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Esterina, butta giù la pasta… La storia della mia famiglia
Esterina, butta giù la pasta… La storia della mia famiglia
Esterina, butta giù la pasta… La storia della mia famiglia
E-book143 pagine1 ora

Esterina, butta giù la pasta… La storia della mia famiglia

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Info su questo ebook

Esterina, butta giù la pasta…, di Pierina Matracchi, è un autentico ritratto di una tipica famiglia di provincia dell’immediato secondo dopoguerra. Segnata dalla perdita improvvisa del capofamiglia, Pietro, Esterina e i suoi sei figli, tra cui Pierina, l’Autrice, che nasce poco dopo la scomparsa di Pietro, vivono cercando di tirare avanti come meglio possono. Esterina è una donna dal carattere caparbio, la responsabilità di crescere da sola così tanti figli non la sfianca, cerca di prendere al volo ogni occasione per sostentare la sua famiglia. I suoi ragazzi sono molto impegnativi, dei monelli sempre pieni di inventiva, ma lei è in grado di tenerli a bada, sfidando le continue lamentele dei suoi compaesani: è una donna risoluta, pronta a difenderli ad ogni costo. 
La voce narrante è quella di Pierina, che mette nero su bianco i suoi ricordi, la storia della sua famiglia, ciò che l’ha colpita profondamente, che l’ha emozionata, ma che l’ha anche indignata, perché lei non ama le ingiustizie e, come sua mamma, quello che ha nel cuore lo esprime come vuole.
Tra il collegio e il suo paese, Mercatale, la vita scorre lenta, seguendo il ritmo della natura, nella semplicità di una realtà che man mano vedrà cambiare il mondo inesorabilmente. Pierina è testimone di un cambiamento epocale che ha condotto al cosiddetto boom economico, fautore dell’era moderna e della profonda trasformazione sociale.

Questo libro non è un romanzo, ma è la storia della mia famiglia.
Il racconto vi porterà dentro le vicende dei personaggi negli anni vissuti dopo la Seconda guerra mondiale. Nonostante le difficoltà del periodo, riuscirà ad immergere il lettore nella vita dura, ma anche spensierata, dei sei figli di Esterina, i quali, con il loro spirito combattivo ed ottimista, riusciranno a superare ogni fase della loro vita.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2023
ISBN9791220147361
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    Anteprima del libro

    Esterina, butta giù la pasta… La storia della mia famiglia - Piera Matracchi

    La mia famiglia

    Era il 2 luglio 1944 quando il mio babbo, rivolgendosi alla mamma, disse: «Esterina, butta giù la pasta, vado a vedere il ponte bombardato dai tedeschi e torno subito a casa».

    Pochi minuti dopo, mentre lei era intenta a girare la pasta, un boato scosse l’isolato. Di colpo si fermò, lasciò il paiolo al suo destino e corse fuori verso la strada che portava al ponte con il cuore in petto che le batteva a più non posso. Qualcuno l’abbracciò, la fermò e le impedì di arrivare sul luogo della tragedia ma fu fra gli sguardi misericordiosi di quelle persone che apprese la terribile verità. Le gambe non ressero così cadde a terra, in ginocchio. Si portò le mani al viso quasi rifiutandosi di accettare quella realtà e prese a chiamare disperatamente il marito:

    «Pietro, Pietro, Pietro».

    I figli più grandi si trovavano per caso sul posto dell’esplosione e facendosi largo tra la gente si avvicinarono e videro il babbo sanguinante, mortalmente ferito.

    Si guardarono impietriti, incapaci di dire anche una sola parola, mentre al povero Pietro chiusero gli occhi perché il suo tempo era finito. Poi si misero a singhiozzare, così le persone presenti li spinsero fuori dalla vista della tragedia. Disperati, corsero a raggiungere la mamma la quale ancora inginocchiata urlava il suo dolore e cercava di svincolarsi dagli abbracci, ma le persone presenti non la lasciavano andare perché nello stato di gravidanza avanzata in cui si trovava, la vista del corpo del marito straziato dalla mina sarebbe stata insopportabile. I figli la raggiunsero e si unirono, stretti, in un unico e fortissimo abbraccio.

    La morte del babbo prospettò di colpo un futuro di preoccupazioni e di miseria. Tirare avanti con cinque figli e uno che ancora non aveva visto la luce, era impensabile; la vita pretendeva troppo da Esterina. Pietro Matracchi, era stato un piccolo commerciante; il suo lavoro consisteva nel comprare dai contadini, polli, uova e tutto quello che poteva rivendere nei mercati dei vicini comuni. Questa compravendita gli permetteva di coprire le prime necessità e mantenere la famiglia, seppure modestamente, ma ciò non gli bastava. Sognava grandi progetti per il futuro. La sera, disteso sul letto, quando non era molto stanco e non aveva bevuto un goccino di troppo, si confidava con la mamma: parlava delle sue ambizioni che avrebbe voluto realizzare a guerra finita.

    Dide, il figlio maggiore, stava molto attento alle parole del babbo quando parlava di voler comprare un grosso camion, era felice, il grande mezzo gli avrebbe dato la possibilità di guadagnare molto; Pietro sognava di girare per l’Italia e di arrivare a commerciare nelle grandi città.

    A Torino, il babbo aveva portato sacchi di camomilla a un farmacista che gli aveva aperto la mente e gli aveva indicato la strada per estendere il commercio.

    Però per realizzare il sogno ci volevano i soldi. Mio padre da tempo aveva messo da parte un po’ di denaro, e lo teneva custodito dentro un barattolo, sotterrato al cimitero.

    Nei giorni successivi alla tragedia, Dide, sentendo tutti i giorni la mamma ripetere: Come faccio a tirare avanti!, decise di andare a prendere quei soldi nascosti. Verso sera, si diresse al cimitero; arrivò che era quasi buio: aprì il cancello, si guardò intorno, pensò alla mamma, e il coraggio si fece più forte della paura di quel luogo solitario. Prese a scavare con tutta la sua forza, agguantò il barattolo e scappò di corsa, non curandosi neanche di chiudere la buca.

    Rientrato in casa vide la mamma seduta, con la testa appoggiata al tavolo di cucina, chiusa nei suoi tristi pensieri. Fece volontariamente rumore appoggiando il barattolo sul tavolo, allora lei alzò la testa e guardò il barattolo e suo figlio. Capì al volo: posò la sua mano su quella di Dide e rimase zitta.

    «Mamma» disse mio fratello, «i soldi che il babbo aveva messo da parte per la sua attività li useremo per mangiare e per andare avanti». Lei, col volto coperto di lacrime, lo accarezzò orgogliosa.

    Era il mese di ottobre, in una notte piovosa, quando le arrivarono le doglie.

    La sora Gigia, l’ostetrica che avrebbe dovuto assisterla, si era recata per un’altra urgenza a Valdivico, zona collinare del paese. Un paesano prestante allora si recò da lei con la mula, l’unico mezzo per arrivarci. La caricò e arrivarono al capezzale della mamma, appena in tempo per farmi nascere.

    La mia venuta al mondo fu accolta con molta gioia dalle donne che assistevano al parto, compresa l’ostetrica perché finalmente la tanto desiderata femmina era nata. Prima di me la sora Gigia aveva assistito alla nascita di tutti e cinque i miei fratelli maschi.

    La mamma, mentre mi stringeva al seno, pensò al marito che aveva sempre avuto lo stesso desiderio durante le precedenti gravidanze. Il destino non gli aveva concesso la gioia. La vita è anche questa: crudele.

    La notte in cui venni al mondo, le esclamazioni e gli schiamazzi allegri intorno a me svegliarono i miei fratelli, che dormivano nella stanza accanto. Incuriositi entrarono tutti insieme in camera della mamma, ma furono subito respinti. Angiolo uscì per ultimo e riuscì a vedermi. Era il piccolo dei fratelli, aveva solo due anni, e rientrato in camera disse ai fratellini: «Ho visto la mano della bambina, ha i ditini come noi».

    La mamma aveva una sorella di nome Maria, di qualche anno più grande, alla quale confidava i propri segreti. Erano molto unite e si volevano tanto bene. La mamma soffrì molto quando lei si sposò e lasciò la casa per trasferirsi con il neo marito a Lisciano Niccone, piccolo comune, poco distante da Mercatale. Da quel matrimonio le nacquero molti figli, due maschi e cinque femmine. Tutta la famiglia lavorava la terra.

    Fu soprattutto zia Maria, dopo la perdita del mio babbo, ad aiutare la mamma. Tutte le mattine lei mandava a casa nostra a sbrigare le faccende di casa le sue due figlie: la Rita e la Margherita. Quest’ultima era una ragazzina con un bel viso, sempre sorridente e anche un bel fisico. Rita, invece, era minuta, più riservata e molto efficiente nei lavori di casa. I miei fratelli, con le cugine in casa vivevano serenamente, e loro si sforzavano di non far pesare la disgrazia scherzando spesso e volentieri. Erano tutti giovanissimi: le ragazzine avevano quattordici e dodici anni. Fin da piccole erano state abituate a lavorare. A quell’epoca, in campagna, le femmine, nascevano già donnine di casa.

    Arrivavano a casa nostra la mattina presto, cariche di pesi. La zia di nascosto mandava del cibo alla mamma; lo nascondeva dentro grandi fazzoletti legati ai lati con un nodo incrociato a fiocco, a formare una borsa. Di solito ci metteva verdure, formaggio e anche dei filoncini di pane. La mamma, di questo aiuto, era molto riconoscente; si sentiva in obbligo, allora ricambiava a luglio, prestandosi al duro lavoro della mietitura del grano.

    Un mese dopo la mia nascita la mamma prese coscienza che non poteva abbandonare il commercio del babbo. Chiese aiuto alle sue vicine di casa che si prestarono subito ad aiutarla.

    Io fui affidata alle cure di due donne, la Gemma e la Teresa. Quest’ultima era la cognata del parroco del paese e non avendo avuto figli aveva più tempo per tenermi. Le due donne mi prelevavano da casa e mi trasportavano adagiata dentro una cesta di vinco, una di quelle che la mamma usava per trasportare le uova al mercato.

    La famiglia della mamma

    Le famiglie erano numerose, come tante in quell’epoca. Quella della mamma non era da meno; infatti era composta da cinque figli maschi e due femmine. Lavoravano un podere che mio nonno aveva preso in affitto dal Marchese di Sorbello, proprietario di terre e fattorie. Mio nonno Luigi Grilli, uomo molto orgoglioso, non voleva padroni a cui rendere conto del proprio lavoro.

    Tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, nella mia casa materna avvennero due grandi lutti: uno zio perse la vita in guerra, l’altro, Vittorio, fu stroncato da una brutta malattia e lasciò questa terra un mese prima di cantare Messa per diventare sacerdote. Per la nonna, la perdita di questo figlio, istruito e prossimo sacerdote, fu un brutto colpo.

    Giuseppe, il fratello maggiore, finita la Prima guerra mondiale, come tanti altri giovani, emigrò in Francia a lavorare nelle miniere; lavoro sicuro per gli emigranti. Qualche tempo dopo, si fece raggiungere dagli altri due fratelli, Adolfo ed Eugenio. Trascorsi alcuni anni di duro lavoro e disagi, come tutti gli emigranti, i tre fratelli riuscirono a mettere da parte dei risparmi, tali da permettere loro di lasciare la miniera. Si trasferirono nel sud della Francia, lungo la Costa, e acquistarono un grande appezzamento di terreno. Avevano scelto la Francia come destinazione e volevano riunire il resto della famiglia che viveva in Italia. Scrissero alla nonna dicendo che quanto prima uno di loro sarebbe rientrato in Italia, ma solo per compiere il definitivo trasferimento in Francia.

    Era il mese di novembre dell’anno 1931, quando lo zio Adolfo arrivò a Mercatale a prendere la nonna. Al suo arrivo, non mancarono sorprese; la più triste e sconvolgente fu l’apprendere della morte del mio babbo. Nessuno dei parenti in Italia ne aveva dato notizia, come nessuna notizia era stata data sul matrimonio della sorella Maria che era andata ad abitare a Lisciano Niccone.

    Esterina, dopo essersi fidanzata con il babbo rimase in stato interessante. E non ne fece parola fino a quando non poté più nasconderlo. Aveva vergogna soprattutto nei confronti della mamma e della sorella Maria. L’arrivo del fratello Adolfo e la prospettiva di emigrare costrinsero la mamma a venire allo scoperto e dichiarare apertamente la sua condizione. La sorpresa fu grande ma il problema doveva essere risolto e subito, onde evitare il chiacchiericcio della gente in paese. La parola d’ordine fu correre ai ripari, quindi sposarsi subito.

    Le carte per il matrimonio furono fatte in poco tempo. Il corredo era pronto da tempo nel cassettone. Le femmine, fin dalla loro nascita, potevano contare sulle nonne. Era l’unica dote che i poveri disponevano per il futuro matrimonio delle

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