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E-book156 pagine1 ora

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Non ricordo quando e dove lessi queste parole di Charles Baudelaire, che toccarono le corde più sensibili della mia anima: «Ma i veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre “Andiamo”, e non sanno perché. I loro desideri hanno le forme delle nuvole». Quell’anno - il 1993 - avevo forse voglia di leggerezza, di lasciarmi trascinare dalle nuvole di passaggio e il vento soffiava verso Cuba. Cuba: meta affascinante, paese teatro di una rivoluzione, nel bel mezzo del mar dei Caraibi. Come avrei potuto rifiutare due biglietti gratuiti gentilmente offerti da uno dei fornitori delle mie compagnie? Certamente mai avrei potuto immaginare che quel viaggio avrebbe innescato una serie di eventi a catena fino al divorzio da Carla nel 1996. Biglietti alla mano, ero deciso a partire ma Carla era reticente, sentiva i suoi obblighi verso Paola, la mamma, la sorella e la cagnolina. Era piena estate e si trovavano in campeggio, lei proprio non se la sentiva di lasciarle. Io invece preparavo le valigie. Il caro socio, collega e amico Tamai decise di venire con me. Cuba ci aspettava e partimmo colmi di aspettative, guida alla mano e tanti posti nuovi da visitare e scoprire. Passammo una settimana esplorando l’isola in lungo e in largo. Venivamo ovunque accolti con gentilezza e capimmo ben presto che il turista è sacro anche perché porta economia. Ricordo in particolare i nostri pasti nelle casas particulares, dove assaporammo la cucina tipica - criolla - a base di piatti risultato dell’incontro tra la cucina spagnola e quella africana. Il pesce, come l’aragosta e i gamberoni, ci veniva servito freschissimo e ben saporito, a prezzi per noi impensabili. Le spiagge bianche dalla sabbia sottilissima, lambite da un mare eccezionalmente turchese, sono un vero paradiso. Trovata la nostra spiaggia preferita, Tamai e io ci siamo goduti un meritato relax, lontano dagli impegni quotidiani e dalle corse continue a cui il lavoro ci sottoponeva. La natura dell’isola è per fortuna ancora incontaminata e le grandi città raccolgono un incredibile patrimonio storico, architettonico e culturale. Ricercavamo ovunque l’autenticità cubana. Rientrai a San Donà molto contento. Dopo tanti anni un viaggio insieme a un amico era stato un piacevole diversivo. Non pensavo minimamente che al mio ritorno avrei trovato mia moglie ancora infuriata per la mia partenza.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ago 2018
ISBN9788893847117
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    Anteprima del libro

    Torna Diverso - Giuseppe Marzana

    Paola

    PREFAZIONE

    a cura del Professore Lionello Tamai.

    Dunque, come racconta lui stesso nella prima pagina di questo piccolo libro pieno di infinite avventure, Giuseppe Pino Marzana avrebbe dovuto essere non Pino, nome con cui è abbondantemente conosciuto (e posso garantire che di gente ne conosce davvero tanta, dopo cinquanta e passa anni di vita, e vita intensa, da queste parti) lungo le rive della parte bassa del fiume Sacro, ma Pippo, in onore del nonno paterno. Francamente mi sembrerebbe strano chiamarlo così. In Veneto Pippo è un nome un po’ fanciullesco, più abbreviativo del non diffuso Filippo che di Giuseppe. Pino mi sembra il nome giusto, quello più adatto a questo eterno ragazzo - non badate ai suoi numeri anagrafici - disponibile ancor oggi, se solo gliene appare il bagliore, a buttarsi a capofitto per l’ennesima volta in qualche nuova impresa.

    A leggere il suo libro, pare impossibile che tante cose siano capitate a una persona sola (e vi posso assicurare che ce ne sarebbero molte altre da aggiungere), anzi più che capitate sarebbe corretto scrivere che una persona sola si sia andata a cercare tante cose. Molto probabilmente (è una storia esemplare) un altro bambino siciliano di statura non alta che amava il cinema, le corse in motorino a nolo (che ovviamente riaffittava per rifarsi della spesa), i pochi libri a disposizione e che era perennemente alla ricerca di novità e di opportunità, di una vita da costruire inevitabilmente altrove, una volta raggiunta una solida carriera militare, avrebbe tirato i remi in barca: un buon lavoro, di un certo impegno e prestigio, una bella famiglia, la villetta a schiera a pochi passi dal centro, gli anziani genitori a portata di mano, potevano essere un finale soddisfacente. Non per Pino che, raggiunto un traguardo, sente insopprimibile l’esigenza di aprire altri percorsi. E allora, agenzie, giornali, società, a costo di trovarci dentro querele e tribunali. E divorzi e matrimoni recuperati, come a questo mondo capita solo ai divi di Hollywood. E viaggi da un capo all’altro delle Americhe a recuperare notizie di nonni perduti o lauree onorifiche. E quando un altro penserebbe di prendersi il meritato riposo, lui sale sul camper, carica moglie e cagnolini, e vaga per l’Europa, i deserti, lungo le strade che portano alle mai abbandonate radici meridionali, che tuttavia si confondono ormai sempre più con quelle di altre terre, meno ospitali nel clima e forse nelle genti, ma che per lui sono diventate l’altra casa, altrettanto piena di ricordi e di persone amiche.

    Se posso darvi un consiglio, quando incontrate Pino dalle parti della Chiesa, cercate di non avere impegni urgenti, persone che vi aspettano, perché inevitabilmente arrivereste in ritardo. Perché le mille avventure, l’insopprimibile voglia di fare, l’avvicendarsi degli eventi più diversi, la necessità di dare motivi e obiettivi alla vita nascono soprattutto da un’urgenza, quella di vivere con gli altri, quella di raccontare.

    1. AQUILA DELLA NOTTE

    1.1 Beato tra le donne.

    "C’è tempu… c’è ancura tempu… prima delle unnici non nascirà!".

    Con queste parole ’a mammana aveva lasciato mia mamma Maria, allora diciannovenne, in preda alle doglie, mentre nonna Giuseppina detta Peppina e zia Maria detta Maruzza si affrettavano in preparativi per accogliere il prossimo nascituro.

    ’A mammana era una donna esperta, aveva aiutato a nascere praticamente tutti i bambini di Rosolini, paesino abbarbicato su un piccolo sperone di montagna nella provincia di Siracusa. All’epoca, era il 1939, non esisteva l’ospedale in paese e, da consuetudine, i bambini nascevano in casa… e io non avevo certo fatto eccezione.

    Tuttavia non ne volevo sapere di aspettare fino alle undici, avevo fretta di venire al mondo e di iniziare il mio percorso sulla terra. E così i miei primi vagiti si diffusero in casa già alle sette del mattino. Era il 10 di ottobre e nascevo sotto il segno della Bilancia.

    Dopo tanto dolore e preoccupazione, la gioia si diffuse presto per tutta la casa e sui volti delle donne presenti. Il miracolo della vita si era manifestato, ancora una volta, con tutta la sua potenza e le aveva lasciate estasiate di fronte a questo esserino appena venuto al mondo.

    Il nome, come voleva la tradizione, era già stato deciso: il bimbo si sarebbe chiamato Giuseppe Pippo, come il nonno paterno.

    Il mio papà, purtroppo, non poté assistere alla nascita perché, come militare di leva, era stato postato a Borgo San Dalmazzo, nella provincia di Cuneo. Riuscì a rientrare a casa, con un congedo provvisorio, nel febbraio del 1940 ma rimase con noi solo pochi mesi poiché, subito dopo la dichiarazione di guerra a Inghilterra e Francia, annunciata pubblicamente da Mussolini il 10 giugno del 1940, venne richiamato a raggiungere i militari nella sua vecchia caserma vicino Cuneo.

    I primi anni della mia vita li ho trascorsi dunque nella casa materna, coccolato e accudito da donne forti e permeate di un grande spirito di adattamento.

    La casa della nonna Peppina, la mia seconda mamma almeno fino ai dieci anni, era di modestissime condizioni. Si trattava di un ambiente unico di circa ventisette metri quadrati, un angolo con gabinetto e un sottotetto sopra il dammuso¹ che fungeva da seconda stanza. Vivevamo tutti insieme in quell’unico spazio.

    Purtroppo oggi la casa che conservava tutta la memoria della mia nascita e dell’infanzia non esiste più. Negli anni della modernità è stata abbattuta e, al suo posto, sorge adesso un ufficio postale.

    All’epoca la maggior parte delle abitazioni era al pianterreno, solo in rari casi esistevano edifici a due piani; l’acqua in casa, poi, costituiva un vero lusso, per cui gli abitanti si rifornivano dalle fontane pubbliche. Noi eravamo più fortunati di altri perché nonna Peppina aveva persino un rubinetto e non era insolito vedere i vicini rifornirsi di acqua da noi.

    La nostra casa si trovava in Via Giulia 27, fra via Bellini e via Manzoni, all’altezza di un incrocio strategico tra due vie trafficate. Infatti, la nostra strada collegava il paese tra est e ovest, mentre via Manzoni attraversava il paese da nord e sud, passando per la piazza Garibaldi e davanti alla chiesa madre.

    Da sempre la piazza era, e ancor oggi lo è, il luogo d’incontro tra i cittadini, dove si passeggia e c’è lo struscio, ma dove avvengono anche tutte le manifestazioni più importanti. Di quel periodo ricordo le bancarelle a fianco della chiesa o sul retro con l’esposizione di dolci, frutta e giochi tradizionali. Gli adulti s’intrattenevano spesso con un passatempo chiamato ’a paria, una sorta di roulette dei tempi moderni: un grande imbuto di legno dove si lanciavano delle palline, anch’esse di legno, che scivolavano in fondo in numero pari o dispari e, a seconda delle scommesse effettuate, si vinceva o meno del denaro. Giochi semplici ma che facevano divertire.

    Nei pressi di Piazza Garibaldi si trovavano le case dei nobili, i palazzetti eleganti ottocenteschi, quasi tutti di fronte alla Chiesa Madre di San Giuseppe, una chiesa d’epoca che faceva bella mostra di sé, dominando dall’alto. Tutto il paese andava fiero di questo monumento imponente e di indubbia bellezza. I lavori di realizzazione della chiesa, fortemente voluta dal Principe Francesco Moncada, vennero affidati alla maestria dell’architetto siracusano Pompeo Picherali e terminarono nel 1840.

    Per noi bambini era un vero gigante che, con il suo scampanio domenicale, ci faceva gridare a festa.

    Io ricevetti i sacramenti del Battesimo e della Comunione proprio in questa chiesa. Ricordo quegli anni con gli occhi di un bambino: quelli erano eventi rilevanti che sancivano dei momenti indimenticabili nella vita di noi piccoli. A farmi da padrino fu Padre Pozzo, un bellissimo prete, alto, aitante, con un paio di occhiali che incorniciavano il viso. Era vice del parroco, Monsignor Mingo, futuro arcivescovo di Monreale.

    Padre Pozzo teneva lezioni di religione alle medie, ma non disdegnava dare lezioni di italiano o matematica a chi ne avesse bisogno e, considerando il diffuso analfabetismo, era fondamentale per bambini e ragazzi avere la possibilità di apprendere.

    La maggior parte dei ragazzi, a causa della guerra, si era potuta avvicinare alla scuola in età quasi giovanile. Di conseguenza si formavano delle classi miste che accoglievano al proprio interno alcuni piccoli di sei, sette anni e altri, più maturi, tra i tredici e i quattordici. All’epoca il più piccolo di età e di tutta la classe ero proprio io. Infatti, non avendo fatto la prima, perché nato in ottobre, dovetti frequentare una scuola privata: quella delle sorelle Modica, due insegnanti che preparavano gli scolari non ammessi e tutti coloro che avevano necessità di ripetizioni.

    Il ricordo delle due insegnanti non è proprio fra i più felici: erano donne arcigne e severissime, ne avevo un certo timore. Con loro imparai le tabelline e iniziai a studiare la lingua italiana che si apprendeva solo a scuola mentre in paese, di solito, si usava il dialetto. Il lavoro che feci con le Modica risultò alla fine vincente e produsse degli ottimi risultati perché, quando mi presentai all’esame di ammissione presso la scuola G. Pitrè, fui accolto direttamente in seconda elementare.

    In quel periodo i miei genitori si erano trasferiti per lavoro in una località di montagna in provincia di Catania, tra Raddusa e Giumarra, quindi, io rimasi con nonna Peppina. So che mamma Maria soffriva a stare a muntagna in quella località chiamata Albospino, in piena campagna dove, a parte qualche carretto o automobili di quell’epoca, l’unica linea attiva era la corsa di andata e ritorno tra Catania e i paesi limitrofi.

    Nonostante la mancanza dei genitori, furono anni buoni, di libertà assoluta dove, oltre ai doveri scolastici, riuscii comunque a godere di tanto tempo di svago. La nonna fu più una madre, lei mi amava, sicuramente più di mio padre, il quale eccelleva nella severità.

    Passavo tanto tempo da solo perché la nonna lavorava in negozio tutto il giorno e la sera era solita coricarsi molto presto, in genere verso le 19, così spesso ne approfittavo per uscire di nuovo e raggiungere gli altri amici in strada.

    C’erano però quei momenti di festa che coinvolgevano il paese intero

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