83500
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Info su questo ebook
Grazie a Gabriel uscirà dalla catatonia e, sempre grazie a lui, avrà la possibilità di tornare indietro, prima che il crimine per cui è condannata venga commesso.
Melice viaggia nel tempo per rivivere il suo passato senza nessun ricordo dell'arresto, senza condizionamenti. Tutto procede regolarmente, fino alla notte di Halloween.
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Anteprima del libro
83500 - MICHELA MONTI
Indice
Cover
Cover interna
Credit
Dedica
Poesia
PROLOGO
PARTE PRIMA
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
PARTE SECONDA
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
22.
23.
24.
25.
26.
27.
28.
29.
30.
PARTE TERZA
31.
32.
33.
34.
35.
RINGRAZIAMENTI
Biografia
Triskell Edizioni ringrazia
Pubblicato da
Triskell Edizioni di Barbara Cinelli
Via 2 Giugno, 9 - 25010 Montirone (BS)
http://www.triskelledizioni.it/
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è puramente casuale.
83500 di Michela Monti - Copyright © 2018 - Seconda edizione
Prima edizione - © 2012 GDS
Cover Art and Design di Barbara Cinelli
Immagine di copertina lassedesignen/shutterstock.com
Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma né con alcun mezzo, elettronico o meccanico, incluse fotocopie, registrazioni, né può essere archiviata e depositata per il recupero di informazioni senza il permesso scritto dell’Editore, eccetto laddove permesso dalla legge. Per richiedere il permesso e per qualunque altra domanda, contattare l’associazione al seguente indirizzo: Via 2 Giugno, 9 – 25010 Montirone (BS)
http://www.triskelledizioni.it/
Prodotto in Italia
Prima edizione – Febbraio 2018
Edizione Ebook 978-88-9312-344-0
Edizione cartacea 978-88-9312-346-4
Al Nonno
Il vento che amava
un piccolo fiore
servì come pegno
il suo vitreo cuore.
Il fiore vanesio
quel cuore non volle.
Lo vide cadere,
disperdersi in stelle.
Il vento impazzì,
gelandosi muto,
coprendo del fiore
il grido d’aiuto.
Il vento che amava
Il piccolo fiore
ottenne vendetta,
pagò col dolore.
PROLOGO
Freddo. Quel cavolo di congegno era ghiacciato morto. Già. Buffo.
Ghiacciato morto. Aggettivo fin troppo azzeccato.
E se casualmente ti fosse sfuggito il motivo per cui avevi addosso quel dispositivo, nessun problema. Ci pensava lui a ricordartelo.
«Melice Redding, detenuta 83500, cella tre, Zona Nera.»
Sì, quelle dannate manette magnetiche, oltre che essere gelide e pesanti, parlavano anche. Quando si dice la fortuna…
E ogni volta che la voce metallica riecheggiava nella mia piccola gabbia parlava di fine.
Della mia fine.
Il doppio zero in fondo alla matricola era la distinzione dei condannati alla pena capitale, e la Zona Nera la sala d’attesa.
Mi strinsi appena nelle spalle, sentendo i brividi correre giù, lungo la mia schiena dolorante, per le troppe notti in branda.
«Mel, stai fingendo. Non dormi, lo so.»
Certo che lo sai. Non mi sto impegnando davvero.
«Buongiorno, Gabriel.»
«Ah… pessimo umore.»
Zitta.
«Mi chiami Gabriel solo quando sei…»
«Ti chiamo Gabriel troppo poco» tagliai corto, e mi voltai di scatto verso di lui, sentendolo ridere amaro.
Errore.
Restai lì a fissare i suoi occhi e il suo viso perfetto come un’idiota. Dieci anni non erano bastati ad abituarmi a uno sguardo grigio cielo e rosso fuoco.
PARTE PRIMA
Fiera riluce
sopra la schiena,
lama letale
allevia la pena.
1.
ReBurning Prison. Winston-Salem - North Carolina. Continenti Uniti.
Terra.
Credo.
Per quel che mi riguardava tutto il mondo stava chiuso dentro una fredda cella due metri per due. Il passato era sepolto nei meandri della mia mente confusa.
Regnava il grigio ovunque. Grigio carcere, grigio inerte, grigio nebbia.
La mia memoria smarrita nell’amnesia veniva sondata con ogni mezzo dai dottori.
Ero in terapia. Sì, una condannata a morte in terapia.
Orrendamente ironico.
Ripetevano spesso il nome di un uomo, Shawn, mi chiedevano cosa ricordassi di lui, chi fosse il padre della mia bambina, perché ero stata processata e condannata.
Insistevano, ma non avevo risposte da dare. Non potevo.
Mi avevano spinta davanti allo specchio mille volte per farmi abituare al mio viso. La carnagione pallida spolverata di lentiggini sembrava strana, l’ovale spigoloso, un po’ rigido, le labbra sottili, ben definite e rosse.
Quante volte le avevo sfiorate cercando di convincermi che erano mie…
Gli occhi grandi e curiosi, verdi come le foglie di salvia, si studiavano dentro il loro stesso riflesso.
I capelli scendevano lunghi e castani, con onde appena accennate. Erano morbidi. Passavo le dita tra le ciocche tirandole, e mi stupivo del leggero pizzicore alla testa.
Non capivo.
Guardavo l’immagine in piedi di fronte a me e la toccavo appoggiando la mano al vetro. Disegnavo i contorni del corpo fragile che vedevo, così piccolo, così vuoto.
Era stato in quel modo che mi ero adattata alla nuova me, senza che la vecchia venisse mai a galla.
Avevano dovuto dirmi il mio nome, la mia età, il mio compleanno. Avevano dovuto dirmi tutto.
Ma una cosa la ricordavo, una sola.
Sadie.
La mia Sadie.
Una stretta al cuore mi mozzò il respiro e sussultai, avvolta dal silenzio.
Si può amare tanto una figlia che non hai mai visto?
Mai, neanche per un secondo?
Sì. A me era successo.
L’arresto aveva anticipato di pochi giorni il travaglio, e appena nata la mia bambina era stata portata via, lontana da me, da quel maledetto carcere.
Non aveva colpe, lei.
Col parto avevo perso qualsiasi cosa, ogni momento di vita passato. Quello che c'era stato prima era stato rinchiuso in una bolla opaca. Il dopo no.
Ricordavo perfettamente le mani insanguinate dei medici che tiravano fuori quel piccolo bozzolo urlante dal mio ventre. Le mie grida e il male alle braccia, che mi tenevano schiacciate contro il lettino operatorio. La voce della dottoressa che mi dava le spalle mentre diceva che era una femmina; ricordavo le mie lacrime che pizzicavano il viso.
Ricordavo di aver urlato «Sadie,» fino a trasformare la voce in un mormorio roco. Ricordavo la sua manina protesa, imbrattata.
Ricordavo soprattutto il dolore.
Mi ero lasciata trasportare in cella senza opporre nessuna resistenza, con le convulsioni per il pianto. Non so quanto tempo era trascorso prima che riuscissi a sentire qualcosa al di fuori della mia disperazione.
Stavo immobile, stesa, con i pugni stretti. Nient’altro.
Dopo il parto mi avevano riempita di medicinali: per il dolore, per il ferro, per sedarmi.
La sofferenza fisica era diminuita, facendo sì che riuscissi a muovermi.
Allora mi ero spostata, restando seduta con le gambe piegate fino a toccare il mento con le ginocchia, le braccia infilate tra i polpacci e le cosce, le mani livide per la pressione.
Non dormivo, non mangiavo. Stavo sempre in quella stessa posizione. Dondolavo sui talloni ripetendo soltanto il nome di mia figlia e rovesciando angoscia dagli occhi.
Tutto era ovattato e la morte mi sembrava una soluzione come un’altra. Volevo solo che finisse.
Poi era arrivato lui.
Gabriel era comparso dal nulla, mettendosi a fare battute, a punzecchiarmi in maniera crudele e infantile, ma efficace.
«Cos’hai combinato, Cella 3?»
Sadie, Sadie, Sadie.
«Per cosa ti friggeranno il cervello, fringuellina?»
Sadie. Non lo so. Sadie.
«Sai parlare?»
Vattene, Dio mio, vattene. Sadie.
Lui invece continuò, per settimane, mentre gli infermieri passavano ad attaccarmi flebo trasparenti ai polsi.
E io non ricordavo, non potevo rispondere.
Cosa ci facevo lì?
Lo guardavo con espressione assente, lasciandogli leggere solo il vuoto assoluto. Le immagini limpide nella mia mente erano pochissime: un grande campo giallo oro, una ruota panoramica illuminata, un vicolo buio e una neonata in lacrime. Sadie.
Sadie.
Sadie.
Gabriel aveva capito alla perfezione cosa poteva farmi male, e lo usava senza riguardi. Era il suo modo di condurre il gioco.
Stava scatenando la mia rabbia contro di lui, distraendomi da quello che rimaneva di me stessa.
Una mattina si avvicinò alle sbarre con un sorriso, puntandomi gli occhi in faccia.
«Abbiamo finito con la tragedia qui? Dai fastidio alle altre, Cella 3.» Lo ignorai continuando a oscillare, muta. «Tua figlia starà sicuramente meglio lontana da te.»
L’aveva detto. Davvero.
I miei nervi collassarono all’istante. Caddi in ginocchio urlando addosso a quel mostro, coi polmoni che chiedevano altra aria, poi mi scaraventai contro le barre elettrificate per colpirlo più forte che potevo. Reazione inutile: la corrente mi attraversò dalle mani ai piedi in un secondo.
Gabriel mi spinse con forza via dai pali metallici col suo bastone di legno.
Ecco a cosa serviva.
Svenni, circondata dal buio.
Mi risvegliai in infermeria, intontita e vagamente felice, con la consapevolezza che era un benessere artificiale, ma che andava benissimo così.
Il bastardo era seduto poco lontano e mi osservava tranquillo.
«Di solito ci metto meno a far incazzare le persone. Mi hai dato filo da torcere, Cella 3.»
«Ci credo,» biascicai.
«Che cosa pensavi di fare, di star lì a struggerti per tutta la vita?»
Feci spallucce. «Non è poi tanta, tutta la vita.»
Rise.
«Touché. Ma in fondo, chi può dirlo?»
«Ti chiamano Guardiano di Anime, ho sentito le altre urlarlo. Se il tuo compito fosse quello di pensare ai nostri corpi vivi, avresti un altro nome. Siamo carne a nolo.»
Le sue labbra restarono distese e per la prima volta lo vidi davvero.
Era bello. Incredibilmente bello. Aveva i tratti del volto spigolosi ed eleganti. Il naso, le labbra, gli zigomi: tutto di lui portava a qualcosa di delicato e feroce. La carnagione rosea, l’espressione vivace, i capelli luminosi, i ciuffi lunghi e lisci che gli ricadevano disordinati sugli occhi, come nastri di seta color sabbia, lo rendevano perfetto.
Perfetto.
Con qualcosa di assurdo: l’iride destra era grigia, accesa da un vago bagliore azzurro, e la sinistra risultava uguale soltanto per i tre quarti. L’ultimo spicchio riluceva di un rosso rubino completamente innaturale.
Non ricordavo nulla, ma sapevo che era strano.
Indossava una specie di uniforme, o qualcosa del genere. Aveva un paio di pantaloni lisi, nascosti da una lunga toga nera col cappuccio ampio, e le maniche erano esagerate, con quella sinistra fermata sopra la spalla da una cinghia di cuoio scuro per lasciare scoperto il braccio pallido, muscoloso, completamente ricoperto da un tatuaggio nero e scarlatto: un enorme circuito elettrico che arrivava fino a metà avambraccio. La mano era coperta da un guanto nero senza dita, con le nocche scoperte da piccoli buchi.
Era magro e alto, lo si capiva anche se stava seduto. Sembrava di vedere un felino accucciato, nobile, letale.
«Ti senti meglio, Cella 3?»
Mi voltai verso il muro, portando la mano alla testa pesante. «Non sono una gabbia o un maledetto numero. Ho un nome… non so quale, ma ho un nome.»
Tentai di darmi un contegno, difficile mentre si ammette di non ricordare come ci si chiama.
«Oh, scusami,» replicò, ma si divertiva come un pazzo. «Sei una ragazza per bene, vero Cella 3? Perfetto. Allora, tu sei Melice, io sono Gabriel.»
Mi tese la mano abbagliandomi con un sorriso canzonatorio.
Melice. Poteva piacermi.
Incrociai le braccia sul petto, non riuscivo a dimenticare le parole che mi aveva detto poco prima.
«Facciamo le difficili, Mel? Forza, un po’ di sano sarcasmo è sempre utile,» disse, indugiando con gli occhi sulle mie dita contratte.
«Il sarcasmo su mia figlia sai dove puoi mettertelo?»
Rise ancora. «In tasca?»
«Gabriel, lasciala in pace un secondo.» La voce gentile era quella di un’infermiera dal volto ovale ben in carne.
«Che succede, Gwen, sei gelosa?»
Anche la donna rise, probabilmente abituata alla sua arroganza, mentre armeggiava con una siringa chiusa.
«Potresti essere mio figlio, piccolo delinquente.»
«Tecnicamente no.»
«Tecnicamente, ora come ora, non potresti essere figlio di nessuno se fai il pignolo.»
Li fissai in attesa.
«Gabriel è un innestato, paziente 83500.»
«Innestato?»
«Un cyborg, piccola Mel,» spiegò lui, mostrandomi l’arto tatuato. «Ricordi cos’è un cyborg?»
No. Non ricordo cos’è un cyborg.
«Dovrei?»
Sospirò, scuotendo la testa. «Un cyborg è un umano con addosso impianti elettronici usati per sostituire parti mutilate o danneggiate. Sono componenti utilizzabili solo se la necessità è concreta. Gli innesti per potenziare esplicitamente un corpo integro sono illegali e removibili immediatamente.»
«Immediatamente?»
«Sul posto.»
«Come…»
«Chi li trova agisce.»
Sorrise e sgranchì le dita, allungandole, con una scintilla eccitata negli occhi. «Guardami il braccio, Melly.»
Respirai a fondo e fissai l’intreccio disegnato sopra i muscoli scoperti.
«Non nascondo nulla. Quello che è dentro si racconta fuori.»
Tossicchiai, raschiando la gola.
«Quindi l’occhio…»
«Certo, anche l’occhio è un innesto, ma è fatto per gli altri, per riconoscere chi possiede delle parti robotiche.»
«Perché?»
Si avvicinò fino a sfiorarmi l’orecchio. Aveva odore di polvere e latte caldo.
«Perché se ti arrestano vogliono sapere quanto puoi fargli male,» rivelò, e mi baciò una guancia.
Feci per gridargli qualcosa, arrabbiata, offesa, ma mi resi conto in tempo che lo aveva fatto per distrarmi.
Gwen mi stava piantando nel braccio un’enorme siringa colma di liquido verdastro.
«Brucia!» strillai furiosa.
«Solo per un attimo, 83500.»
«Vedrai che passa in fretta, Mel.»
E iniziai a sentire il cuore pesante. In pochi istanti il mondo aveva assunto toni opalescenti e indefiniti.
«Non ricorda quasi nulla.»
«Da domani inizierà la terapia.» Gwen non parlava più con me, nessuno dei due lo faceva. Ero già fuori dalla loro considerazione.
«La verranno a prendere tutti i giorni?»
«Sì, ma smetti di chiamarla per nome. Non devi legarti a lei, è sciocco e doloroso.»
Lo sentii sospirare forte mentre ormai intravedevo soltanto una piccola fessura luminosa.
«Se hanno dei codici distintivi è anche per noi. I loro nomi sono dettagli troppo intimi. Lo capisci, tesoro? Meno sappiamo di loro meno ci affezioniamo. Sono cadaveri ambulanti, Gabriel. Devi piantarla di restare sempre qui a ossessionarti su come passano i loro ultimi mesi.»
Bastarda.
Ma sincera.
In fila come soldatini, aspettavamo solo di sentire l’ordine.
Pronti.
Puntate.
Fuoco.
La sensibilità in tutti i muscoli mi abbandonava velocemente.
Il formicolio alla nuca mi avvertì che un braccio stava scivolando sotto la mia testa. Stessa cosa per l’incavo delle ginocchia.
Poco dopo ero sospesa.
«Dove vai? Ora vengono ad accompagnarla in cella.»
«Non pesa.»
«Gabriel…»
«Gwen, fatti i cazzi tuoi.»
Fu così che conobbi Gab.
2.
Il tempo scorreva pigro, lasciandomi solo la sensazione costante di marcire.
Questa era l’unica descrizione reale. Il resoconto di dieci anni di reclusione.
Tic tac, tic tac, all'infinito. Una montagna di secondi usati male che non sarebbero tornati più.
Lo sapevamo troppo bene noi inquiline della Zona Nera, lasciate nel buio, nascoste da una nuvola elettrica. Un buco nero di quell’universo sbagliato.
Eravamo sempre divise dalle altre detenute, ancora più lontane dal mondo.
Il motivo era ovvio: come minacci una persona che sa già di dover morire?
Appunto. Non puoi.
L’ora di pranzo per tutto il carcere era da mezzogiorno all’una.
Quando le altre uscivano, entravamo noi. Sguardi incrociati mentre camminavamo in direzioni opposte, separate solo da un vetro, sensazione di pietà e rispetto.
In quei momenti trovavo molto interessanti i miei piedi.
Come quel giorno.
Eravamo in fila con i nostri vassoi in mano, sette donne diversamente colpevoli e ugualmente silenziose. Ci si abitua al bisbiglio dei propri pensieri e non si ha più nessun bisogno di parlare.
Solo ogni tanto qualcuna ringhiava: «Non la voglio la carne. Sembra un misto tra suola vecchia e merda!» E la maggior parte delle volte era Eliza a sbottare. Era successo anche quel giorno.
Ventiquattro anni, in carcere da tre e ancora all’oscuro di quanta vita le restava. Vederla era capirla, con le emozioni che trasparivano da ogni suo gesto.
Tutta la rabbia e il rimorso non ammesso la facevano ingozzare e soffrire di più. Bassa, con il viso rotondo e pallido circondato da capelli neri liscissimi, gli occhi seminascosti dalla pesante frangia non passavano inosservati. Erano enormi, lucidi e azzurri. Due fari nella coltre corvina.
La bocca piccola era come quella delle bambole di porcellana, ma nascosto dalle labbra serrate c’era un sorriso mutilato dal padre violento che la picchiava.
Eliza lo aveva ucciso, come aveva ucciso suo fratello perché la stuprava, e la madre perché permetteva a entrambi di abusare di lei.
Peccato l’avesse fatto di notte, mentre dormivano.
Triplice omicidio premeditato.
Nessuna attenuante.
«Eliza per favore, vedi di non rompere. La carne non è filetto, e la mensa non è un ristorante cinque stelle.»
«Chi ti ha chiesto niente, piccola Melice?»
Piccola.
Con i miei sette anni e dieci centimetri in più sentirmi chiamare così da lei era un insulto mascherato da tenerezza. Non la guardai neppure in faccia mentre le mostravo il dito medio.
Una vassoiata tremenda contro il fianco mi sbalzò via dalla fila facendomi vibrare le costole.
Un attimo ed Eliza mi saltò addosso col pugno chiuso per colpire, ma non ne ebbe il tempo.
Sentimmo battere il legno contro il linoleum grigio tre volte e ci bloccammo. Avevo visto Gabriel picchiare una detenuta impazzita soltanto una volta, un’unica violentissima volta, e l'ultima cosa che volevo era finire come quella poveretta.
Era autorizzato a ucciderci, Gabriel, ma tutte avremmo preferito la sedia elettrica.
Spinsi via Eliza e lei cortesemente mi sputò addosso.
Gab in un lampo le conficcò distrattamente il bastone nel fianco, facendola ripiegare su se stessa per lo spasmo. Non la guardò neppure.
«Eliza, mia cara, devi darti un contegno da brava signorina. Non vogliono lama travestiti da donne in Paradiso.»
«Io nemmeno ci vado in Paradiso, stronzo» tossì rabbiosa.
«Vedila come vuoi. In quanto a te, Mel,» proseguì, fissandomi severo «alzati, non ti ha fatto niente.»
Puntai i piedi, mi spinsi in avanti con la mano sinistra, mi bilanciai lentamente, ancora indolenzita, e mi sollevai dal pavimento.
Le scarpe col fondo di plastica stridevano ed Eliza era ancora rannicchiata per terra al mio fianco. Sistemai la tuta color ghiaccio e me ne andai ignorandola. Presi la pasta al formaggio e la bistecca con gli spinaci, rispettivamente colla, cuoio e cordoni verdi. C’era anche la frutta, ma sapeva indistintamente di sabbia. Raggiunsi il mio solito tavolo isolato per mangiare sola.
Come tutte. La morte non unisce.
Il pranzo proseguì monocromo, asciutto come sempre.
Poco dopo, ancora in fila abbandonammo la mensa per tornare tra le braccia della Zona Nera entro le due.
Mezz’ora a colazione, un’ora a pranzo e una a cena. Il resto era cella. Fredda, vuota, angosciante cella.
Il rientro era sempre atroce, ma gli orari venivano comunque rispettati.
Tempo, tempo, ancora tempo. Sempre di fretta in un luogo dove l’unica cosa che potevi fare era contare i respiri che ti rimanevano.
E le manette facevano notare i ritardi con una gentile scarica elettrica.
Breve, convincente.
Camminavo a testa bassa nel largo corridoio: luce artificiale, colori lividi, nessuna finestra. Solo neon e aria condizionata.
Il sole che abbaglia e le stelle, le lontane, affascinanti stelle. Il profumo della pioggia che inizia a impregnare l’atmosfera, facendoti venir voglia di correre, e il cielo rosso della sera. Li ricordavo vagamente e avrei dato qualsiasi cosa per poterli ritrovare solo una volta.
Tutto per respirare vita, vedere ancora fuori e trovare Sadie.
Ma purtroppo non mi restava molta merce di scambio.
Valevo qualcosa io?
Ero completamente abbandonata ai miei pensieri quando sentii qualcuno alle mie spalle. Carrie sussurrò qualcosa prima di sfiorarmi delicatamente il braccio e dire: «Te la farà pagare.»
«E come,» sorrisi «mi ammazzerà?»
Lei mi fissò con occhi vacui, le pupille dilatate dai tranquillanti. L’azzurro era soltanto un cerchietto attorno al pozzo nero.
Doveva esser stata davvero bella, ma così, coi capelli rovinati e sporchi, non faceva una gran figura.
Era magrissima, credo che mangiasse poco e niente, forse per i medicinali, o forse semplicemente non sopportava di essere rinchiusa lì. Sembrava un agnellino indifeso perché la imbottivano costantemente di farmaci, ma senza era una bomba innescata.
Aveva ucciso tre poliziotti e cinque ostaggi durante una rapina a mano armata in banca.
Dodici giorni e l’avrebbero giustiziata.
Era la prima volta che mi capitava di assistere alla fine di una mia compagna d'inferno, e in quel momento camminava alla mia destra, preoccupata per il mio bene, forse ormai neppure tanto consapevole di quello che la stava aspettando.
Mi venne istintivo circondare le spalle di quell’assassina ridotta alla stregua di un cucciolo.
Un colpo secco contro al muro.
«Melice! Contatto!»
Girai gli occhi verso il soffitto, seccata. «Gab…»
«Melice!»
Mi apparve davanti con lo sguardo infuriato e la mascella