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Dovrei starti lontano
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E-book441 pagine6 ore

Dovrei starti lontano

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Info su questo ebook

Reaper’s Series

Dall'autrice del bestseller Non volevo fosse amore

In qualità di presidente del Reapers Motorcycle Club, Reese “Picnic” Hayes ha dedicato tutta la sua vita al gruppo. Dopo aver perso la moglie, ha sempre pensato che non avrebbe mai più potuto amare un'altra donna. E con due figlie da crescere e un club da gestire, per lui andava benissimo così. Reese preferisce avere relazioni libere e senza complicazioni: sicuramente non vuole perdere tempo con una rispettabile donna delle pulizie come London Armstrong. Peccato che sia completamente ossessionato da lei. 
Oltre agli sforzi per stare dietro alle fatiche del suo lavoro, London deve prendersi cura dei problemi della sua famiglia allargata. Ovviamente è attratta dal capo dei Reapers, ma non è stupida: sa che Reese Hayes è un criminale e un delinquente. Ma quando sua cugina rimane invischiato con uno spietato cartello della droga, Reese potrebbe essere l'unico uomo disposto ad aiutarla. Ora London deve prendere la decisione più difficile della sua vita: fino a che punto è disposta a spingersi per salvare la sua famiglia?

Un'autrice bestseller del New York Times
LinguaItaliano
Data di uscita11 giu 2021
ISBN9788822755629
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    Anteprima del libro

    Dovrei starti lontano - Joanna Wylde

    Capitolo 1

    Diciotto giorni prima

    London

    Il mal di schiena mi stava uccidendo.

    Erano quasi le due del mattino e avevo appena finito il turno notturno di pulizia al banco dei pegni. Nei due mesi precedenti mi ero un po’ rammollita: avevo dedicato troppo tempo alla gestione degli affari e non abbastanza a lavare i bagni, e mi ero dimenticata quanto fosse faticoso strofinare un gabinetto per farlo tornare pulito.

    Strofinare gabinetti, lucidare pavimenti, spolverare e passare l’aspirapolvere: la mia impresa di pulizie London Cleaning Service faceva tutto e, nonostante non fosse l’azienda più economica della città, di sicuro era la migliore. Ne avevo la certezza perché in quel periodo rifiutavo più incarichi di quanti ne riuscivo ad accettare: grazie alla buona reputazione che mi ero faticosamente guadagnata, era facile trovare nuovi clienti. Ma, per quanto riguardava i dipendenti, non era altrettanto semplice. La maggior parte delle persone non era entusiasta di passare le nottate a pulire la sporcizia altrui e, nonostante offrissi stipendi più alti della media, venivo spesso piantata in asso.

    Come quella notte, per esempio.

    Mi aveva telefonato Anna, una delle mie caposquadra, per comunicarmi che due collaboratori non si erano presentati. La vita di una donna delle pulizie regalava sempre sorprese affascinanti, e così avevo dovuto trascorrere il venerdì sera a strofinare pipì incrostata dal pavimento di un bagno degli uomini.

    Sì, lo so… che privilegio.

    Per lo meno, di lì a poco io e la mia schiena dolorante ci saremmo potute infilare a letto.

    Accostai davanti a casa e notai una Honda Civic blu parcheggiata. Era la macchina di Mellie, la migliore amica della mia cuginetta. Deve essere venuta per passare la serata con Jessie, pensai, reprimendo un moto di irritazione. Preferivo che Jess mi avvisasse in anticipo quando invitava qualcuno; ma d’altro canto, dovevo ammettere poteva architettare cose molto peggiori di chiamare un’amica a casa il venerdì sera. Anzi, quasi tutte le alternative che mi venivano in mente erano decisamente peggiori. Dio, le volevo un bene sconfinato, ma Jessica aveva un carattere impossibile. Continuavo a ripetermi che non era tutta colpa sua; gli psicologi mi avevano detto un milione di volte che dovevo aiutarla ad affrontare i suoi limiti, perché non sarebbero semplicemente scomparsi crescendo.

    Prendere decisioni non era il suo forte.

    Secondo gli esperti, lo sviluppo di quell’area del cervello era stata compromessa dall’assidua storia d’amore tra sua madre e le droghe. Io non sapevo esattamente cosa provavo in proposito; mi rendevo conto che non era un’adolescente come gli altri, ma tutti dovevamo imparare a tirare avanti in questo mondo, ognuno con il proprio fardello, e lei ormai non era più una bambina.

    Aprii la porta di casa e trovai Mellie seduta sul divano che si abbracciava le ginocchia con gli occhi sbarrati, impugnando una Coca Light come se fosse uno scudo.

    Il mio radar materno entrò subito in azione.

    «Cos’altro ha combinato adesso?»

    «Eravamo a una festa», bisbigliò Mel. «Erano circa le dieci. Ha incontrato per caso delle ragazze che si sono diplomate un paio di anni fa, Terry Fratelli e le sue amiche, che ci hanno invitato all’Armeria, a una festa dei Reapers, il club motociclistico».

    Barcollai e mi aggrappai allo schienale della vecchia poltrona verde per sorreggermi.

    «Cazzo».

    Gli occhi di Mellie si dilatarono ancora di più: io non imprecavo mai, e lei lo sapeva.

    «E poi cos’è successo?».

    La ragazza distolse lo sguardo mordicchiandosi un labbro.

    «Mi dispiace tanto averla abbandonata», disse con il rimorso dipinto sul viso. «Ma io non volevo assolutamente andarci e lei non mi dava retta. È diventata quasi…»

    Le si spezzò la voce, ma non ebbe bisogno di proseguire: avevo già capito tutto. A Jessica piaceva prendere in giro Mel, quando lei non la seguiva come un cagnolino. Tipico di Jess. Stupida ragazzina, era un miracolo che Melanie continuasse a esserle amica, viste le stronzate che le combinava.

    «In ogni caso, aveva promesso di mandarmi dei messaggi, e io le avevo assicurato che non avrei detto niente, se si fosse tenuta in contatto. Ma intorno a mezzanotte ha smesso di farsi sentire e sono sicura che fosse ubriaca marcia. Scriveva cose senza senso. Sono preoccupata per lei, London».

    Concluse la frase tirando su col naso, e mi resi conto che era terrorizzata, povera ragazza. Mi avvicinai, mi sedetti accanto a lei e la strinsi in un abbraccio. Mel trascorreva tanto di quel tempo a casa nostra, che a volte mi sembrava una figlia.

    «Si incazzerà tantissimo quando saprà che te l’ho detto».

    «Hai fatto la cosa giusta, tesoro», replicai passandole una mano tra i capelli. «Si è comportata da bambina viziata, non avrebbe dovuto metterti in una situazione del genere».

    «Be’, il lato positivo è che mi perdonerà», mormorò Mel, tirando di nuovo su col naso. Si staccò dall’abbraccio e mi guardò con un sorriso esitante. «Mi perdona sempre».

    Ricambiai il sorriso, ma avevo dei pensieri negativi. Mel era troppo buona, a volte desideravo che piantasse in asso Jessie e si trovasse una nuova amica del cuore; ma poi mi sentivo in colpa perché, nonostante tutti i suoi problemi, Jess era la mia vita.

    «Devo andare a cercarla», dissi. «Vuoi rimanere qui o preferisci andare a casa?»

    «Mi chiedevo… potrei dormire qui stanotte?», domandò. Annuii, dato che sapevo che a casa non se la passava troppo bene; il venerdì sera la situazione tendeva a degenerare perché, soprattutto se aveva appena preso lo stipendio, suo padre esagerava con i festeggiamenti del fine settimana.

    «Ottima idea».

    Telefonai a Bolt Harrison dal furgone, in modo che Mellie non sentisse. Era lui che gestiva il banco dei pegni in cui avevo fatto le pulizie quella sera e il negozio, per una strana combinazione, apparteneva al club motociclistico dei Reapers, di cui Bolt era il vicepresidente.

    Lavoravo per loro da circa sei mesi, durante i quali erano diventati uno dei miei clienti principali, e ultimamente avevano accennato all’offerta di un altro contratto per il Line, il loro strip club. Avevamo prestato servizio al locale in un paio di occasioni in cui c’era stato bisogno di manodopera extra, e speravo vivamente che l’incarico sarebbe proseguito, sfociando in un secondo contratto. All’inizio, mi ero occupata personalmente della squadra che faceva le pulizie al banco dei pegni, ma due mesi prima avevo affidato il compito a Jason, un uomo più anziano che lavorava per me da quasi cinque anni. Era affidabile, instancabile e abilissimo nel gestire il personale.

    Il club pagava bene e soprattutto in contanti, un dettaglio da non sottovalutare. In cambio, dovevamo solo tenere la bocca chiusa su tutto ciò che vedevamo, che onestamente era molto meno sconvolgente di quanto si possa immaginare. Probabilmente le stanze sul retro del Line erano dei privé in cui lavoravano le prostitute, ma niente lasciava supporre che quelle donne fossero costrette con la forza.

    Non era compito mio dire a degli adulti consenzienti cosa fare con il proprio corpo.

    Ciò nonostante, stavo ben attenta a non portare mai nessuna delle mie dipendenti più giovani, quando lavoravo lì. Il fatto che non chiamassi la polizia non significava che non mi stesse a cuore la sorte del mio personale.

    Ad ogni modo, avevo pensato che contattare Bolt fosse la prima mossa per tirare fuori Jess dal casino in cui si era cacciata, di qualunque cosa si trattasse. Lui mi piaceva, mi faceva sentire abbastanza a mio agio, e comunque non avevo molte alternative. L’unico altro contatto che avevo era quello di Reese Hayes, il presidente del club. Quell’uomo mi spaventava a morte e non mi vergognavo di ammetterlo. C’era qualcosa in lui… il modo in cui i suoi occhi mi seguivano senza mai staccarmisi di dosso, come se volesse mangiarmi, e non durante una romantica cenetta a lume di candela con tanto di fiori. Una spruzzata di grigio sulle tempie suggeriva che fosse un po’ più vecchio di me, ma aveva il fisico di un ventenne. Non so cosa mi turbasse di più, se la sua innata capacità di incutere timore, o il fatto che, sotto sotto, quella sua caratteristica mi eccitava. Ero patetica, lo so.

    Per nessun motivo al mondo mi sarei rivolta a lui, se non fossi stata costretta.

    «Sì?», rispose Bolt, mentre in sottofondo risuonava la musica a tutto volume.

    «Salve, signor Harrison».

    «Spreco il fiato a chiederti di chiamarmi Bolt?».

    Se non fossi stata così nervosa, avrei sorriso: ripetevamo quelle stesse battute da quando ci eravamo conosciuti. I membri del club non capivano perché continuassi a essere così formale con loro, ma avevo le mie ragioni: il fatto che mi pagassero bene non significava che dovessimo diventare amici, e io preferivo mantenere le distanze.

    «Temo di sì», replicai con un tono di voce che tradiva la mia preoccupazione.

    «Che succede?», chiese cogliendo il mio stato d’animo. Bolt era così, vedeva e sentiva tutto, indipendentemente da ciò che lasciavi trapelare.

    «Ho un problema personale e spero che lei possa aiutarmi».

    Silenzio.

    Probabilmente lo avevo colto alla sprovvista, perché era la prima volta che gli chiedevo aiuto. In realtà, nell’ultimo periodo ci eravamo incrociati raramente; durante i primi mesi, ci sorvegliava come un falco, ma poi avevamo iniziato a mimetizzarci con le pareti. Nessuno presta mai attenzione agli addetti alle pulizie, ed era un aspetto che avevo sempre trovato affascinante. Non immaginereste mai quante cose avevo visto e quanti segreti avevo scoperto, svolgendo il mio lavoro.

    Doveva essere quella la ragione per cui Reese mi turbava così tanto: erano passati sei mesi, e per lui non ero ancora diventata invisibile.

    «Probabilmente lei non lo sa, ma sono la tutrice legale di mia cugina», proseguii. «Una sua amica mi ha appena detto che stasera è venuta a una festa nella sede del vostro club. Sono preoccupata per lei. È una bravissima ragazza, ma fare la scelta giusta non è il suo forte. Potrebbe aiutarmi a rintracciarla?».

    Ancora silenzio. Provai imbarazzo quando mi resi conto di averlo appena insultato insinuando che le voci che circolavano sulle feste del club, anche se nessuno voleva ammetterlo e tutti evitavano di parlarne, fossero fondate. Il sottotesto era che l’Armeria non fosse un luogo sicuro per una ragazza e che non ci si potesse fidare dei Reapers.

    «È adulta?»

    «Ha diciotto anni, ma si è diplomata appena due settimane fa ed è un po’ indietro per la sua età».

    Bolt sbuffò.

    «Odio dovertelo dire, tesoro, ma è grande abbastanza per decidere da sola a quali feste andare».

    Ora era il mio turno di rimanere in silenzio. Avevo un sacco di cose da dire: Jess poteva anche essere abbastanza grande da decidere a quali feste andare, ma di sicuro non lo era abbastanza per bere alcol, e loro si sarebbero potuti trovare in un mare di guai per averglielo procurato. Certo, per quanto ne sapevo io anche i poliziotti potevano trovarsi alla festa del club… Ma tenni la bocca chiusa, perché avevo imparato molto tempo prima che, di fronte a un silenzio prolungato, la gente prima o poi parla per cercare di riempirlo.

    «Okay», disse infine lui. «Ho capito dove vuoi arrivare. Non sono lì adesso, ma Pic sì».

    Accidenti. Pic era l’abbreviazione di Picnic, il soprannome di Reese. Non avevo idea del perché lo chiamassero in quel modo, col cavolo che lo avevo chiesto, ma, tra tutte le persone che avevo incontrato in vita mia, lui era quella che meno avrei associato a un pranzo sull’erba.

    «Vai all’Armeria e chiedi di lui. Digli che ti mando io e che si tratta di un favore personale. Magari la ritraccerà per te, o magari no. Come ho già detto, è un’adulta. Conosci la strada?»

    «Certo».

    Rise, perché tutti a Coeur d’Alene sapevano dove si trovava l’Armeria.

    «Grazie, signor Harrison», dissi rapidamente, riattaccando prima che avesse il tempo di cambiare idea. Poi girai la chiave nel quadro d’accensione e il furgone si accese con un rombo, insieme alla spia del motore, che mi perseguitava già da qualche settimana. Avevo fatto controllare il veicolo e avevo scelto di ignorarla, dal momento che non avevo i soldi per far riparare quello stupido catorcio. D’altra parte, se era in grado di muoversi, non era davvero rotto; o almeno, questa era la mia teoria.

    Inserii la retromarcia e uscii dal vialetto. Oh, Jessie mi avrebbe odiata: la zia London che correva a salvarla su un furgoncino con il logo dell’impresa di pulizie sulla fiancata.

    Ah-a. Neanche fosse stata la prima volta.

    La sede del club dei Reapers si trovava a circa quindici chilometri a nord-est di Coeur d’Alene, in una strada privata che si snodava serpeggiando tra le colline ricoperte da una fitta boscaglia. Non c’ero mai stata, anche se quando avevo iniziato a lavorare al banco dei pegni avevo ricevuto un paio di inviti alle loro feste, che avevo rifiutato con gentilezza, dato che preferivo mantenere le distanze. Avevo chiuso con la vita sociale da quando Joe, il mio ex marito, mi aveva lasciata. Non lo biasimavo per averlo fatto: aveva messo in chiaro fin dall’inizio che non voleva bambini per casa. Ma quando, circa sei anni prima, Amber aveva rischiato di morire di overdose ero stata costretta a scegliere tra lui e Jessie, perché la situazione era diventata insostenibile. Avevo deciso senza esitazione, e il divorzio era stato abbastanza amichevole.

    Ciò nonostante, avevo avuto bisogno di un po’ di tempo per leccarmi le ferite, dopodiché ero stata talmente presa a mettere su la mia impresa e a crescere mia cugina che non avevo neanche provato a uscire con qualcuno, finché qualche mese prima non avevo incontrato Nate. In notti come quella, mi domandavo se ne era valsa la pena passare tutti quegli anni da sola. E non perché Jess fosse una cattiva ragazza, semplicemente non riusciva a comprendere che le sue azioni avevano sempre delle conseguenze, e forse non sarebbe mai stata in grado di farlo.

    Quando accostai fuori dall’Armeria, erano quasi le tre del mattino. Non sapevo cosa immaginarmi della sede dei Reapers, cioè, sapevo che era un vecchio edificio della Guardia Nazionale, ma nella mia mente non avevo collegato quel pensiero a una fortezza. Invece, in sostanza, si trattava proprio di quello: una grossa costruzione solida di almeno tre piani, con finestre strette e il tetto circondato da parapetti. In uno dei muri laterali si apriva un cancello che conduceva a quello che aveva tutto l’aspetto di un cortile sul retro.

    Esattamente di fronte alla facciata principale si stagliava una fila di moto, a cui facevano la guardia due giovani con indosso quell’inconfondibile gilet di pelle che da anni mi capitava di vedere in giro per la città. Sulla destra si trovava un parcheggio di ghiaia con un bel po’ di macchine posteggiate; mi fermai in fondo alla fila e spensi il motore.

    Mi venne in mente che stavo per imbucarmi a una festa dopo aver fatto le pulizie per sei ore. Perfetto. Dovevo avere l’aspetto di una matta appena scappata da un manicomio. Abbassai il parasole per guardarmi nello specchio: come previsto, i miei capelli biondi erano tutti spettinati e sul viso era sparita ogni traccia di trucco. Va be’… Non era la prima volta che per correre dietro a Jess mi trascinavo in giro quando le uniche cose di cui avrei avuto bisogno erano una doccia e un letto. Eppure darle la caccia non mi aveva mai condotto in un luogo minaccioso come quello.

    Scesi dal furgone e mi incamminai verso l’ingresso principale, mentre uno dei ragazzi attraversava lo spiazzo di ghiaia per venirmi incontro. Lo squadrai con un’occhiata e mi sentii vecchia. Doveva avere al massimo vent’anni e la barba incolta che portava con orgoglio evidente gli ricopriva a malapena le guance; non era muscoloso come il suo amico che presidiava la porta, ma piuttosto magro e spigoloso.

    «Sei qui per la festa?», chiese esaminandomi con aria scettica. Come dargli torto: forse i miei jeans strappati non davano troppo nell’occhio, ma la canottierina che indossavo aveva visto giorni migliori e la bandana che mi teneva indietro i capelli era macchiata di sudore. Probabilmente sul viso avevo persino delle strisce scure di sporcizia che non ero riuscita a vedere alla debole luce dell’auto, troppo fioca per metterle in risalto.

    Ah, e ho già detto che mi sentivo vecchia? Con i miei trentotto anni, ero quasi certa che avrei potuto essere la madre di quel ragazzino.

    E lui non mi piaceva per niente, decisi.

    «No, sono qui per parlare con il signor Hayes», risposi con gentilezza. «Il signor Harrison mi ha suggerito di venire a cercarlo qui».

    Mi rivolse uno sguardo inespressivo.

    «Non ho la più pallida idea di cosa stai dicendo», disse infine quel marmocchio gigante mascherato da adulto, poi si voltò e gridò al suo amico: «BB, tu sai chi è il signor Hayes?».

    BB avanzò lentamente verso di noi come un orso, con i capelli lunghi raccolti in una treccia che gli penzolava sulla schiena. Sembrava più vecchio dell’altro, anche se non di molto. Santo cielo, erano solo due bambini, sospirai. Bambini pericolosi, ricordai a me stessa spostando lo sguardo sulle catene che portavano appese ai pantaloni e sugli anelli massicci che decoravano le loro dita, che altro non erano se non dei tirapugni.

    «È Picnic, coglione», replicò BB guardandomi con disapprovazione. «Perché lo chiami signor Hayes? Hai dei documenti da notificargli? Lui non è qui».

    Scossi la testa, desiderando che si trattasse di una faccenda così semplice.

    «Lo chiamo così perché lavoro per lui», spiegai mantenendo un tono pratico e calmo. «Sono la proprietaria della London Cleaning Service, e la mia azienda presta servizio in alcune delle vostre attività. Il signor Harrison mi ha mandato qui a cercare il signor Hayes».

    «L’ha mandata Bolt», fece BB al compagno più piccolo, poi mi rivolse un cenno di assenso. «Ti accompagno dentro, vediamo se riusciamo a trovarlo».

    «Grazie».

    Feci un respiro profondo e mi preparai psicologicamente a seguirlo; avevo sentito tante di quelle storie su quel posto, che non sapevo cosa aspettarmi di preciso. A dar retta alle voci, l’Armeria era un mix tra un bordello, un’arena da combattimento sotterranea, e un deposito con stanze strapiene fino al soffitto di merci rubate. Insomma, c’era chi la definiva un covo di pirati e chi uno di spacciatori, ma tutti concordavano nel sostenere si trattasse di un luogo pericoloso.

    BB aprì la porta, io lo seguii all’interno e per la prima volta ebbi la possibilità di vedere la sede del club con i miei occhi.

    Be’.

    I pettegolezzi sugli oggetti rubati erano senz’altro falsi perché, se avessero arredato quel posto con roba fregata in giro, avrebbero certamente scelto mobili migliori di quelli che mi trovavo davanti. La stanza era ampia e sembrava estendersi dall’ingresso, posizionato al centro, fino a occupare tutta la parte anteriore dell’edificio. In fondo a destra c’era un bar, lungo le pareti erano allineati vecchi divani e sedie di seconda mano e il centro della sala era occupato da alcuni tavoli malconci tutti diversi tra loro. A sinistra c’erano un tavolo da biliardo, un bersaglio per le freccette e un jukebox che, se non aveva quarant’anni, era una gran bella riproduzione. Il posto non era sporco, ma tutto logoro e consunto.

    La cosa buffa era che, guardandomi intorno, il mio primo pensiero fu che ero troppo vestita. Nel vero senso della parola. Avevo troppa stoffa addosso.

    Davveeeero troppa.

    Il look delle donne spaziava dal nudo completo all’abbigliamento casual con jeans aderenti e canottierine scollate, mentre io davo nell’occhio come… be’, come un’addetta alle pulizie a una festa di motociclisti. La metà degli uomini aveva una ragazza in braccio, parzialmente o totalmente svestita, e in un angolo scorsi addirittura una coppia che pareva fare sesso. Sbirciai meglio con la coda dell’occhio. Quei due stavano senza ombra di dubbio facendo sesso. Che schifo… Ma allo stesso tempo era anche stranamente affascinante… Dovetti costringermi a distogliere lo sguardo, sperando con tutta me stessa di non essere arrossita come una ragazzina.

    Hai trentotto anni e sai come nascono i bambini, ricordai a me stessa con fermezza. Solo perché tu non fai sesso non significa che anche gli altri debbano astenersi.

    La gente iniziò a notarmi, e gli sguardi di quegli omoni pieni di tatuaggi che indossavano gilet di pelle con i colori dei Reapers mostravano una gamma di emozioni che andava dalla genuina curiosità all’aperto sospetto. Merda. C’era un malinteso. Bolt mi aveva mandato lì, ma non significava fosse un luogo sicuro, né tantomeno una buona idea. Bolt non era mio amico. Certo, probabilmente mi apprezzava dal punto di vista professionale, ma non doveva essere molto diverso dal modo in cui il club apprezzava le spogliarelliste, e di sicuro non gli impediva di licenziarle in tronco quando lasciavano che i loro problemi personali si ripercuotessero sul lavoro.

    Dacci un taglio.

    Feci un altro respiro profondo e rivolsi un sorriso smagliante a BB, che per tutto quel tempo mi aveva fissato con aria ansiosa, come se si aspettasse che mi dessi alla fuga o che so io. Ma non ero una cacasotto, e il fatto che non dicessi parolacce per scelta non voleva dire fossi all’oscuro del significato del termine.

    Alzai lo sguardo e vidi un uomo alto con folti capelli mossi che gli arrivavano alle spalle e una barba incolta che gli copriva il viso. Anche lui indossava uno di quei gilet con le toppe; su una c’era scritto il suo nome, Gage, e su un’altra, appena sotto la prima, sgt. at arms. Non lo avevo mai visto al negozio, ma quello non dimostrava niente, dato che noi cominciavamo a lavorare dopo l’orario di chiusura.

    «Dice che è qui per vedere Pic», disse BB. «La manda Bolt».

    «È vero?», mi chiese lui, facendo scorrere uno sguardo inquisitorio lungo tutta la mia figura mentre io mi sforzavo di sorridergli.

    «Sto cercando la figlia di mia cugina», spiegai. «A quanto pare, è venuta alla festa con degli amici. Il signor Harrison ha suggerito che forse il signor Hayes potrebbe aiutarmi a trovarla».

    L’uomo sogghignò.

    «Davvero? Pensa un po’».

    Non ero sicura di come avrei dovuto interpretare le sue parole, perciò decisi di prenderle alla lettera e mi imposi di aspettare che continuasse.

    «Torna fuori, BB», disse al ragazzo. «Ci penso io a lei. Sei la donna delle pulizie, vero?».

    Abbassai lo sguardo sui miei vestiti sporchi.

    «Come hai fatto a capirlo?», gli chiesi in tono asciutto. Lui rise, e la tensione che provavo si allentò un po’.

    «Io sono Gage. Vediamo se riusciamo a trovare Pic».

    «Odio doverlo disturbare», dissi velocemente. «Cioè, se in questo momento è impegnato… Tu sei uno degli ufficiali del club, magari potresti aiutarmi tu».

    Sollevò un sopracciglio.

    «Bolt ti ha mandato a parlare con Picnic, no?».

    Annuii, domandandomi se avessi commesso un errore. Ben fatto, London. Vediamo se riesci a inimicarti anche l’unica persona che si è offerta di darti una mano.

    «Allora è con lui che devi parlare».

    Gli sorrisi di nuovo, mentre tra me e me mi chiedevo se avesse notato quanto quel sorriso fosse vicino a incrinarsi per lo sforzo. Si girò e io lo seguii attraverso la sala, evitando di incrociare lo sguardo dei presenti; alcuni sembravano interessati a me, ma la maggior parte della gente era troppo impegnata a bere, chiacchierare e intrattenersi in attività ancora più intime, per prestare attenzione a una donna sporca e scarmigliata.

    Al centro della parete di fondo si apriva un corridoio che si addentrava nell’edificio. Gage iniziò a percorrerlo e io lo seguii, mentre il mio nervosismo aumentava. Era stato già abbastanza brutto entrare all’Armeria, ma inoltrarsi lì dentro era ancora peggio, perché mi dava l’idea di aver oltrepassato il punto di non ritorno – di certo, ci eravamo lasciati alle spalle tutti i possibili testimoni.

    Davanti a noi si aprì una porta, da cui uscirono sghignazzando due ragazze. Jessica? No, ma riconobbi una delle due.

    «Kimberly Jordan, tua madre sa che sei qui?», chiesi, e la mia voce fendette l’aria come una frusta.

    Tutti i presenti si immobilizzarono, compreso Gage.

    Kim mi fissò con gli occhi sbarrati.

    «N-no», rispose gettando occhiate tutt’intorno, come se temesse che sua madre potesse saltare fuori dal nulla e prendersela con lei. Bene, magari quello l’avrebbe fatta riflettere.

    «Vuoi parlare con il presidente o no?», domandò Gage con voce fredda. «Devi scegliere quale battaglia combattere, piccola. Vuoi lei o la figlia di tua cugina?».

    Deglutii, rendendomi conto che, con ogni probabilità, la Voce da Genitore Autorevole non era particolarmente apprezzata in quel posto.

    «Sono qui per Jessica», ribattei, e lui mi sorrise mostrando i denti bianchi e splendenti nella luce fioca.

    «Perfetto, allora lascia stare queste ragazze, okay? Voi due, fuori di qui».

    Non se lo fecero ripetere e si allontanarono rapidamente bisbigliando, con gli occhi elettrizzati e pieni di eccitazione.

    «Vi capita spesso di offrire da bere a ragazze che non hanno ancora l’età legale per farlo?», domandai senza riuscire a far finta di niente.

    «Non diamo da bere a nessuno che non abbia l’età», ribatté in tono piatto. Alzai un sopracciglio, contestando quella cavolata senza parlare, e lui sogghignò. «Vorresti guardarmi negli occhi e dirmi che tu non ti sei mai fatta un drink prima di compiere ventun anni?».

    Sospirai. Ma certo che me l’ero fatto. E mica solo uno, me ne ero fatta un sacco e non ero diventata un’alcolizzata, né ero rimasta incinta, né mi era successo niente di orribile.

    La moglie del presidente Reagan si era sbagliata, con la sua campagna Basta dire di no, almeno per quanto mi riguardava. Amber, invece, probabilmente avrebbe dovuto seguire il consiglio della First Lady.

    «Possiamo semplicemente darci una mossa?».

    Gage scosse la testa senza neanche preoccuparsi di nascondere il proprio divertimento, poi fece un passo avanti e bussò a un’anonima porta alla nostra sinistra.

    «Pic? Sei occupato?».

    Reese

    Ero seduto sul divano del mio ufficio, domandandomi perché non me ne fregasse niente della bella ragazza che mi stava succhiando l’uccello. Certo, un bel pompino fatto bene mi piaceva, come piaceva a qualunque altro uomo, ma quella notte non mi sentivo coinvolto, non riuscivo a concentrarmi. Ed era un peccato, perché la bambola in ginocchio tra le mie gambe aveva una bocca che sembrava un aspirapolvere e un senso del pudore davvero scarso. Era la nuova star del Line e i ragazzi l’avevano portata lì quella notte solo per me.

    Era il mio regalo di compleanno.

    Compivo quarantatré anni, cazzo.

    Le sue dita si insinuarono più in basso, accarezzandomi la parte inferiore delle palle con un tocco leggero, mentre con la lingua mi leccava tutt’intorno alla cappella. Allungai una mano per prendere la birra e ne bevvi un sorso lungo e lento. Mentre il liquido freddo mi scivolava giù per la gola, decisi che non me ne fregava un cazzo se lei avesse o meno finito il servizietto.

    Mi sembrava di sentire Heather che mi sussurrava nell’orecchio: Voglio che tu sia felice, tesoro, ma meriti di meglio…

    Sentivo la sua voce dal giorno in cui era morta. Cristo, mi mancava quella donna, e avrei tanto desiderato che quei bisbigli non fossero soltanto opera del mio subconscio, ma sapevo che si trattava solo di fantasie perché, se lo spirito di Heather fosse stato davvero lì con me a guidarmi e darmi consigli, il rapporto con le mie figlie non sarebbe andato a puttane fino a quel punto.

    Il mio sguardo si posò sull’archivio di metallo nero dall’altro lato della stanza, su cui era appoggiata una fotografia in una cornice d’argento annerito. La mia signora. Era stata scattata durante una delle ultime feste in famiglia, quando lei si era appena ripresa dalla mastectomia, ma prima dell’ultimo ciclo di chemioterapia. Con le braccia cingeva le nostre due bellissime figlie, mentre tutte e tre ridevano per qualcosa che si trovava fuori dall’inquadratura.

    La donna-aspirapolvere scelse proprio quell’istante per succhiarmelo tutto fino in fondo alla gola e io chiusi gli occhi. Cavolo, Bolt mi aveva detto che faceva pompini come una professionista, ma non le aveva reso giustizia: quella ragazza aveva un vero e proprio dono. Riusciva a mettersi in bocca fino all’ultimo centimetro, e io non ce l’avevo piccolo. Gemetti e lasciai cadere la testa all’indietro.

    Perché ogni volta mi sembrava ancora di tradire Heather?

    L’aspirapolvere alzò il capo con una risatina fastidiosa e io aprii la bocca per dirle di tacere, ma ricominciò a succhiarmelo prima che ne avessi la possibilità. Merda, era piacevole. La noia scomparve e lasciò il posto a quella lucidità che si impossessava di me solo durante il sesso o un bel combattimento. Il mio corpo stava da dio e la mia mente fluttuava, beatamente distaccata dal mondo, senza che i sensi di colpa nei confronti di Heather, le preoccupazioni a proposito del club e nemmeno il pensiero delle mie figlie potessero sfiorarmi.

    Mi sentivo una macchina, libero e potente.

    Il mio telefono vibrò sul divano e quando abbassai lo sguardo vidi che avevo ricevuto un messaggio.

    bolt: Ti diverti alla festa? Ti ho mandato un altro regalo, cerca di non romperlo.

    Spostai gli occhi sulla chioma castana che andava su e giù all’altezza del mio bacino e mi resi conto che la mia vita poteva anche non essere perfetta, ma di sicuro i miei amici si prendevano cura di me. Se esisteva un dio in paradiso, probabilmente stavo per incontrare la sorella gemella di quella troietta.

    Qualcuno bussò forte alla porta.

    «Pic? Sei occupato?», fece Gage. «Hai compagnia, te la manda Bolt».

    Con una mano afferrai la spogliarellista per i capelli, in modo da farle rallentare il ritmo.

    «Falla entrare».

    La porta si aprì e una biondina tutta curve con addosso una maglietta sporca e un paio di jeans strappati entrò nella stanza con passo malfermo e sbarrò gli occhi non appena vide la scena. Un bel paio di tette abbondanti riempivano il top, su cui campeggiava la scritta London Cleaning Service.

    ’Fanculo. ’fanculo.

    Quel bastardo testa di cazzo. L’avrei fatta pagare a Bolt, perché London Armstrong era l’ultima donna al mondo che avrebbe dovuto mettere piede in quell’edificio. Quella stronza e il suo splendido davanzale avevano reso la mia esistenza un inferno negli ultimi sei mesi, dal momento che lei era la cosa di cui avevo meno bisogno e allo stesso tempo la persona che mi sarei voluto scopare di più in tutta la mia vita.

    Persino più di Heather.

    E quello era un problema.

    Non aveva importanza quanto sarebbe stato bello vedere le tette di London stringermi il cazzo fino a farmi venire sul suo grazioso visino, perché lei era troppo gentile, troppo pulita e decisamente troppo adulta. La signora Armstrong era una cittadina in regola che rigava dritto e viveva onestamente, perciò non c’era posto per lei nel mio mondo. Sarebbe scappata gridando nel cuore della notte, se le avessi mostrato chi ero veramente.

    A peggiorare ulteriormente la situazione, lei mi piaceva anche come persona.

    L’aspirapolvere emise un improvviso verso strozzato, e mi resi conto che le avevo bloccato la testa impedendole di respirare. La lasciai andare e lei balzò all’indietro e mi osservò con sguardo confuso, ansimando con la bocca rossa e bagnata. Le diedi delle pacche sulla testa per rassicurarla, come se fosse stata un cane. Cristo.

    Ma che cazzo aveva in testa Bolt, per mandare London da me? Inspirai profondamente perché la donna, che mi stava fissando dall’altro capo dell’ufficio come se fossi un assassino con un’ascia, sembrava sul punto di voltarsi e darsi alla fuga tra le colline.

    Se lo avesse fatto, avrei voluto rincorrerla… acchiapparla, strapparle di dosso i jeans e ficcarglielo tutto dentro mentre mi gridava contro. Già, uno scenario del genere non era poi così male.

    ’Fanculo.

    Erano sei mesi che mi facevo le seghe immaginando le sue tette, ma avevo scelto di fare la cosa giusta e l’avevo lasciata in pace. Non era colpa mia se era venuta nel mio ufficio e di certo non era mia responsabilità salvarla, ora che era lì. In un nuovo impeto di lucidità, decisi che c’era solo un modo per risolvere la situazione.

    Le rivolsi un sorriso da predatore e sollevai una mano per farle segno di avvicinarsi al divano.

    E buon compleanno a me.

    Capitolo 2

    London

    Non mi ero mai considerata una puritana, ma mi ero decisamente sbagliata, lo ero eccome, perché non fui nemmeno in grado di classificare la scena che mi si parò davanti agli occhi quando attraversai quella porta. Non so perché rimasi tanto scioccata, non è che non avessi visto le coppie che lo facevano davanti a tutti nell’altra stanza, e di certo un ufficio privato come quello era il luogo ideale per un pompino veloce… Ma quando Reese Hayes aveva detto di essere occupato, lo avevo immaginato impegnato in qualche losca attività legata al club.

    Tipo il riciclaggio di denaro sporco o roba del genere.

    Poi lui mi sorrise, il classico sorriso che uno squalo rivolgeva a un naufrago prima di staccargli

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