Augusto. Avevano tre domestiche, di cui due donne fisse, più una lavandaia. In casa c’era sempre tanto da fare, visto che con i bisnonni e le domestiche, erano in quindici.

    Sfamavano anche qualche mendicante, ad esempio c’era una vecchietta che arrivava tutte le mattine e nonna Duse le preparava la colazione che lei si mangiava tutta contenta. Poi un giorno si è presentata la figlia, vestita di tutto punto con un abito elegante e un grande cappello, ma molto arrabbiata perché la madre era diabetica e le era assolutamente proibito mangiare i dolci.

    Una sarta andava a cucire coperte e orli, un uomo con un carretto portava blocchi di ghiaccio per la ghiacciaia. Avevano una Millecento Fiat, targata 134025, che si apriva con lo sportello all’incontrario ed erano gli unici ad avere la televisione in tutto il quartiere.

    Il nonno era un uomo ricco, faceva l’editore di testi scientifici ed era molto all’antica. Era così religioso che ha chiamato tutti i figli Maria, anche i maschi: Maria Carla, Gianmaria, Pier Maria, Biancamaria, Augusto Maria, Maria Livia, Marcello Maria, Maria Luisa e Giulio, l’unico senza Maria sul passaporto. Nonno Augusto non li lasciava mai uscire e incuteva a tutti un grande timore. «Questo non si può fare, quello non si può fare. Tutti devono fare il ginnasio e il liceo.»

    Fra tutti questi figli, Livia, la sesta, mia madre, di studiare proprio non ne aveva voglia. Faceva il ginnasio, ma andava male e il padre le dava un sacco di botte. A lei piaceva uscire e appena poteva scappava.

    Il giardino era curato dal bisnonno Virgilio, il padre di nonno Augusto, un bell’uomo – toscano, slanciato, occhi azzurri – che concimava le rose con la cacca dei cavalli delle carrozzelle che passavano per viale Vaticano e se la litigava con la madre superiora che pure la usava per concimare.

    «L’ho vista prima io!»

    «No, sta dalla parte mia!»

    «Le cacche sono di tutti.»

    Queste erano le suore della Sacra Famiglia che stavano sul lato sinistro. Avevano una cappella e un laboratorio per le ragazze del quartiere. Poi in un altro edificio c’erano le novizie che andavano all’Università Gregoriana. Mamma la mandavano spesso a cena dalle suore e le novizie, che avevano quindici anni e stavano tutto il tempo a litigare, giocavano con lei che era più piccola. La vestivano da suora, le mettevano il velo e a quel punto lei chiamava suo fratello Augusto dall’altra parte del muro di cinta, gli diceva che si era fatta suora e lui piangeva.

    Invece i Padri Bianchi Comboniani, con cui confinavano a destra, erano dei missionari con i barboni lunghi fino alla pancia. La barba era un segno di autorevolezza nei Paesi in cui viaggiavano, dove non ce l’aveva nessuno.

    Come se questo accerchiamento non bastasse, andavano tutti a scuola dalle suore e quando faceva le elementari, una volta che si era dimenticata un quaderno in classe, mamma è tornata a prenderlo e ha trovato il prete e la suora sdraiati sul banco. Lei non ha capito bene cosa stessero facendo: ha richiuso la porta ed è scappata.

    A volte il padre li portava al cinema. Sono andati a vedere Totò al giro d’Italia ma nonno Augusto fumava il sigaro toscano, perciò i vicini hanno protestato e lo hanno fatto uscire. Vedevano tutti quei film con i baci tagliati e mamma si portava gli spilli perché al cinema c’erano i vecchi che allungavano le mani.

    La domenica invece il padre li portava tutti a San Pietro per il Te Deum e ascoltavano il coro. Essendo stato seminarista nonno Augusto conosceva molti sacerdoti.

    All’entrata della basilica c’erano

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