Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La mia storia. I miei primi cinquant’anni in Canada
La mia storia. I miei primi cinquant’anni in Canada
La mia storia. I miei primi cinquant’anni in Canada
E-book458 pagine5 ore

La mia storia. I miei primi cinquant’anni in Canada

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La vita di Giuseppe Fazio inizia nel piccolo paesello di Castelsilano, ma prosegue presto a Roma e poi in Canada. Mettendo nero su bianco tutto il suo vissuto, l’autore ci racconta le difficoltà che la sua famiglia ha dovuto affrontare; la lontananza del padre costretto a emigrare prima in Canada e poi in Svizzera per mandare i soldi alla famiglia; la riunione dell’intera famiglia in Canada e il naturale proseguimento della stirpe dei Fazio. Tra aneddoti divertenti e ricordi dolorosi, affrontiamo un viaggio alla scoperta di una sorte condivisa da molti italiani dagli anni Cinquanta a oggi.

Giuseppe Fazio nasce il 3 novembre 1948 a Castelsilano, ai piedi della Sila. Finita a fatica la quinta elementare, entra nel seminario della Pia Società San Paolo a Roma, dove rimane dal 1961 al 1965. Successivamente frequenta la scuola Magistrale.
Nel 1967 raggiunge il padre, emigrato in Canada, e si trasferiscono a Montréal, dove ancora risiede insieme alla moglie Angelina Martino, sposata nel 1976.
 
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830673830
La mia storia. I miei primi cinquant’anni in Canada

Correlato a La mia storia. I miei primi cinquant’anni in Canada

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La mia storia. I miei primi cinquant’anni in Canada

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La mia storia. I miei primi cinquant’anni in Canada - Giuseppe Fazio

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    LA MIA STORIA

    MI RACCONTO

    PRIMA PARTE

    CAPITOLO PRIMO

    Un tempo passato, ancora bello da ricordare, un’infanzia ricca di ricordi. E così con un altro tuffo nel passato, questa volta più approfondito, e se volete più intimo, mi racconterò.

    Mio padre Francesco conobbe mia madre Caterina qualche anno prima del matrimonio che avvenne nel 1943. Si dovettero sposare con rito civile in fretta e in furia perché mio padre aveva appena ricevuto la chiamata alle armi.

    Si arruolò perché come ben sapete si era in piena Seconda Guerra Mondiale. Lasciò mia madre incinta. Ai nove mesi, cioè nel febbraio del 1944 nasceva una bellissima bambina, le diedero il nome di Maria, naturalmente mio padre prima di partire lasciò detto che se fosse stata una femmina, si doveva dare il nome della mamma.

    Mandato in Albania come tantissimi altri nostri connazionali, diede il suo contributo combattendo sul fronte il nemico al servizio della nostra cara e amata patria.

    Durante un forte combattimento si accorse che un suo compagno di linea, che gli stava accanto, veniva colpito mortalmente; per prestargli soccorso, fu a sua volta colpito da una pallottola alla gamba sinistra. Rimase accasciato per terra finché non cessarono i combattimenti.

    Purtroppo per il suo compagno non ci fu niente da fare, aveva reso la sua anima a Dio e donato la sua vita alla patria! Rimase in Albania in ospedale per un po’, per poi essere portato in alta Italia. Qui ci rimase qualche mese prestando servizio in una caserma.

    Lo diceva anche lui: «Fui fortunato nella sfortuna». Al contrario di un suo fratello, zio Antonio, che fatto prigioniero dagli inglesi, fu portato in Egitto fino alla conclusione della guerra.

    Stessa sorte toccò questa volta a un fratello di mia madre, zio Mazzei Rosario, che mandato in Grecia a combattere contro i greci, fatto prigioniero anche lui, fece ritorno a casa a guerra conclusa.

    Mio padre sapeva di essere padre, ma non conosceva la sua piccola Maria. Cerco di immaginare per un po’ quello che provò quando un bel giorno un comando delle forze militari italiane gli consegnò il congedo.

    Credo che si sia sentito l’uomo più ricco del mondo trovandosi quel congedo in mano. Così prese il primo treno stracolmo di gente che l’avrebbe riportato giù in Calabria. Ore interminabili.

    Soste lunghissime. Il suo pensiero era al secondo piano di quella casa della via Nova, una vecchia casa in affitto di proprietà del parente Gaetano Congi, immaginava e vedeva nella sua mente mia mamma mentre era intenta ad allattare la sua piccina.

    Certamente non vedeva l’ora di arrivare e abbracciare la sua cara moglie e il suo primo angioletto.

    Arrivò al paese di mattina presto, stanco ma felicissimo, c’era solo quella scala che lo separava dalla sua moglie e il suo pargoletto, l’avrà fatta di corsa.

    Mia mamma, sentendo il rumore e il vociare dei vicini, che nel frattempo si erano accorti dell’arrivo di mio padre, aprì la porta e gli corse incontro reggendo tra le braccia la mia sorellina. Immaginiamo cosa sarà successo in quel momento e quello che si saranno detti.

    Non c’è gioia più grande per un uomo, dopo aver visto morire un suo compagno, colpito e ferito a sua volta, passare giorni interminabili in ospedali e in caserme, trovarsi a casa sua e tra le sue braccia la moglie e la sua bambina. Il destino almeno per quei momenti era stato benefico per mio padre.

    La guerra era appena terminata, i più fortunati tornarono a casa, come un cugino carnale di mia mamma, zio Giovanni Mazzei, che resosi irreperibile per sfuggire alla tremenda guerra e ai fascisti, tornò a casa a guerra conclusa. Andarono a prenderlo al bivio con indumenti nuovi, perché era vestito da soli stracci!

    Altri invece purtroppo non ce la fecero. Alcuni rimasero sepolti nelle Siberie, durante la campagna di Russia. Altri morti in prigione in seguito a delle gravi malattie. E così Castelsilano ebbe i suoi eroi. Moltissimi persero la loro vita per servire la nostra patria. Un monumento in piazza raffigurante un soldato ne ricorda il loro sacrificio.

    Mentre Maria cresceva, il 16 luglio del ’46 nacque Luisa, altra sorellina, un’altra femminuccia. Chi sa cosa avrà detto mio padre… «Ancora femmina?». La guerra aveva lasciato i suoi segni. C’era povertà, e mio padre, mentre mia mamma si preoccupava delle mie sorelline, cercava lavoro come manovale.

    Un po’ qua un po’ là, insieme ai suoi fratelli, gli zii Vincenzo e Antonio, cercavano di arrangiare quel necessario che gli avrebbe permesso di portare avanti le loro rispettive famiglie.

    Non lo saprò mai, ma credo che mio padre dopo la seconda femminuccia, desideroso di avere un maschietto, decise con l’approvazione di mia mamma di tentarci ancora, e così il 3 novembre del 1948 nacqui io. Missione compiuta, avrà detto mio padre!!

    CAPITOLO SECONDO

    Prima di continuare nel mio racconto, è doveroso riportare le generalità dei miei genitori. Mio padre era il sesto di una famiglia di sette figli, nati dall’unione di Giuseppe Fazio e Maria Francesca Macchione, quattro femmine: zia Mariuzza, sposata e deceduta in California, zia Isabella, zia Rosina e zia Caterina;, mentre i tre maschi erano: zio Vincenzo, mio padre e zio Antonio, deceduto pure lui in California.

    Mia madre proveniva da una famiglia numerosa, ma alla fine solo quattro vissero. Dall’unione di Gaetano Mazzei e Maria Luisa Cosentino sono nati zio Rosario, mia mamma, zia Rosinella e zia Franceschina.

    Con la mia nascita, le preoccupazioni di mio padre aumentarono. La guerra era terminata da tre anni, lasciando intere famiglie decimate senza mariti e figli orfanelli, rovine e desolazioni un po’ dappertutto. C’era un’Italia da ricostruire.

    Martoriata com’era, scarseggiavano i viveri e tutti, pur di sopravvivere, si offrivano anche ai lavori più duri. Tra la gente del sud era ancora peggio perché, priva di fabbriche, si doveva arrangiare lavorando la terra, allevare qualche bestiame, sempre chi se lo poteva permettere e magari come fu nel caso di mio padre insieme a suo fratello, lo zio Vincenzo, armati di grandi accette e lunghi rruncaturi, vennero ingaggiati come boscaioli.

    Lavoro durissimo e pericoloso. Non sempre si aveva la fortuna di lavorare in zone pianeggianti, ma molte volte su scarpate irte e pendenti, dove l’abbattere grandi pini e immense querce voleva dire anche rischiare di farsi male oppure poteva succedere qualcosa di peggio.

    La mamma, restando a casa, si prendeva cura di me e delle mie due sorelline, si preoccupava di tutto. La sera all’imbrunire preparava con amore quel piatto caldo che mio padre aspettava ansioso e sicuro d’averlo.

    Si preoccupava che ci fosse abbastanza legna al fuoco. Con tutta l’umidità accumulata durante il giorno nel bosco, un po’ di calore gli avrebbe fatto molto bene. Anche se stanco, chi sa quante volte avrà aiutato la mamma a metterci a letto.

    Saranno rimasti ancora per un po’ seduti accanto al fuoco, dove la sola luce che illuminava quell’unica stanza, che faceva da cucina e da camera da letto, era una lanterna a olio. Mentre le piccole fiamme che si alzavano nel focolaio con il bruciare della legna proiettavano le loro sagome alle pareti accanto facendole sembrare enormi e buffe!

    Saranno andati a letto anche presto, la mattina la sveglia sarebbe suonata quando ancora non era l’alba. Chi sa quante dolci e tenere parole si saranno detti.

    Verso la fine del 1949 tornò dalla California la zia Mariuzza, sorella di mio padre. Chiese alla zia di battezzarmi insieme al padrino Rosario De Luca.

    Nel frattempo era nato Giovanni, figlio di zio Vincenzo, e così l’americana fece bis: ci battezzò entrambi per la gioia dei nostri padri.

    L’anno santo 1950, per la mia famiglia non fu affatto santo. Un forte dispiacere colpì i miei genitori. Maria, che era nata un po’ malatuccia, non ancora avendo compiuto cinque anni, si ammalò.

    La medicina a quei tempi non era ancora tanto avanzata, sebbene esistesse già la penicillina da almeno due anni. Maria morì tra le braccia di mia mamma, colpita da una forte diabete.

    Non c’è stato modo di poterla salvare.

    Lascio a tutti immaginare in quale sconforto e dolore erano precipitati i miei cari genitori. La perdita della primogenita li aveva distrutti!

    Fu così che, vistisi strappare da un destino atroce dalle braccia una figlioletta, alla fine pian piano subentrò anche per loro una certa rassegnazione. Mio padre, caparbio com’era, non propenso a farsi abbattere dal destino, domandò a Dio un altro figlio, possibilmente femmina. Fu accontentato e il 30 aprile del 1951 nacque Isabella!

    CAPITOLO TERZO

    Alla distanza di poco più di un anno dalla morte della piccola Maria, l’arrivo di un’altra femminuccia servì ai miei cari genitori a colmare almeno in parte quel vuoto che la sorellina aveva lasciato sia materialmente in casa, ma soprattutto nei loro cuori.

    Le grandi ferite si dice lasciano sempre il segno. Isabella senza saperlo diventò la benvenuta e la più coccolata. Luisa aveva cinque anni e io tre. Mio padre, contento, volle darle il nome di una delle sue sorelle, cioè la più grande, zia Isabella Fazio, si era sposata con un vedovo di nome Aiello Francesco.

    Nei primi anni del Novecento, chi dirigeva un paese era chiamato podestà, il sindaco attuale. Uomo con un certo carisma e autoritario. Ebbero sei figli. Quattro maschi: Saverio, che ancora abita a Toronto; Pietro, purtroppo deceduto qualche anno fa in Fernie B.C., Ottavio e Matteo, anche loro in Canada e due femmine: Rosinella, anch’essa deceduta nel 1994 a San Giovanni in Fiore e Carolina, che vive a Calgary, Alberta.

    Una parentesi per Carolina. Emigrata nel 1957 giovanissima, sposò uno dei Cavallari, Ammirati. Hanno avuto tre figlie femmine con una delle quali, cioè Isabella, abbiamo stretto una forte amicizia. Ci sentiamo e vediamo molto spesso su Skype anche con suo marito Pasquale, un molisano che ha conosciuto a Calgary. Sono proprietari di un ristorante che gestiscono tra loro in famiglia.

    Ho voluto, senza togliere niente agli altri cugini, fare questo mio piccolo riferimento alla cugina Carolina perché, essendo vicini di casa, si tratteneva spesso con mia mamma e voleva molto bene a mio padre. La ricordo quando con un barile sulla testa andava ad attingere l’acqua alla fontana sotto casa sua.

    C’era appunto u canale e fierru, dove le nostre brave compaesane lavavano pure i panni facendo quelle grandi vucate dentro grandi sporte.

    Nei primi mesi del 1951 alcuni compaesani si lamentavano perché il lavoro scarseggiava per tutti, e spinti dal bisogno famigliare, con figli e mogli da sfamare, cercarono di fare pressione verso le autorità comunali affinché gli facessero avere un visto per cercare lavoro in terre lontanissime: LE AMERICHE.

    C’erano voci in giro che venivano dai paesi vicini, come San Giovanni in Fiore, secondo cui molti braccianti si accingevano a partire. Avevano ottenuto il visto necessario con normale passaporto e una volta recatisi a Napoli, si sarebbero imbarcati su una nave che li avrebbe portati lontano in America.

    Mio padre lavorando nel bosco aveva stretto amicizia con altri nostri bravi compaesani. Alcune volte di sera, oppure quando pioveva a dirotto e non potevano recarsi sul cantiere, per allentare le fatiche, si riunivano nella putiga (cantina) della zia Porziella Congi, e tra un tressette e l’altro, un padrone e sotto, discutevano sul da farsi. Incoraggiati dalle notizie che venivano da San Giovanni in Fiore, decisero di far domanda anche loro al comune per ottenere il visto.

    C’era un piccolo inconveniente però… Sebbene fosse solo il capofamiglia a emigrare, doveva passare il visto tutta la famiglia. Si doveva andare a Napoli per passare le dovute visite mediche. La mamma mi raccontava che partimmo in treno compresi noi tre, Luisa, io e isabella.

    Provare a ricordare qualcosa sembra impossibile. A tre anni ben poche cose si possono ricordare. So che durante il viaggio c’erano altri nostri compaesani, uno tra questi era Domenico Ferrara, uno dei Papalei, deceduto purtroppo qualche tempo fa a Toronto. Vedendo mio padre che si dannava a tenerci a bada, mi prese in braccio tenendomi stretto per tutta la durata del viaggio. Un gesto che mio padre, anche alla distanza di tanti anni, ricordava.

    Tornati a casa nel frattempo altri nostri compaesani erano partiti, dopo alcuni mesi toccò a mio padre. Partì con altri amici. Non ricordo niente. Addirittura non riuscivo a ricordare nemmeno il suo viso. Conobbi mio padre un paio di anni dopo, quando con insistenza mia mamma ne chiedeva una sua foto.

    Capelli alla mascagna, piccoli baffetti. Un viso fiero e pulito. Tenevo quella prima foto in mano tutto il giorno. Non permettevo nemmeno alle sorelle che me la togliessero.

    Purtroppo però non mi domandavo dove fosse e quando tornasse a casa… anche se l’avessi fatto, mia mamma certamente non mi avrebbe mai saputo rispondere, perché nemmeno lei lo avrebbe saputo.

    Allora quando si emigrava, dove una lettera impiegava più di trenta giorni, andata e ritorno, era una continua preoccupazione.

    Cara e amata moglie, così cominciavano sempre le lettere di mio padre alla mia mamma.

    Mentre lei gli rispondeva: Mio caro sposo… i nostri figli stanno bene… spero che questa ti trovi in salute… questa tua ultima ha tardato più del previsto…. Parole tenere, sospirate, che qualsiasi moglie con un marito lontano anni luce avrà scritto al suo amato sposo.

    Un prezzo che bisognava pagare per colpa di quella tanto mai desiderata, maledetta e crudele emigrazione!! Questi erano i primi anni cinquanta!!

    CAPITOLO QUARTO

    Le lettere si facevano sempre più attendere. Per ogni giorno che passava senza sue notizie, aumentava l’ansia di mia mamma.

    Un giorno arrivò una cartolina a colori. Raffigurava una lunga nave in mezzo a un mare azzurro, e sullo sfondo un cielo altrettanto azzurro, quasi a farne un contrasto. Era la Cristoforo Colombo.

    Mio padre l’aveva imbucata prima d’imbarcarsi da Napoli. Era arrivata con ritardo, forse non era stata sufficientemente affrancata. Di dietro poche parole. Un abbraccio forte ai nostri figli. Amata sposa, andrà tutto bene… tuo Francesco.

    Oltre a quella cartolina, che ho pensato bene di conservare gelosamente come una reliquia, tra le tante carte ho trovato anche il passaporto di mio padre.

    Repubblica Italiana

    N° 3744479p

    Data Di Rilascio: 14 novembre del 1951 dalla questura di Catanzaro.

    Fazio Francesco Antonio, professione boscaiolo, figlio di Giuseppe.

    Scadenza: 14 ottobre 1952

    Tenerlo in mano e sfogliarne le poche pagine ingiallite mi fa tremare le dita. A stento vedo e distinguo le lettere sulla tastiera del computer. Mi asciugo le lacrime per non farmene accorgere da mia moglie Lina.

    Qualche pagina più all’interno riesco a leggere in un timbro abbastanza sbiadito di forma ovale questo:

    CANADIAN IMMIGRATION, LA M… oppure N D E D IMMIGRANT –DEC–24–1951 HALIFAX.

    Così so con chiarezza che mio padre con altri nostri compaesani e tantissimi nostri connazionali sbarcò la vigilia di Natale del 1951, a quel molo 21!!

    Questo molo 21 oggi è conservato gelosamente dai nostri connazionali in un Museo Nazionale Canadese. Un pezzo della nostra storia di emigrati.

    Intanto, non so perché, ci eravamo spostati di casa. Lasciammo quel secondo piano del parente Congi e ci stabilimmo pochi metri più in là a pianterreno. Era un’unica stanza, apparteneva a Pietro Brisinda (nonno…).

    C’era un’arcata prima di accedere alla porta d’ingresso. Di fianco all’arcata una scala esterna portava al piano superiore, dove abitava tutta la famiglia Brisinda. Non era troppo grande, ma per noi bastava. Per fortuna c’era un focolare, noi piccolini ci sedevamo attorno su piccole sedie.

    Purtroppo quando era inverno i giochi erano pochissimi. Dovevamo stare in casa e io ricordo che con due rucchelli (rocchetti) che mi regalava spesso la cugina Chicchina Gangale, esperta sarta, attaccati a un filo di metallo, ne facevo la mia automobilina.

    Isabella era ancora piccolina, mentre Luisa, con una mezza pupa fatta da stracci vecchi da mia mamma, stringendola forte tra le braccia si divertiva a fare la mamma, come tutte le bambine di questo mondo.

    Non esistevano libri in casa nostra, però la mamma quando era più serena non si faceva pregare a raccontarci vecchie storielle. Da quel poco che potevo capirne, ricordo che trattavano di volpi e lupi.

    Ne ricordo qualcuna, Il lupo e l’agnello", La volpe e il corvo.

    E così, come tutti i bambini, per la gioia della mamma ci addormentavamo prima che la storiella terminasse, quel buio della sera ci dava un senso di paura, sebbene lei ci aiutasse a scacciare via quei brutti pensieri, dicendoci che Gesù e il nostro angioletto vegliavano sempre su noi.

    Era vero, ci credevamo e ci riaddormentavamo!

    CAPITOLO QUINTO

    Con il passare del tempo mio padre alla sua maniera cercava d’informare la mamma tramite lettera, unico ed efficace mezzo di comunicazione sulla sua nuova vita in terra canadese.

    Sapeva solo che il viaggio, lungo e faticoso, era comunque andato bene. Aveva preso lavoro, e stava nella Columbia Britannica (B.C.), in una cittadina di nome Fernie ai piedi di grandi montagne e circondata da folti boschi.

    Le raccontava che era rimasto unito con quasi tutti i nostri compaesani che si erano imbarcati da Napoli con lui. Una volta arrivati ad Halifax ciascuno cercò di fissarsi una meta.

    L’importante essere entrati in Canada, per il resto Dio avrebbe provveduto.

    Cerco di ricordare alcuni nomi di compaesani che erano con lui. C’erano il cugino Pietro Aiello, Fiore E cralice Audia, il parente Salvatore Congi, Salvatore Marino, suo compare, Silletta, Domenico Ferrara, e Saverio Greco.

    Si comprarono un’automobile. Quanto sto per riportare mi è stato raccontato in seguito a una mia visita a Toronto nell’89 dallo zio Saverio Greco: «Peppì, ero l’unico che sapesse guidare una macchina, ci avviammo senza una vera meta. Tuo padre, Silletta e suo nipote Pietro Aiello espressero il desiderio, una volta arrivati nella città di Quebec, di voler continuare per la Columbia Britannica. Presero il treno, ci salutammo e poi non ci siamo rivisti più! E così Salvatore Marino, Fiore Audia, Domenico Ferrara e io continuammo per l’Ontario, mentre il cognato Salvatore Congi volle rimanere in un paesino della provincia del Quebec, sposò infatti una quebecchese».

    Mentre parlava seguivo le sue parole, i suoi gesti con le mani, mi sembrava di rivedere mio padre e tutti i suoi amici sistemati come acciughe in quella macchina. Aveva delle brevi pause zio Saverio Greco mentre raccontava.

    Forse quei ricordi dolorosi che io pregai di raccontarmi, lo rattristavano. «Eh, quanto ne abbiamo passate, caro Peppino!! Credo che tuo padre per quanto riguardava il lavoro fece la scelta giusta; essendo partito come boscaiolo, Fernie era allora boscosa, e come poi ci fecero sapere, presero lavoro subito! Solo Salvatore. Marino non volle restare qui a Toronto, avendo altri conoscenti, proseguì per Sault Ste Marie, cittadina situata nel sud dell’Ontario.»

    Ringraziai zio Saverio per la sua gentilezza nel volermi raccontare un pezzetto della vita di mio padre. Nella nuova sua dimora aveva ottimi rapporti con Giuseppe Aiello, detto Paniellu, con Gentile, marito della Risulia, e con altri compaesani che erano già sul posto da qualche mese. Era in ottima compagnia.

    Il lavoro da boscaiolo gli piaceva e incominciarono ad arrivare i primi soldini. Mia mamma come prima cosa cercò di pagarsi qualche mese d’affitto arretrato, qualche indumento per lei e per noi.

    Intanto erano passati più di due anni, Luisa incominciò la scuola dopo aver fatto un po’ d’asilo, e io mi preparavo ad andarci, mentre Isabella camminava già e incominciava a parlare. Mio padre nelle sue varie lettere domandava spesso di lei.

    Quegli anni sono stati per il nostro paesello duri e dolorosi. Tutti volevano partire. Era in corso la grande emigrazione degli anni Cinquanta. Mariti che si staccavano dal petto delle mogli, e figli appena ventenni si staccavano dai petti delle loro mamme!

    Agli inizi di questo mio racconto avrò dato forse l’impressione di mio padre come uomo fortunato, non era affatto così. Nei primi mesi del 1956 mia madre ricevette una lettera che la rattristò moltissimo.

    Le diceva tra l’altro qualcosa che le aveva nascosto nell’estate del ’55. "Cara amata sposa, spero di trovare le parole giuste per dirti che dovrò lasciare il Canada. Durante il periodo estivo ho sofferto molto con la respirazione. L’umidità mi ammazza." Testuali parole.

    Così scrisse mio padre a mia madre. Un fiore, nello spargere il suo polline nell’aria, gli provocava una forte allergia che gli causava problemi respiratori.

    Tornò a casa nell’aprile del ’56. Mia mamma non sapeva se essere contenta per aver rivisto e riabbracciato suo marito dopo cinque lunghi anni, oppure piangere per la brutta notizia che le aveva dato prima che partisse.

    L’idea di abbandonare il Canada per mio padre era dura da accettare. Per il momento si godeva la sua famiglia. Aveva finalmente ritrovato sua moglie, e i suoi tre figli.

    Non so se Luisa se lo ricordava un po’, mentre per me e Isabella fu la prima volta che lo conoscemmo.

    Ci venne a salutare su nel soffitto. Mezzi addormentati lo abbracciammo. Capimmo che era nostro padre, quello con i baffetti, i capelli alti che vedevamo su quella foto, ormai graffiata e un po’ piegata per averla tenuta in mano chi sa per quanto tempo.

    Ricordo che accorsero i suoi fratelli, zio Vincenzo e zio Antonio, per riabbracciarlo. Tra tutto quello che si raccontarono, sentii dire a mio padre questo: «Ho un passaporto che mi scade fra tre anni, voglio riprovare ancora con il Canada, questa volta in un’altra provincia, l’Ontario. Mi sono scritto con il compare Salvatore Marino, mi ha promesso che farà di tutto per farmi arrivare da lui a Sault Ste Marie!».

    Gli zii si saranno guardati tra di loro. Ma non ebbero il coraggio di contraddirlo. Conoscevano bene il carattere del loro fratello!!

    A questo punto devo dire che ero orgoglioso di mio padre. Mi entusiasmava saperlo forte e tenace, non si dava per vinto mai! Voleva ritentare ancora, e così fece. Due mesi dopo ci salutò tutti come in quel dicembre del 1951. Riprese ancora quella nave che lo riportava fino ad Halifax, per affrontare un’altra nuova avventura canadese!

    CAPITOLO SESTO

    Ancora un’altra partenza per mio padre e per mia madre un altro atroce distacco! Ci sarà voluto molto coraggio per accettarlo.

    Mi son sempre chiesto dove abbiano preso quella forza morale per nascondere dentro i loro cuori tutto quanto sentissero in quel momento.

    Nessun grido, nessuna scena di sconforto, solo interminabili sguardi finché quell’automobile che lo stava portando via non si allontanò oltre quella curva e non fece più sentire il forte e odiato rumore del suo motore.

    Ricordo di aver visto mio padre piangere pochissime volte in vita mia. Non so se l’avrà fatto allora. Certamente, staccandosi da mia madre, avrà sentito il suo cuore gonfiarsi dentro il suo petto, e battere più forte del dovuto. Al contrario della prima, a questa seconda partenza di mio padre vi abbiamo assistito anche noi altri figli. Luisa ormai di dieci anni, io di otto, e Isabella di soli cinque.

    Una volta andati via i parenti più stretti che erano accorsi per salutare mio padre, rimanemmo soli con la mamma. Quella casa che pochi minuti prima era stracolma di gente, ora sembrava un cimitero.

    Incapaci di dire niente, e tanto meno fare domande, ci siamo stretti attorno a lei. Ci fissava con lunghi sguardi. Come se volesse cercare in noi, nei nostri visi, il suo sposo! I genitori si riconoscono nelle fattezze dei loro figli: ricordandomi quanto appreso a scuola, adesso capisco e mi rendo conto dei lunghi sguardi della

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1