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Per te
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E-book447 pagine5 ore

Per te

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Info su questo ebook

Il cadavere di una donna, il suo corpo seviziato postmortem e un unico indizio: appallottolato nella sua bocca, c’è un documento con scarabocchiate sopra le parole “Per te”. L’incarico di trovare l’assassino viene dato a Kassidy Bishop, brillante profiler dell’FBI. Nonostante sia profondamente segnata dalla misteriosa morte della sorella gemella, avvenuta quindici anni prima, e da un evento a causa del quale ha rischiato la vita, Kass è la stella nascente dell’Unità di Analisi Comportamentale del Bureau.
I giorni si trasformano in settimane e sempre più cadaveri vengono rinvenuti in diverse zone degli Stati Uniti, tutti contrassegnati con la medesima firma: “Per te”. Kassidy si ritrova con più domande che risposte visto che le vittime sembrano non avere nulla in comune, e il meticoloso killer è tanto incoerente quanto brutale.
Mentre Kass indaga, cercando di entrare nella mente dell’assassino, una scioccante verità inizia a prendere forma.
Narrato dai punti di vista alternati di Kassidy e del killer, il romanzo è un thriller avvincente ed emozionante che vi lascerà col fiato sospeso fino all’ultimo capitolo.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2020
ISBN9788855311045
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    Anteprima del libro

    Per te - Lisa Regan

    Capitolo 1

    1

    Kassidy

    Fu un’aggressione a sorpresa.

    Da codardo.

    L’uomo mi colpì alla testa con la mazza da baseball che tenevo accanto alla porta della stanza da letto. Stavo dormendo e non avevo sentito nulla. Ciò che ricordai, subito dopo, fu che ero legata a una sedia nella sala da pranzo semibuia. Il braccio sinistro bruciava e mi formicolava; avevo la testa che mi faceva male ed ero disorientata.

    Le palpebre parevano pesare una tonnellata, ma riuscii ad aprirle e a metterlo a fuoco.

    Sorrideva. Un falso sorriso smagliante, con le labbra sollevate a esibire i denti.

    Mi mostrò una siringa vuota. «Metanfetamina, troia» sogghignò.

    Dove è stato quell’ago, prima?

    Fu la prima cosa che mi domandai, d’istinto. E anche se mi avesse infettato con l’HIV o l’epatite. Non mi chiesi come fosse entrato, se avessi una commozione cerebrale, per quanto tempo fossi rimasta incosciente o se mi avesse violentata mentre ero priva di sensi.

    Mi dimenai sulla sedia, ma non servì a molto. Avevo le mani legate ai braccioli e i piedi bloccati contro le gambe anteriori di legno. Mi diedi un’occhiata attorno: ero nella sala da pranzo e vidi un coltello, una matassa di spago e la mia Glock 9 millimetri, d’ordinanza.

    Lui si mise a camminare avanti e indietro, di fronte a me, in attesa che l’effetto della droga svanisse. Stava aspettando che mi riprendessi del tutto. Voleva che fossi cosciente durante la tortura che mi avrebbe inferto.

    La testa mi ciondolava.

    Colto dall’impazienza, chissà quanto tempo dopo, mi schiaffeggiò con violenza. Un dolore lancinante mi strisciò lungo la mascella.

    «Riprenditi, dannazione!» ringhiò.

    Deglutii. «Ci sto provando.»

    Lui afferrò il coltello a serramanico, lo aprì e, premendo la punta sotto il mio mento, mi costrinse a tenere su la testa. Lo guardai negli occhi. Occhi feroci, verdi e marroni. Li avevo già visti prima.

    «Pensavi di avermela fatta?» sibilò.

    Spinse la lama finché non avvertii una fitta acuta. Percepii una goccia di sangue scivolare giù e fermarsi nell’incavo della gola. Pian piano, i contorni sfocati della stanza divennero sempre più nitidi. Il cuore mi martellava nel petto, facendo vibrare la cassa toracica. Presto, sarei stata del tutto cosciente e avrei assistito a ogni minimo dettaglio della mia morte.

    Non era così che me l’ero immaginata. Avevo creduto, o meglio sperato, che mi avrebbero sparato in servizio o che sarei stata vittima di un incidente automobilistico. Magari anche un cancro o soltanto la vecchiaia. Avevo chiesto troppo.

    Sarei morta così, invece: torturata, violentata, uccisa e, probabilmente, fatta a pezzi per mano di un violento criminale. Sapevo che stavo per morire; era solo questione di tempo.

    Pensai ai miei genitori, e soprattutto a mio padre. La notizia lo avrebbe ucciso. Era sempre stato preoccupato da un’eventualità di questo genere. Lo avevo rassicurato più volte, dicendogli che certe cose non accadevano mai. Mai. Succedevano solo nei libri, nei film o in TV. La vita reale non era così. I veri agenti dell’FBI non dovevano temere di essere presi di mira dai delinquenti.

    L’uomo mise via il coltello, con un mugugno di disgusto, e riprese a camminare nervosamente. La testa mi pesava. Tuttavia, la metanfetamina mi diede una specie di scossa ai nervi. Sollevai il volto e lo osservai. Indossava pantaloni color cachi, mocassini e una camicia d’un verde tenue. Le maniche arrotolate rivelavano delle braccia muscolose; i capelli neri e ingellati erano spettinati. Non assomigliava a un assassino.

    «Non lo sembrano mai, Kass.»

    Era quello che mi aveva detto il mio capo alla sede di Baltimora quando avevo risolto la mia prima serie di delitti. L’FBI, di norma, non si occupava di omicidi, ma diversi dipartimenti statali e di polizia cittadina avevano richiesto il nostro aiuto per rintracciare un serial killer particolarmente spietato, i cui efferati crimini si estendevano a tre Stati. Ripensai a Ted Bundy; da quanto mi avevano raccontato, aveva la fama di un attraente seduttore.

    L’uomo che avevo davanti era affascinante, ma possedeva il cuore oscuro di un demone.

    Come se avesse percepito i miei pensieri, si mise a fissarmi. Sul suo volto si disegnò un ghigno. Mi chiesi se avesse guardato allo stesso modo anche le sue precedenti diciotto vittime.

    «Ti ricordi di me, troia?»

    «Nico Sala» affermai. «Vorrei averti cancellato.»

    In risposta, mi sferrò un feroce pugno in faccia, proprio sull’occhio sinistro. Ancora una volta, mi sentii attraversare da una fitta di dolore che serpeggiò fin sulla fronte. Avvertii immediatamente la palpebra gonfiarsi.

    «Te lo avevo detto, stupida troia. Te lo avevo detto che ti avrei trovata. Ti farò a pezzi.»

    Gli credetti. Durante la mia carriera, avevo parlato con parecchie vittime di crimini violenti e molte di loro lo avevano sostenuto: a un certo punto si faceva viva la consapevolezza che il tuo aggressore ti avrebbe uccisa.

    Be’, eccomi nella stessa situazione. Nico Sala aveva fatto irruzione in casa mia, mi aveva drogata, legata a una sedia e picchiata. Il terrore prese a strisciare lungo il mio corpo, con dita sottili e gelide. Provai a muovere braccia e gambe, tentando di capire quanto spazio ci fosse per riuscire a liberare una mano o un piede.

    «Non sforzarti» mi avvisò lui. «Non andrai da nessuna parte.»

    Smisi di muovermi e lo osservai con l’occhio sano. Cercai di reprimere il terrore che mi ribolliva dentro e di rallentare i battiti impazziti del cuore. Li sentii rimbombare nelle orecchie, come un treno che sferraglia sui binari. Ogni parte del mio corpo vibrò. Per un attimo, mi domandai se fosse possibile che il cuore mi esplodesse nel petto, perché sembrava stesse per farlo. Presi un lungo respiro.

    Lui mi rifilò altri schiaffi, grugnendo a ogni colpo.

    Stai calma. La tua paura non farà che accrescere le sue tendenze violente.

    La voce così paradossalmente tranquilla, nella mia testa, proveniva dall’agente dell’FBI che era in me, e tentai di aggrapparmici. In quel momento, avrei voluto essere solo l’analista comportamentale, non la donna terrorizzata che ero in realtà.

    «Non ti metterai a strillare?» mi domandò.

    Non sarebbe servito a nulla, compresi, mentre percepivo le lacrime che mi pizzicavano gli occhi. Nel vicinato la gente urlava di continuo. Tutti sentivano, ma nessuno ascoltava davvero.

    Calma, mi impose ancora la voce. La tua vita dipende da te.

    Mi sforzai di mostrare un po’ di spavalderia. «Stai scherzando?» replicai. «Per rinunciare a ore di tortura? Non sia mai...»

    Nico sogghignò e prese una sedia dal tavolo della sala da pranzo.

    La rigirò e ci si accomodò a cavalcioni, con le braccia appoggiate allo schienale. «Non ho intenzione di ucciderti rapidamente.»

    Grandioso.

    «Detesto le troie come te. Pensano di essere superiori. Tanto migliori di me.»

    Ecco di cosa si trattava. Di inadeguatezza. Il segno distintivo di tutti i criminali violenti.

    «Non sono io a essere un assassino stupratore, se è questo che vuoi dire» ribattei.

    Scagliò la sedia in aria e mi riempì di cazzotti. Mi colpì ovunque, con la furia di trentacinque anni di rabbia repressa. Abbassai il mento sul petto per evitare altri colpi sul viso. Di riflesso, le mie mani tentarono di sollevarsi per arginare la sua aggressione.

    Alla fine, si allontanò, ansimando rumorosamente.

    Sudava. «Stai tentando di costringermi a fare in fretta, vero?» osservò. «Ma non accadrà.»

    Rimise in piedi la sedia e si riaccomodò.

    Mi ripresi meglio che potei dalla raffica di pugni. Mi sentivo trafiggere la testa e il torace. Premetti i piedi a terra per vedere se nella corda si fosse formato un po’ di gioco.

    «Perché tutto questo?» domandai, cercando di mantenere un tono indifferente. Crollare, a causa del terrore, non sarebbe servito a niente. Il sangue mi colava da un lato delle labbra. Era come se fossi appena uscita dal dentista: la parte sinistra della mia bocca era rigonfia e intorpidita. Presto avrei iniziato a perdere saliva.

    «Perché sei una stupida troia» disse con voce petulante, in netto contrasto con l’aspetto da maniaco.

    «Non capisco che necessità ci sia di uccidermi. Sei uscito.»

    Mi rivolse il solito ghigno, i denti splendenti come la luna. Si strofinò l’inguine e inarcò un sopracciglio. «Già» grugnì. «Ci puoi scommettere.»

    Ignorai il suo gesto. Se mi aveva violentata, preferivo non ricordarlo, anche se dubitavo l’avesse fatto. Nico Sala era uno stupratore seriale in due Stati. Aveva iniziato a Wilmington, nel Delaware, aggredendo donne single tra i diciotto e i cinquant’anni. Né l’età né le caratteristiche fisiche avevano una particolare rilevanza per lui. Grasse, basse, alte, magre, bionde, more, bianche, nere, asiatiche: non c’era differenza. Andava a caccia di prede che vivevano da sole, in appartamenti al primo piano. A Wilmington, aveva stuprato sette donne. Poi si era trasferito a Baltimora, dove ne aveva violentate altre undici.

    Siccome la autorità locali avevano ricondotto quei crimini a un unico aggressore, avevano chiesto assistenza all’FBI e il mio ufficio l’aveva concessa volentieri. Avevo iniziato a occuparmi del caso dopo la quinta vittima di Baltimora. Alla fine, ero stata incaricata di lavorare sotto copertura, ero andata ad abitare in un orrendo appartamento al primo piano e avevo dovuto attendere circa un mese prima che Sala facesse irruzione con l’intenzione di stuprarmi. Era stato subito circondato e arrestato dalla massiccia task force incaricata di catturarlo.

    Avevo lavorato al caso, studiato i file, parlato con le vittime. Nico Sala era quello che gli investigatori definivano uno stupratore sadico. Si eccitava soltanto quando le sue vittime venivano sopraffatte dalla paura. Quel tipo di terrore che faceva dilatare le pupille ed emettere grida roche, che faceva imperlare la loro fronte di sudore. A lui piacevano pienamente coscienti e terrorizzate.

    Avrebbe atteso che mi riprendessi del tutto, prima di regolare i conti con me.

    «Ti hanno lasciato andare» dissi.

    Dopo mesi di indagini e un arresto difficoltoso, Nico era stato liberato grazie a un cavillo tecnico. La notte della cattura, due dei miei collaboratori del Bureau erano stati sulla scena, insieme a un paio di detective della sezione crimini sessuali e a quattro agenti di polizia di Baltimora. Nonostante il dispiegamento di forze, nessuno aveva letto a Sala i suoi diritti, rendendo in tal modo illegale l’arresto. Il Procuratore Distrettuale non aveva potuto fare nulla. Eravamo stati costretti a vederlo di nuovo in libertà, avevamo raccolto i cocci, mentre i superiori ci addossavano la colpa con disgustata ferocia. Da allora, erano passati due mesi.

    Nico sputò sul pavimento. «Esatto. Mi hanno liberato e sono venuto a cercarti.»

    Mi scrollai di dosso un brivido di paura. Il mio corpo palpitava come una vena gonfia di furore.

    «Perché?» volli sapere con voce incrinata, come una vecchia sedia. Dovevo continuare a farlo sfogare. Più parlava più diminuiva la possibilità di essere aggredita. Era evidente che aveva voglia di sfogarsi nei miei confronti.

    «Perché mi hai fregato» replicò feroce, con i lineamenti distorti dallo sdegno.

    «Non credo» replicai.

    Mi lanciò il coltello.

    Girai la testa e abbassai il mento, mentre i capelli castani ricadevano sul collo quasi a difendermi. La lama mi sfiorò appena sopra il seno destro, con una forza insufficiente a ferirmi, e cadde a terra. Il rumore sembrò risuonare per tutta la stanza; forse, era l’effetto della droga. Le lacrime pizzicarono di nuovo i miei occhi. Sbattei le palpebre per ricacciarle indietro e deglutii, imponendomi di mantenere il sangue freddo.

    «E stanotte, troia, ti scoperò prima di farti a pezzi.»

    «Nico, tu non hai mai ucciso nessuno» puntualizzai.

    «Non lo puoi sapere» mi sfidò.

    Con la pazienza di una madre verso il figlio, sospirai. «Sì, Nico, ora lo so.»

    Si alzò di nuovo.

    «Ho tracciato il tuo profilo, idiota. Non sei che un ragazzino arrabbiato che ha avuto una madre prepotente.» Si avvicinò. «Vuoi solo avere il controllo. Ti piace terrorizzare le donne, sopraffarle e umiliarle.»

    La mia mandibola si ruppe con uno schianto sinistro.

    Poi mi assestò un altro pugno. «Chiudi quella cazzo di bocca!» gridò.

    Un altro cazzotto. La pelle si lacerò. Le labbra si spaccarono contro i denti. Gli occhi lacrimarono e il naso si accartocciò.

    La sua voce si fece stridula in modo innaturale: «Credevi di essere furba, stupida puttana. Entrare nel mio territorio e lasciare la finestra aperta. Mi aspettavi. Be’, ora sono uscito.»

    La stanza vacillò, svanì alla vista come due metà di una nave che affondavano lente nell’oceano.

    «Tu mi hai fottuto» ripeté. «E adesso io fotterò te.»

    Tentai di parlare, ma non ci riuscii. Non riuscivo più a distinguerlo. Mi strinse le mani attorno alla gola. Provai ad abbassare il mento, ma era troppo tardi. Fui avvolta dall’oscurità.

    Persi la cognizione del tempo. Ogni volta che riprendevo coscienza, pensavo che sarebbe stata l’ultima. Mi sforzai, però, di restare lucida, anche se era sempre buio. I miei occhi erano chiusi per il gonfiore Non ricordo molto altro. Mi afferrò i capelli con brutalità, mi pugnalò le cosce, colpendomi ripetutamente. Poi mi palpeggiò, mi leccò, cercò di baciare la mia bocca ferita.

    Il dolore lancinante era diventato lontano e sordo. Io ero altrove, nella fortezza di pietra della mia mente. Lì, c’era Lexie, la mia gemella, che mi tendeva la mano, più giovane di dieci anni, come quando era morta. Mi sorrideva. L’immagine riflessa di me stessa.

    Mi protesi per afferrare le sue dita, ma non ci riuscii. Ci fu un trillo, un suono familiare che mi riportò indietro. Il mio campanello. Udii il silenzio. Allora ero sola? Sentii che mi slegavano le mani. Erano pesanti e indebolite da ore di immobilità.

    Pensai di avere le allucinazioni. Forse, era così la morte. La preziosa morte. Volevo raggiungerla, elevarmi verso di lei. E ci provai, ora che avevo le gambe libere. Barcollai e ricaddi sulla sedia.

    La morte mi parlò con voce maschile. «Devi alzarti» mi disse. Avvertii il suo silenzioso respiro nell’orecchio, mentre mi sollevava.

    Mi ritrovai in mano la mia pistola, familiare e rassicurante. La morte mi alzò le braccia che tremarono per il peso dell’arma. «C’è un colpo in canna» mi sussurrò. Vacillai all’indietro finché non trovai la sedia come debole sostegno.

    «Sta tornando» continuò a mormorare. «Devi farlo. Lo senti?»

    E io ubbidii.

    La morte se ne era andata. Quando Nico Sala si mosse verso di me, alzai la pistola a livello della spalla e mirai dritto davanti a me. Sparai. Udii tre passi, lo schianto del legno contro il legno. Premetti il grilletto altre due volte prima di avvertire il rumore del suo corpo che rovinava a terra.

    Crollai anche io; la mia nuca che si appoggiava contro la sedia.

    Respirai.

    Nei film, quando il cattivo viene annientato e l’eroina giace malconcia e senza forze, si sentono subito le sirene dei buoni, in lontananza, ma non è così che accade nella vita reale.

    Giunsero più tardi, molto più tardi.

    Mi dissero che un ragazzo che consegnava le pizze aveva chiamato la polizia. Era stato mandato all’indirizzo sbagliato. Aveva suonato alla porta e Nico Sala gli aveva aperto: aveva gli occhi sbarrati, un aspetto spaventoso ed era ricoperto di sangue. Senza mezzi termini, lo aveva mandato a quel paese.

    Prima di sottopormi a un intervento di chirurgia ricostruttiva, per rimediare ai danni provocati da Nico Sala, la mia faccia fu sbattuta su tutti i media. Fui intervistata e interrogata. Incontrai il Presidente. Ricevetti un encomio speciale dal Bureau. Dopo la guarigione, mi offrirono l’incarico di analista investigativo criminale nell’Unità di Analisi Comportamentale, al Centro Nazionale per l’Analisi di Crimini Violenti. E io accettai.

    So cosa mi dissero. So cosa ricordo di quella notte. So che qualcuno mi ha salvato la vita.

    Ma non ero stata io.

    Capitolo 2

    1

    Wyatt

    Cinque anni dopo.

    4-5 luglio

    Wyatt Anderton teneva la Smith & Wesson 22A nella mano destra, incollata al corpo, e attendeva che Martin Sorenson rispondesse al campanello della porta. Il sole del mattino gli batteva sulla nuca. Gocce di sudore scivolarono nel colletto della camicia. Diede un’occhiata alle sue spalle, lungo il vialetto d’accesso della sontuosa villa in stile Tudor, di Sorenson. Aveva parcheggiato il furgone a noleggio nei pressi della casa; era ben nascosto da una siepe che pareva non venisse potata da settimane. L’abitazione dei vicini era abbastanza distante e, anche se l’avessero notato sui gradini, non sarebbero stati in grado di identificarlo durante un confronto.

    Suonò il campanello altre tre volte prima che Sorenson si decidesse a rispondere. La porta si aprì lentamente e ne uscì un odore di stantio. L’uomo, robusto, indossava una T-shirt bianca che aveva visto tempi migliori. Aloni giallastri si intravedevano sul tessuto, in corrispondenza delle ascelle; l’addome spuntava dall’orlo della maglietta e sovrastava la cintura dei pantaloni grigi della tuta. Macchie di cibo punteggiavano gli abiti e la barba era ricoperta di briciole. Stava sgranocchiando qualcosa. Sopra gli occhi socchiusi, rughe di decisa seccatura gli increspavano la fronte.

    «Cosa vuoi?» chiese. Poi vide la pistola.

    Sgranò gli occhi e la bocca si spalancò. Prima che potesse reagire, Wyatt gli puntò l’arma sul naso e usò la mano libera per spingerlo all’interno. Sorenson non accennò a ribellarsi e indietreggiò barcollando, con le mani alzate. Mentre diceva: «Chi sei? Che cosa stai facendo? Fermati, fermati, fermati!» dalla sua bocca caddero pezzetti di cibo.

    Wyatt inciampò su un paio di mocassini che giacevano nell’atrio, ma riuscì a mantenere l’equilibrio.

    Premette la canna sul notevole girovita di Sorenson. «Sta’ zitto!» sibilò.

    Guardò a sinistra e vide un salottino con un divano e una poltrona reclinabile. Libri, giornali e posta non aperta ricoprivano un tavolino. Indicò la stanza e Sorenson vi entrò.

    «Siediti» gli ordinò Wyatt.

    L’uomo si mosse adagio, come se il pavimento fosse fatto di ghiaccio e lui temesse di scivolare e cadere. Quando si sedette sul divano, le sue ginocchia scricchiolarono rumorosamente. Mantenne gli occhi su Wyatt, le sopracciglia inarcate come in perpetua sorpresa. Sollevò di nuovo le mani, ma, questa volta, per indicare verso l’ingresso.

    «Non so chi sei» disse con tono più arrabbiato che spaventato. «Prendi quello che vuoi e vattene. Vai fuori da casa mia.»

    Wyatt si fermò davanti a lui, sovrastandolo. Gettò di nuovo un’occhiata al tavolino e, sopra i giornali in disordine, notò un pezzo di torta a metà. «Stavi mangiando?»

    Sorenson increspò le sopracciglia. «Eh?»

    Wyatt fu colto da uno sgradevole ricordo. L’alito di birra di suo nonno. Stavi mangiando, figliolo? Aveva tre anni quando aveva scoperto cosa significasse avere la mano stritolata nella porta del frigorifero. Quando i suoi genitori erano tornati a prenderlo, non avevano notato le ferite né quanto fosse affamato.

    Sbatté le palpebre rapidamente ed esalò un profondo respiro: doveva rimanere concentrato.

    «Cosa vuoi?» gli domandò Sorenson.

    Wyatt sorrise, mostrandogli i denti, e l’altro spostò all’indietro la schiena, come per tentare di porre una maggiore distanza tra loro. «Voglio che tu finisca la tua torta.»

    «Io non... non...»

    «Sta’ zitto.»

    Continuando a tenere l’arma puntata, Wyatt estrasse dalla tasca dei pantaloni un sacchetto con una sostanza polverosa che gettò in grembo a Sorenson.

    L’uomo lo sollevò. «Cos’è?»

    «Spargila sulla torta.»

    «Non voglio mettere questa roba sul mio cibo» si ribellò con tono lagnoso.

    Wyatt si chinò e gli premette la pistola sulla fronte. «Fallo e mangia.»

    Un altro ricordo gli fece tremare le ginocchia. Cercò di allontanarlo, ma si insinuò con prepotenza.

    Mangialo, figliolo. Mangialo o ti ucciderò. Le grosse dita del nonno gli si piantarono nella gola finché la vista non si offuscò. Wyatt ripensò al gatto randagio che il nonno aveva strozzato la settimana prima. Lo aveva stretto fino a quando l’animale non aveva strabuzzato gli occhi e aveva smesso di muoversi. Il nonno, poi, lo aveva bruciato nella carcassa arrugginita di uno pneumatico, nel suo giardino.

    Il panico provocò un fremito nello stomaco di Wyatt, come se dentro di lui ci fossero mille farfalle. Con rapidità si mise a leccare le piastrelle del pavimento, cercando di catturare tutti i pezzetti di torta di mele con la lingua. Tante briciole che parevano incollate a terra. Il nonno sghignazzò. Per un attimo, Wyatt si sentì sollevato. Forse era uno scherzo e lo avrebbe lasciato andare. Non fu così. Vuoi mangiare il mio cibo, figliolo? Allora, fallo!

    Wyatt si sforzò di tornare al presente, sbattendo più volte le palpebre. Sorenson spostò il sacchetto da una mano all’altra, nervosamente, deglutì e il suo pomo d’Adamo si mosse in modo vistoso, mentre si faceva indietro, per allontanare la fronte dalla pistola.

    «Non metterò questa roba sul mio cibo» protestò di nuovo.

    Wyatt afferrò il sacchetto e lo aprì, strappandolo con i denti. Sparse il contenuto sulla torta e mise il piatto sulle ginocchia di Sorenson con un gesto sgarbato. «Mangiala» gli ordinò, abbassando la voce. «Non ti ucciderà.»

    Sorenson prese la forchetta. Fissò la torta come se gli fosse stata servita in un ristorante, ci avesse trovato dentro un capello e stesse per mandarla indietro. «Cos’è?» volle sapere arricciando il naso.

    «Qualcosa che ti renderà più... docile» replicò Wyatt.

    L’effetto della droga sarebbe svanito in poche ore e, anche con analisi approfondite, non se ne sarebbero trovate tracce nel sangue.

    L’uomo fece un ultimo tentativo. «Docile per cosa? È ridicolo. Smettiamola con questa assurdità. Non sono costretto a mangiare questa roba. E non è necessario che mi minacci con quell’arma. Ho del denaro» disse. «C’è una cassaforte di sopra.»

    «Non mi interessano i tuoi soldi» ribatté Wyatt. Si sedette accanto a Sorenson, agitando la pistola e conficcandogliela nel morbido incavo dietro l’orecchio. «Mangia o io ti ucciderò.»

    Con un sospiro che fece desiderare a Wyatt di premere il grilletto, l’uomo ingoiò lentamente. Era evidente che cercava di comprendere la situazione. Wyatt dubitò che Sorenson avrebbe usato la forza: era un professore universitario, un accademico e, da quanto poteva vedere, era del tutto fuori forma.

    «Posso avere un po’ d’acqua?»

    «No.»

    Wyatt si guardò attorno. La stanza era fin troppo ampia per quello cha aveva in programma. Persino troppo in disordine, anche se questo in realtà avrebbe giocato a suo favore. Alcuni abiti erano stati gettati sui mobili. Pile di libri e compiti di studenti erano ammucchiati su alcuni tavolini e per terra. Diversi contenitori di pizza e di cibo cinese da asporto erano vuoti, accatastati su un altro tavolino. Un ennesimo cartone per la pizza giaceva sulla poltrona reclinabile.

    «Mi piace come hai sistemato questo posto» sghignazzò Wyatt. «Tua moglie ti ha lasciato... quando? Sei settimane fa? Portandosi via vostro figlio. Non ci hai messo molto a rendere un porcile la casa.»

    Il volto butterato malcelava un doppio mento con una folta barba incolta.

    L’uomo impallidì visibilmente. «Come fai a sapere della mia famiglia?» gracchiò.

    Wyatt agitò una mano in aria. «Qualche ricerca. Analisi accurate. Sta tutto nella pianificazione, Martin.»

    «Pianificazione di cosa?» La sua voce era diventata più roca. Non ci sarebbe voluto molto.

    Wyatt lo ignorò. «Mangia.»

    L’ultimo boccone andò giù senza difficoltà. La droga fece effetto con rapidità. Un istante dopo, Sorenson scivolò sul pavimento, impotente e contorto da spasmi. Wyatt allontanò il tavolino con il piede per concedergli spazio. La bocca dell’uomo formò una O nel tentativo di pronunciare la parola cosa. Wyatt si accovacciò accanto a lui.

    «Non ti dirò né cosa né perché, se è questo che vuoi sapere.»

    «C-co...» ritentò Sorenson con gli occhi spalancati e cupi di panico, puntati su Wyatt. Sbatté le palpebre piano, come per comprendere se fosse ancora in grado di farlo.

    «Ti vanti di possedere un’intelligenza eccezionale. Non lo hai affermato tu stesso in qualche arcaica rivista accademica?» Sorenson smise di battere le palpebre e sbarrò gli occhi. Wyatt sorrise. «Allora non dovresti avere difficoltà a capire perché lo sto facendo. Non preoccuparti. Avrai tempo sufficiente per riflettere, sebbene la risposta non sarà quella che ti salverà la vita.»

    La bocca di Sorenson si fermò di colpo e Wyatt scorse una scintilla di terrore negli occhi di quell’uomo corpulento.

    Sogghignando, Wyatt si rialzò. Lasciò Sorenson sul pavimento e perlustrò, rapido, la casa. Dietro la cucina, c’era una piccola lavanderia, perfetta per il suo piano. Come aveva accennato, il suo lavoro non c’entrava con l’uccidere e, quando non era preda della bestia, lo detestava. Il suo lavoro avveniva prima e richiedeva un’attenta pianificazione; nel caso specifico, erano servite settimane in incognito per trafugare la spazzatura di Sorenson.

    Dopo aver accostato il furgone alla porta posteriore della casa, Wyatt usò tutto quello che aveva raccolto per trasformare la lavanderia in una sorta di discarica. Si rivelò un lavoro schifoso e, in certi momenti, pensò non ne valesse la pena, ma poi gli ritornava in mente il volto della donna che aveva amato tanti anni addietro. Gli era passata davanti nel corridoio, dopo l’incontro privato con il professore di Filosofia, le guance rosse di furia e frustrazione. A quel tempo, si era preso la briga di scoprire tutto ciò che aveva potuto su Martin Sorenson. Né allora né adesso, però, era riuscito a trovare una sola qualità positiva su quell’uomo.

    Il compito più arduo, in quella parte della missione, fu trascinare il corpo, privo di conoscenza, dal salottino alla lavanderia. Prima, tentò di tirarlo per le braccia, allungandogliele sopra la testa. Sorenson pesava centoquaranta chili, ma, dopo che Wyatt lo aveva drogato, sembrava il doppio. Svanito l’effetto della sostanza, l’uomo sarebbe tornato in sé, ed ecco perché era tanto importante sistemarlo nel suo giaciglio di rifiuti.

    Anche trascinarlo per gli arti inferiori non si dimostrò facile; fu addirittura estenuante. Le gambe erano grosse come pali e il loro peso era considerevole. Alla fine, escogitò un modo piuttosto rude per spostarlo: lo fece rotolare da una stanza all’altra. Quindi, chiuse a chiave la porta della lavanderia e si posizionò fuori, sedendosi sul pavimento.

    Poi attese.

    Finché non fu sicuro che Sorenson stesse bene e fosse affamato. Finché Sorenson, affaticato dai tentativi infruttuosi, non rinunciò ad abbattere la porta della lavanderia per fuggire. Finché il fetore della paura e del sudore non si mescolarono con le penetranti esalazioni della spazzatura che riempiva la piccola stanza.

    Quando le grida di aiuto dell’uomo cessarono, Wyatt aprì la porta. Sistemò una sedia sulla soglia e puntò la pistola contro Sorenson, cercando di resistere al puzzo rivoltante. L’uomo era appollaiato sulla asciugatrice, come un Buddha sovrappeso. Gli occhi come quelli di un animale, i capelli in disordine: aveva l’aspetto di un pazzo.

    Wyatt sorrise.

    «Che cosa vuoi?» La voce di Sorenson era rauca, dopo aver gridato senza sosta per una trentina d’ore.

    «Non hai il diritto di porre domande.»

    «Non puoi farmi questo. Io...»

    «Posso fare tutto ciò che mi pare» lo interruppe Wyatt.

    Sorenson si gonfiò come un uccello grasso che si preparava a pavoneggiarsi. Aprì il becco per parlare, ma Wyatt scosse la testa e, non appena l’altro si fermò, trattenne un sorriso, nel comprendere quanto fosse potente il suo sguardo o anche soltanto un piccolo gesto.

    «Non che tu lo meriti,» iniziò «ma ti concederò la possibilità di salvarti la vita.»

    Wyatt tirò fuori una foto dalla tasca interiore della giacca e gliela lanciò. L’immagine cadde sui rifiuti, sparsi sul pavimento, e Sorenson fu costretto a scendere dall’asciugatrice per raccoglierla: mentre veniva meno il suo peso sull’elettrodomestico, si udì un forte cigolio. Una volta a terra, le sue flaccide gambe cedettero – forse per via delle lunghe ore di immobilità – e il professore finì con le ginocchia a terra. Non si curò del fatto che in quella posa sembrava una vittima; anzi, afferrò la foto, la tenne con entrambe le mani e osservò la donna che vi era ritratta.

    «Te la ricordi?» gli domandò Wyatt.

    Senza sollevare lo sguardo, l’altro scosse la testa. «No. No. Non la conosco.»

    «Sì, invece» replicò Wyatt.

    Sorenson lo fissò. L’angoscia gli conferiva un pallore innaturale e le vene gli striavano di blu il viso e il collo. Agitò la foto in direzione del suo sequestratore. «Non conosco questa donna. Mi hai scambiato per qualcun altro.»

    Wyatt si allungò per riprendere la foto e il professore la gettò ai suoi piedi. Lui la raccolse con cura e ne ripulì la superficie sulla gamba dei pantaloni. «Martin, sono deluso, ma non sorpreso. Tu non ti accorgi di nessuno. Ferisci le persone e ti dimentichi di loro non appena spariscono dalla tua vista. Non ti importa di quelli che distruggi.» Fece una pausa e gli mostrò di nuovo l’istantanea. «Te lo chiederò un’ultima volta. Ti ricordi di lei?»

    Lo sguardo di Sorenson si fece borioso e l’uomo parve quasi aspettarsi che Wyatt, da un momento all’altro, tornasse in sé e comprendesse l’assurdità della situazione, lasciandolo così andare. Wyatt contò in silenzio fino a venti; poi, quando l’altro non rispose, spostò la sedia all’indietro e sbatté la porta.

    Mentre chiudeva a chiave, Sorenson riprese a gridare.

    Capitolo 3

    1

    Kassidy

    6 luglio

    In piedi, in fondo al tavolo della sala riunioni, tenevo in mano la foto di una donna morta. La sollevai affinché i miei colleghi della UAC, l’Unità di Analisi Comportamentale, potessero vederla. Nell’immagine, il corpo era stato sistemato con cura sul pavimento del soggiorno, con la testa rivolta a destra. Non restava nessuna traccia della donna che era stata; di lei, rimaneva solo una carcassa gonfia, nera e violacea. La parte posteriore del cranio era sfondata, il bulbo oculare destro ciondolava dall’orbita in modo macabro. Il naso era appiattito, ridotto in poltiglia. Da quando avevo ricevuto il file, avevo oramai studiato quella foto decine di volte, ma anche in quel momento sentii l’acido risalire nello stomaco.

    «Questa è Georgette Paul» iniziai. «Aveva quarantacinque anni. È stata trovata morta nella sua casa di Denver, tre settimane fa. Viveva da sola ed era la direttrice di una libreria indipendente. Nella sua bocca è stata ritrovata una domanda d’impiego appallottolata con le parole Per Te. Ovviamente, la firma del suo assassino.»

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