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Il collezionista
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E-book445 pagine5 ore

Il collezionista

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Info su questo ebook

Un capolavoro scomparso
Una ladra affascinante
Un segreto letale.

“Un thriller stimolante, che intrattiene e fa riflettere.”KIRKUS

DALL’AUTORE AL PRIMO POSTO NELLE CLASSIFICHE MONDIALI, UNA NUOVA MISSIONE PER GABRIEL ALLON.

All’indomani del gala annuale della Venice Preservation Society, il restauratore e leggendaria spia Gabriel Allon entra nel suo caffè preferito sull’isola di Murano e trova ad attenderlo il generale Cesare Ferrari, a capo del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale. Ad Amalfi, nella villa di un magnate sudafricano recentemente assassinato, è stato scoperto un caveau segreto contenente una cornice e un telaio vuoti che corrispondono alle dimensioni del Concerto a tre di Johannes Vermeer, una delle tredici opere d’arte rubate nel 1990 all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. E chi meglio di Allon sarebbe in grado di rintracciare il quadro prima che se ne perdano le tracce?

Con l’aiuto di un’improbabile alleata, una hacker e ladra professionista danese, Allon scopre che il dipinto è al centro di un affare illecito da un miliardo di dollari che coinvolge un uomo chiamato il Collezionista, un dirigente petrolifero che ha stretti rapporti con i più alti livelli del potere russo. Non solo, il capolavoro scomparso è il perno di una cospirazione che potrebbe precipitare il mondo in un conflitto di proporzioni apocalittiche. Ma per sventare il complotto, Allon deve portare a termine a sua volta un audace furto, un furto che potrebbe costare milioni di vite.

Elegante, meticolosamente congegnato e con un cast di personaggi indimenticabili, Il collezionista si muove rapidamente dalle suggestive calli veneziane alle coste battute dal vento della Danimarca settentrionale e al quartier generale della CIA a Langley, in Virginia, per approdare infine in Russia, in un susseguirsi di colpi di scena da cardiopalma.

LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2024
ISBN9788830593572
Il collezionista
Autore

Daniel Silva

Pluripremiato autore regolarmente ai primi posti nella New York Times Bestsellers List, ha raggiunto il successo grazie alla fortunata serie che ha come protagonista Gabriel Allon: i suoi romanzi, tra cui La spia inglese, La vedova nera, La casa delle spie, L’altra donna, La ragazza nuova, L’Ordine, La violoncellista e Ritratto di donna sconosciuta pubblicati da HarperCollins, sono entrati nelle classifiche dei libri più venduti nel mondo e sono stati tradotti in oltre trenta lingue. Vive in Florida con la moglie, la giornalista televisiva Jamie Gangel, e i due figli Lily e Nicholas.

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    Anteprima del libro

    Il collezionista - Daniel Silva

    PARTE PRIMA

    IL CONCERTO

    1

    Amalfi

    Era possibile, avrebbe detto quel giorno stesso Sofia Ravello ai carabinieri, trascorrere la maggior parte delle proprie ore di veglia a casa di un altro uomo, preparargli i pasti, lavargli le lenzuola e spazzargli i pavimenti e non sapere assolutamente nulla di lui. Il carabiniere, un certo Caruso, non si mostrò in disaccordo con la sua dichiarazione perché la donna che condivideva il letto con lui da venticinque anni talvolta gli risultava una perfetta sconosciuta. Inoltre, Caruso sapeva della vittima un po’ più di quanto avesse rivelato alla testimone. Quello dell’uomo era stato un omicidio annunciato.

    Eppure, Caruso pretese una dichiarazione dettagliata che Sofia fu ben felice di fornirgli. La sua giornata era iniziata come sempre all’ora terribile delle cinque del mattino, con il piagnucolio della sua antiquata sveglia digitale. Siccome la sera precedente aveva lavorato fino a tardi – il suo capo aveva avuto ospiti – si era concessa quindici minuti di sonno in più prima di alzarsi dal letto. Si era preparata un caffè con la moka Bialetti, poi si era fatta una doccia e aveva indossato la sua divisa nera, chiedendosi per tutto il tempo com’era possibile che lei, un’attraente ventiquattrenne laureatasi alla prestigiosa università di Bologna, facesse la domestica nella casa di un ricco straniero invece che lavorare in un ufficio elegante di un grattacielo di Milano.

    La risposta era che l’economia italiana, secondo molti l’ottava al mondo per importanza, era nella morsa di una disoccupazione cronicamente alta che in pratica non lasciava ai giovani e alle persone istruite altra scelta che andare all’estero in cerca di lavoro. Sofia, tuttavia, era determinata a restare nella natia Campania anche se ciò aveva significato accettare un impiego ben al di sotto del suo titolo di studio. Il ricco straniero la pagava bene – in effetti, guadagnava più di molti dei suoi amici dei tempi dell’università – e il lavoro di certo non le spezzava la schiena. In genere, passava una parte non trascurabile della sua giornata a fissare le acque verdazzurre del mar Tirreno o i quadri della splendida collezione d’arte del suo capo.

    Il suo minuscolo appartamento era in un palazzo decrepito in via delle Cartiere, nella zona alta della cittadina di Amalfi. Da lì, per raggiungere Palazzo Van Damme, con quel nome altisonante, bisognava fare una passeggiata di venti minuti con l’aroma dei limoni nell’aria. Come buona parte delle tenute sulla Costiera amalfitana, era nascosto dietro un alto muro. Sofia aveva digitato il codice d’accesso sul tastierino e il cancello si era aperto. All’ingresso della villa vera e propria c’era una seconda pulsantiera con un diverso codice d’accesso. Solitamente, il sistema d’allarme emetteva un trillo stridulo quando Sofia apriva la porta, ma quella mattina era rimasto muto. Sul momento, non le era parso strano. Il signor Van Damme a volte trascurava di attivare l’allarme prima di andare a letto.

    Sofia era andata direttamente in cucina e si era data da fare con la prima incombenza della giornata, ovvero la preparazione della colazione del signor Van Damme: una moka, un bricco di latte bollente, una zuccheriera, pane tostato con burro e confettura di fragole. Una volta sistemato tutto su un vassoio, alle sette in punto l’aveva posato davanti alla porta della sua camera da letto. No, aveva spiegato ai carabinieri, non era entrata nella stanza. E non aveva bussato. Quell’errore lo aveva commesso una volta sola. Il signor Van Damme era un uomo preciso che pretendeva altrettanta precisione dai suoi dipendenti. Bussare inutilmente alle porte veniva disincentivato, a maggior ragione se si trattava della porta della sua camera da letto.

    Era una delle tante regole e dei tanti editti che quell’uomo aveva trasmesso a Sofia al termine del colloquio di un’ora svoltosi nel suo sontuoso ufficio prima che lei venisse assunta. Si era descritto come un businessman (pronunciato biznizman) di successo. Il palazzo, le aveva detto, fungeva tanto da sua residenza primaria quanto da centro nevralgico della sua impresa globale. Dunque, aveva bisogno di una dimora che funzionasse a dovere, senza rumori e interruzioni non necessari, oltre che di lealtà e discrezione da parte di chi lavorava per lui. I pettegolezzi sui suoi affari o sul contenuto della sua casa avrebbero portato a un licenziamento immediato.

    Sofia aveva impiegato poco a capire che il suo capo era il titolare di una compagnia di navigazione con sede alle Bahamas chiamata LVD Marine Transport: LVD era l’acronimo del suo nome completo, ovvero Lukas van Damme. Aveva, inoltre, dedotto che era un cittadino sudafricano fuggito dalla sua patria dopo la fine dell’apartheid. Aveva una figlia a Londra, una ex moglie a Toronto e una donna brasiliana, una certa Serafina, che di quando in quando passava a fargli visita. Per il resto, sembrava libero da legami umani. I suoi quadri erano tutto ciò che gli importasse, tele appese in ogni stanza e in ogni corridoio della villa. Ecco spiegati le telecamere e i rilevatori di movimento, gli esasperanti test settimanali dell’allarme e le regole ferree sui pettegolezzi e sulle interruzioni indesiderate.

    L’inviolabilità del suo ufficio era di importanza suprema. A Sofia era consentito entrare nella stanza soltanto quando il signor Van Damme era presente. E non avrebbe mai, mai dovuto aprire la porta se era chiusa. Si era intromessa nella sua privacy solo una volta, per quanto non per colpa sua. Era successo sei mesi prima, quando un uomo proveniente dal Sudafrica aveva alloggiato presso la villa. Il signor Van Damme le aveva chiesto di fargli avere nel suo ufficio uno snack a base di tè e biscotti e, quando Sofia era arrivata, la porta era socchiusa. Era stato allora che aveva scoperto l’esistenza della camera segreta, quella dietro la libreria semovente. Quella in cui il signor Van Damme e il suo amico sudafricano stavano in quel momento discutendo di qualcosa nella loro strana lingua madre.

    Sofia non aveva detto a nessuno – meno che mai al signor Van Damme – ciò che aveva visto quel giorno. Tuttavia, aveva avviato un’indagine privata sul datore di lavoro, un’indagine condotta essenzialmente dall’interno della sua cittadella sul mare. Le prove di cui disponeva, basate in larga parte sull’osservazione clandestina del soggetto, avevano portato Sofia a varie conclusioni, ovvero che Lukas van Damme non era il brillante uomo d’affari che sosteneva di essere, che la sua compagnia di navigazione non era certo lecita, che i suoi erano soldi sporchi, che aveva legami con il crimine organizzato in Italia e che nascondeva qualcosa del suo passato.

    Sofia non nutriva gli stessi sospetti sull’ospite che era venuta alla villa la sera prima, la donna attraente dai capelli corvini, tra i trenta e i quarant’anni, in cui il signor Van Damme si era imbattuto un pomeriggio sulla terrazza-bar dell’Hotel Santa Caterina e alla quale aveva concesso una rara visita guidata della sua collezione d’arte. In seguito, avevano cenato a lume di candela sulla terrazza con vista sul mare. Stavano finendo quel che rimaneva del vino, quando Sofia e il resto del personale avevano lasciato la villa, alle dieci e mezza. Sofia aveva ipotizzato che la donna in quel momento fosse al piano di sopra, nel letto del signor Van Damme.

    Sulla terrazza avevano lasciato gli avanzi della cena: qualche piatto sporco, due bicchieri di vino chiazzati di rosso granato, nessuno dei quali mostrava tracce di rossetto, cosa che Sofia aveva trovato insolita. Non c’era nient’altro fuori dall’ordinario, a eccezione della porta aperta al pianoterra della villa. Il probabile colpevole, aveva sospettato Sofia, era il signor Van Damme stesso.

    Lei aveva lavato e asciugato con cura le stoviglie – un semplice alone su un utensile era motivo di rimprovero – e, alle otto in punto, era salita al piano di sopra per prelevare il vassoio della colazione davanti alla porta del signor Van Damme. Era stato allora che aveva notato che non era stata toccata. Un’anomalia per lui, avrebbe detto ai carabinieri, ma non senza precedenti.

    Eppure, quando alle nove aveva trovato il vassoio ancora intonso, Sofia si era preoccupata. E, una volta fattesi le dieci senza la minima indicazione che il signor Van Damme fosse sveglio, la sua preoccupazione si era trasformata in timore. A quell’ora, erano arrivati due membri del personale: Marco Mazzetti, lo chef di lunga data della villa, e il giardiniere, Gaspare Bianchi.

    Entrambi avevano convenuto che la donna attraente che aveva cenato alla villa la sera prima era la spiegazione più probabile del mancato risveglio del signor Van Damme alla solita ora. Pertanto, da maschi quali erano, le avevano consigliato solennemente di attendere mezzogiorno prima di fare qualsiasi passo.

    E, così, Sofia Ravello, ventiquattro anni, laureata all’università di Bologna, aveva preso in mano il secchio e lo straccio e aveva sottoposto i pavimenti della villa alla loro bella strigliata quotidiana, cosa che, a sua volta, le aveva dato l’opportunità di passare in rassegna i quadri e gli altri oggetti d’arte della straordinaria collezione del signor Van Damme. Non c’era nulla fuori posto, nulla che mancasse, nessun segno che si fosse verificato qualcosa di sconveniente.

    Nulla tranne il vassoio intonso della colazione.

    A mezzogiorno, era ancora lì. Il primo colpo di Sofia sulla porta era stato leggero e non aveva avuto risposta. I successivi colpi secchi dati con il fianco del pugno avevano ottenuto il medesimo risultato. Alla fine, aveva afferrato la maniglia e aperto lentamente la porta. La telefonata alla polizia era stata superflua. Il suo urlo, avrebbe detto in seguito Marco Mazzetti, si era udito da Salerno a Positano.

    2

    Cannaregio

    «Dove sei?»

    «Se non sbaglio, sono seduto accanto a mia moglie nel Campo del Ghetto nuovo.»

    «Non fisicamente, caro.» Lei gli premette un dito contro la fronte. «Qui.»

    «Stavo pensando.»

    «A cosa?»

    «A niente.»

    «Non è possibile.»

    «Da dove ti è venuta un’idea simile?»

    Era un’abilità peculiare affinata da Gabriel in giovinezza, quella di silenziare tutti i pensieri e i ricordi per creare un universo privato, senza suoni, luci o altri abitanti. Era lì, nell’ambiente vuoto del suo subconscio, che gli erano apparsi quadri finiti, di fattura straordinaria, di approccio rivoluzionario e totalmente privi dell’influenza prepotente di sua madre. Non doveva far altro che destarsi dalla sua trance e trasferire prontamente le immagini sulla tela prima che svanissero. Ultimamente, aveva riacquistato la capacità di schiarirsi la mente dallo scompiglio sensoriale e, con essa, la maestria di produrre opere originali soddisfacenti. Il corpo di Chiara, con le sue numerose forme e curve, era il suo soggetto preferito.

    In quel momento, premeva con forza contro il suo. Il pomeriggio si era rinfrescato e un vento di tempesta imperversava intorno al perimetro del campo. Lui indossava un soprabito di lana per la prima volta dopo molti mesi. La giacca elegante di pelle scamosciata di Chiara e la sua sciarpa di ciniglia erano inadatte a quelle condizioni atmosferiche.

    «Di certo, devi aver pensato a qualcosa» insistette.

    «Forse, non è il caso che io lo dica ad alta voce. I vecchi potrebbero non riaversi mai.»

    La panchina su cui erano seduti distava pochi passi dall’ingresso della Casa di riposo israelitica, una struttura per membri anziani della sempre più ridotta comunità ebraica di Venezia.

    «Il nostro recapito futuro» sottolineò Chiara, trascinando la punta dell’indice lungo la tempia di Gabriel, tra i suoi capelli biondo platino. Erano più lunghi di quanto li avesse mai avuti da molti anni a quella parte. «Uno di noi prima dell’altra.»

    «Verrai a trovarmi?»

    «Ogni giorno.»

    «E loro?»

    Gabriel puntò lo sguardo verso il centro dell’ampia piazza, dove Irene e Raphael erano impegnati in un’aspra contesa di qualche genere con diversi bambini del sestiere. Le palazzine di appartamenti alle loro spalle, le più alte di Venezia, erano inondate dalla luce ocra bruciata del sole calante.

    «Quale diavolo è il senso del gioco?» chiese Chiara.

    «Mi stavo facendo la stessa domanda.»

    Al cuore della competizione c’erano una palla e l’antica sommità del pozzo del campo, ma, per il resto, le sue regole e le sue segnature erano indecifrabili a un non partecipante. Irene sembrava aggrappata a un vantaggio risicato, anche se suo fratello gemello aveva messo in piedi un contrattacco furioso insieme agli altri giocatori. Il ragazzino aveva la disgrazia di essere nato con la faccia di Gabriel e i suoi occhi insolitamente verdi. Aveva pure una predisposizione per la matematica e di recente gli era stato affiancato un insegnante privato. Irene, che preoccupata dal cambiamento climatico temeva che Venezia sarebbe presto stata inghiottita dal mare, aveva deciso che Raphael dovesse usare i suoi talenti per salvare il pianeta. Doveva ancora scegliere una carriera per sé. Per il momento, non c’era nulla che le piacesse maggiormente che tormentare suo padre.

    Un calcio spedì la palla vagante verso la porta di ingresso della Casa. Gabriel si alzò frettolosamente in piedi e, con un abile tocco, la rimise in gioco. Poi, dopo aver ringraziato con un cenno una sentinella dei carabinieri armata di tutto punto per l’apatico applauso, si voltò verso i sette pannelli di bassorilievi del memoriale dell’Olocausto del ghetto. Era dedicato ai 243 ebrei veneziani – tra cui ventinove ospiti del convalescenziario – arrestati nel dicembre del 1943, internati nei campi di concentramento e, in seguito, deportati ad Auschwitz. A essi si era aggiunto Adolfo Ottolenghi, il rabbino capo di Venezia, assassinato nel settembre del 1944.

    L’attuale leader della comunità ebraica, il rabbino Jacob Zolli, era un discendente di quegli ebrei sefarditi andalusi che erano stati espulsi della Spagna nel 1492. Sua figlia in quel momento era seduta su una panchina nel Campo del Ghetto nuovo, da dove teneva d’occhio i suoi due bambini. Al pari del famoso genero del rabbino, anche lei era un’ex agente dei servizi segreti israeliani, sebbene ora ricoprisse la carica di direttrice generale della Tiepolo Restauri, la società più importante del settore in tutto il Veneto. Gabriel, un restauratore d’arte di fama internazionale, era il direttore della sezione Dipinti della società. Il che significava che, a tutti gli effetti, lavorava per sua moglie.

    «E adesso a cosa pensi?» gli chiese.

    Gabriel si stava domandando, non per la prima volta, se sua madre aveva notato l’arrivo di diverse migliaia di ebrei italiani ad Auschwitz nel terribile autunno del 1943. Al pari di molti sopravvissuti ai campi, si era rifiutata di parlare dell’incubo in cui era stata gettata. Nonostante ciò, aveva documentato la sua esperienza annotandola in alcune pagine di carta velina in seguito affidate all’archivio dello Yad Vashem. Tormentata dal passato – e da un persistente senso di colpa per essere sopravvissuta –, non era stata in grado di mostrare al suo unico figlio un affetto genuino nel timore che lui le potesse essere strappato. Gli aveva trasmesso la sua abilità nel dipingere, il suo accento berlinese e, forse, un briciolo del suo coraggio fisico. E poi lo aveva abbandonato. A ogni anno che passava, i ricordi che Gabriel aveva di lei si facevano sempre più vaghi. Lei era una figura lontana, davanti a un cavalletto, con una fascia all’avambraccio sinistro, sempre di schiena. Era quella la ragione per cui Gabriel si era momentaneamente staccato da sua moglie e dai suoi figli. Aveva tentato, senza successo, di vedere il volto di sua madre.

    «Stavo pensando» rispose, dando un’occhiata al suo orologio da polso, «che tra poco dobbiamo andarcene.»

    «E perderci la fine della partita? Neanche per sogno. Inoltre» aggiunse Chiara, «il concerto della tua ragazza non comincia prima delle otto.»

    Si trattava dell’annuale serata benefica in abito da sera della Venice Preservation Society, l’organizzazione senza scopi di lucro, con sede a Londra, dedicata alla custodia e al restauro della fragile arte e architettura della città. Gabriel aveva convinto la rinomata violinista svizzera Anna Rolfe, con la quale in passato aveva avuto una breve relazione sentimentale, a partecipare. La sera prima, lei aveva cenato nel lussuoso piano nobile della loggia da quattro stanze della famiglia Allon, con vista sul Canal Grande. Se non altro Gabriel era lieto per il semplice fatto che sua moglie, che con grande perizia aveva preparato e servito il pasto, avesse ripreso a parlargli.

    Lei aveva lo sguardo fisso davanti a sé, con un sorriso da Monna Lisa sul volto, quando lui tornò alla panchina. «Questo è il momento della conversazione» disse, con voce calma, «in cui dovresti ricordarmi che la violinista più famosa del mondo non è più la tua ragazza.»

    «Non pensavo che fosse necessario.»

    «Lo è.»

    «Lei no.»

    Chiara affondò l’unghia di un pollice nel dorso della mano di Gabriel. «E non sei mai stato innamorato di lei.»

    «Mai» giurò lui.

    Chiara allentò la pressione e massaggiò con delicatezza la tacca a mezzaluna sulla pelle di Gabriel. «Ha stregato i tuoi figli. Irene stamattina mi ha informata che le piacerebbe mettersi a studiare il violino.»

    «È un’ammaliatrice, la nostra Anna.»

    «È una scheggia impazzita.»

    «Sì, ma di grande talento.» Nel primo pomeriggio Gabriel aveva presenziato alle prove di Anna presso La Fenice, lo storico teatro dell’opera di Venezia. Non l’aveva mai sentita suonare così bene.

    «È buffo» disse Chiara, «ma, di persona, è bella quanto lo è sulle copertine dei suoi cd. Suppongo che i fotografi usino dei filtri speciali quando fotografano le signore anziane.»

    «Una battuta non degna di te.»

    «Mi è consentita.» Chiara emise un sospiro teatrale. «La scheggia impazzita ha stabilito il suo repertorio?»

    «La sonata n° 1 per violino di Schumann e quella in Re minore di Brahms.»

    «Brahms ti è sempre piaciuto, soprattutto il secondo movimento.»

    «A chi non piace?»

    «Suppongo che ci concederà un bis, suonandoci Il trillo del diavolo

    «Se non lo suona, è probabile che scoppi una sommossa.»

    La sonata per violino in Sol minore di Giuseppe Tartini, un brano tecnicamente impegnativo, era il cavallo di battaglia di Anna.

    «Una sonata satanica» disse Chiara. «Si può solo immaginare perché la tua ragazza sia attratta da un pezzo simile.»

    «Non crede nel diavolo. Del resto, non crede nemmeno a quella stupidaggine secondo cui Tartini avrebbe sentito il pezzo in sogno.»

    «Ma non neghi che sia la tua ragazza.»

    «Credo di essere stato alquanto chiaro al riguardo.»

    «E non sei mai stato innamorato di lei?»

    «Ti sei risposta da sola.»

    Chiara posò la testa sulla spalla di Gabriel. «E che mi dici del diavolo?»

    «Non è il mio tipo.»

    «Credi che esista?»

    «Perché farmi una domanda del genere?»

    «Potrebbe spiegare tutto il male di questo nostro mondo.»

    Si riferiva, naturalmente, alla guerra in Ucraina, ormai all’ottavo mese. Era stata l’ennesima giornata orribile. Altri missili contro obiettivi civili a Kiev. Fosse comuni con centinaia di corpi individuati nella città di Izjum.

    «Gli uomini stuprano, rubano e uccidono per loro volontà» disse Gabriel, con gli occhi fissi sul memoriale dell’Olocausto. «E molte delle peggiori atrocità nella storia dell’umanità sono state commesse da persone motivate non dalla loro devozione al Maligno bensì dalla loro fede in Dio.»

    «Come va la tua?»

    «La mia fede?» Gabriel non aggiunse altro.

    «Forse, dovresti parlare con mio padre.»

    «Parlo costantemente con tuo padre.»

    «Del nostro lavoro, dei nostri figli e della sicurezza nelle sinagoghe, ma non di Dio.»

    «Argomento successivo.»

    «A cosa stavi pensando qualche minuto fa?»

    «Stavo sognando le tue fettuccine coi funghi.»

    «Basta battute» rispose sinceramente.

    «Davvero non ti ricordi il suo volto?»

    «Alla fine. Ma non era lei.»

    «Chissà che questo non ti aiuti.»

    Dopo essersi alzata in piedi, Chiara raggiunse il centro della piazza e prese Irene per mano. Un istante dopo, la bambina era seduta sulle ginocchia del padre, con le braccia intorno al suo collo. «Cosa c’è che non va?» gli chiese, quando lui si affrettò ad asciugarsi una lacrima da una guancia.

    «Nulla» le disse. «Assolutamente nulla.»

    3

    San Polo

    Al suo ritorno sul campo di gioco, Irene era scesa al terzo posto della graduatoria. Inoltrò una protesta formale e, non avendo ottenuto la minima soddisfazione, si ritirò a bordo campo e guardò la partita dissolversi nel caos e nell’astio. Gabriel tentò di ristabilire l’ordine, ma invano: i contorni della disputa avevano una complessità arabo-israeliana. Non disponendo di una soluzione pronta, suggerì una sospensione del torneo fino al pomeriggio seguente, dato che i loro schiamazzi rischiavano di disturbare i vecchi residenti della Casa. I concorrenti accettarono e, alle quattro e mezza, la pace tornò nel Campo del Ghetto nuovo.

    Irene e Raphael, con gli zaini sulle spalle, attraversarono di corsa il ponte pedonale di legno ai margini meridionali della piazza, tallonati a un passo di distanza da Gabriel e Chiara. Qualche secolo prima, una guardia cristiana gli avrebbe forse sbarrato la strada, perché la luce si stava affievolendo e presto il ponte sarebbe stato chiuso in vista della notte. Superarono invece senza ostacoli negozi di articoli da regalo e ristoranti affollati finché non giunsero a un piccolo campo su cui si affacciavano due sinagoghe opposte. Alessia Zolli, moglie del rabbino capo, attendeva davanti alla porta aperta della Sinagoga Levantina, che serviva la comunità d’inverno. I bambini abbracciarono la nonna come se fosse da innumerevoli mesi, e non da tre brevi giorni, che non la vedevano.

    «Ricordati» spiegò Chiara «che domattina devono essere a scuola entro le otto.»

    «E dov’è la loro scuola?» chiese Alessia Zolli, con aria maliziosa. «È qui a Venezia, o da qualche parte sulla terraferma?» Guardò Gabriel e si accigliò. «È colpa tua se si comporta così.»

    «Che ho fatto stavolta?»

    «Preferirei non dirlo ad alta voce.» La donna accarezzò i capelli scuri e ribelli della figlia. «La poverina ha già patito abbastanza.»

    «Temo che la mia sofferenza sia solo iniziata.»

    Chiara baciò i bambini e si allontanò con Gabriel verso le Fondamenta di Cannaregio. Mentre attraversavano il Ponte delle Guglie, convennero che fosse il caso di fare uno spuntino. La fine del concerto era prevista per le ventidue e, a quell’ora, sarebbero andati da Cipriani per una cena formale col direttore della Venice Preservation Society e diversi donatori dalle tasche ben foderate di denaro. Chiara di recente aveva presentato al gruppo svariati progetti redditizi. Pertanto, era obbligata a partecipare alla cena, anche se ciò avrebbe implicato prolungare il contatto del marito con la sua ex amante.

    «Dove andiamo?» gli chiese.

    Il bacaro preferito di Gabriel a Venezia era All’Arco, ma si trovava nei pressi del mercato del pesce di Rialto e non restava loro molto tempo. «Che ne dici di Adagio?» buttò lì.

    «Un nome davvero infelice per un wine bar, ti pare?»

    Era in Campo dei Frari, accanto alla base del campanile. Una volta dentro, Gabriel ordinò due bicchieri di vino lombardo e un assortimento di cicchetti. L’etichetta della cucina veneta prevedeva che i piccoli, deliziosi crostini venissero consumati in piedi, ma Chiara propose di accomodarsi a un tavolo sulla piazza. L’avventore precedente si era lasciato alle spalle una copia de Il Gazzettino. Era zeppo di fotografie di gente ricca e famosa, compresa Anna Rolfe.

    «La mia prima sera da sola con mio marito dopo mesi» disse Chiara, piegando il giornale in due, «e mi tocca passarla proprio con lei

    «Era davvero necessario mettermi ulteriormente in cattiva luce con tua madre?»

    «Mia madre pensa che tu cammini sull’acqua.»

    «Solo quando c’è l’acqua alta.»

    Gabriel divorò un cicchetto coperto di cuori di carciofi e ricotta e lo innaffiò con un po’ di vino bianco. Era il suo secondo bicchiere del giorno. Come molti residenti maschi di Venezia, ne aveva consumato un’ombra con il suo caffè di metà mattinata. Nelle ultime due settimane, aveva frequentato un bar di Murano dove stava restaurando una pala d’altare dell’artista della scuola veneziana noto come il Pordenone. Nel tempo libero, si dava da fare con due commesse private, dato che lo stipendio frugale che sua moglie gli versava era insufficiente a consentirgli di mantenerne lo stile di vita raffinato.

    Lei stava valutando i cicchetti, scegliendo tra lo sgombro affumicato e il salmone. Entrambi poggiavano su una base di formaggio cremoso ed erano cosparsi di erbe fresche tagliate fini. Gabriel risolse la questione agguantando lo sgombro. Si accoppiava splendidamente con il vino lombardo secco.

    «Lo volevo io» disse Chiara, imbronciata, e fece per prendere il salmone. «Hai pensato a come reagirai stasera quando qualcuno ti chiederà se sei quel Gabriel Allon?»

    «Speravo di evitare del tutto la questione.»

    «Come?»

    «Risultando inaccessibile come sempre.»

    «Temo che non sia un’opzione praticabile, caro. È un evento sociale, il che significa che la gente si aspetterà che tu sia cordiale.»

    «Sono un iconoclasta. Ignoro le convenzioni.»

    Era pure la spia in pensione più famosa del pianeta. Si era stabilito a Venezia con l’approvazione delle autorità italiane – e dopo aver informato alcune figure chiave della cultura veneziana –, ma la sua presenza in città non era nota a tutti. Per lo più, si manteneva in un regno incerto tra il mondo manifesto e quello velato. Portava un’arma, anche in questo caso con l’approvazione della polizia italiana, e manteneva un paio di passaporti tedeschi falsi nel caso avesse avuto la necessità di viaggiare in incognito. Per il resto, si era liberato dell’armamentario della sua vita precedente. Quella serata di gala, nel bene o nel male, sarebbe stata la sua festa di coming-out, per così dire.

    «Non preoccuparti» le disse. «Sarò assolutamente delizioso.»

    «E se qualcuno chiede com’è che conosci Anna Rolfe?»

    «Fingerò un’improvvisa perdita dell’udito e mi precipiterò al gabinetto.»

    «Strategia eccellente. Ma la pianificazione operativa è sempre stata il tuo forte.» Restava un solo cicchetto. Chiara spinse leggermente il piatto verso Gabriel. «Mangialo tu. Altrimenti, non entrerò nel mio abito.»

    «Giorgio?»

    «Versace.»

    «Quant’è sconveniente?»

    «Scandaloso.»

    «È un modo per accaparrarsi i finanziamenti per i nostri progetti.»

    «Fidati di me: non è per il piacere dei donatori.»

    «Sei la figlia di un rabbino.»

    «Con un fisico da urlo.»

    «Ne so qualcosa» disse Gabriel, per poi divorare l’ultimo cicchetto.

    Quella da Campo dei Frari al loro appartamento era una piacevole camminata di dieci minuti. Nell’ampio bagno principale, Gabriel si fece una doccia veloce per poi piazzarsi di fronte al suo riflesso nello specchio.

    Giudicò soddisfacente il suo aspetto, per quanto deturpato dalla cicatrice raggrinzita e in rilievo sul lato sinistro del torace. Era grosso modo grande la metà della cicatrice corrispondente sotto la scapola sinistra. Le altre due ferite da pallottola erano guarite bene, così come i segni dei morsi che un cane tedesco gli aveva lasciato sull’avambraccio sinistro. Purtroppo, non avrebbe potuto dire altrettanto delle due vertebre fratturate nella parte bassa della schiena.

    Di fronte alla prospettiva di un concerto di due ore seguito da una cena formale con numerose portate, inghiottì una dose preventiva di Advil, prima di dirigersi alla cabina armadio. Lo smoking di Brioni, una recente aggiunta al guardaroba, era lì ad attenderlo. Al suo sarto non era parsa una cosa insolita quando gli aveva chiesto di tenerlo più largo in vita: tutti i suoi pantaloni erano confezionati in quel modo per far spazio a un’arma nascosta. La sua pistola preferita era una Beretta 92FS, un’arma piuttosto grande che pesava quasi un chilo con il caricatore pieno.

    Dopo essersi vestito, Gabriel si sistemò la pistola contro i lombi. Poi, girandosi leggermente, studiò il proprio aspetto per la seconda volta. Di nuovo, fu per lo più soddisfatto di ciò che vide. La giacca di Brioni dal taglio elegante rendeva praticamente invisibile l’arma. Inoltre, il doppio spacco alla moda avrebbe con ogni probabilità ridotto il tempo di estrazione che, nonostante le numerose lesioni da lui riportate, restava fulmineo.

    Si allacciò un orologio Patek Philippe al polso e, dopo aver spento le luci, raggiunse il salotto per attendere la comparsa di sua moglie. Sì, pensò mentre studiava l’ampia vista sul Canal Grande, era quel Gabriel Allon. Un tempo, era stato l’angelo della vendetta di Israele. Ora era il direttore della sezione Dipinti della Tiepolo Restauri. Anna era qualcuno che aveva incontrato strada facendo. A dire la verità, aveva provato ad amarla, ma non ne era stato capace. Poi, aveva incontrato una splendida, giovane donna del ghetto e quella ragazza gli aveva salvato la vita.

    Nonostante il profondo spacco sulla coscia e l’assenza di spalline, l’abito da sera nero di Versace di Chiara non era affatto scandaloso. Le sue scarpe, però, erano certamente un problema. Le Ferragamo di vernice dal tacco a spillo aggiungevano dieci desiderabili centimetri e mezzo alla sua figura già statuaria. Chiara scoccò un’occhiata fugace dall’alto in basso a Gabriel quando si avvicinarono alla torma di fotografi della stampa che si erano raccolti davanti al Teatro La Fenice.

    «Sei certo di essere pronto per tutto questo?» gli chiese con un sorriso gelido.

    «Pronto come potrò mai esserlo» rispose, mentre un fuoco di fila di intensi flash bianchi lo abbagliava.

    Passarono sotto la bandiera ucraina azzurra e gialla appesa al portico del teatro ed entrarono nel foyer affollato, con la sua Babilonia di suoni. Qualche testa si girò, ma Gabriel non fu oggetto di esami eccessivamente minuziosi. Per il momento, almeno, era un uomo di mezza età come tanti altri, di nazionalità incerta e con una splendida donna sottobraccio.

    Lei gli strizzò la mano con fare rassicurante. «Non è andata così male, vero?»

    «La notte è giovane» mormorò Gabriel,

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