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Droga, set e setting
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E-book502 pagine7 ore

Droga, set e setting

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Le droghe sono davvero incontrollabili e il loro uso porta necessariamente a un destino di dipendenza? Questo dicono paradigmi e credenze dominanti. Negli anni Settanta, Norman Zinberg libera il suo sguardo di clinico e di ricercatore e legge i consumi di droghe da una diversa prospettiva: comportamenti umani connotati da intenzioni, apprendimenti, culture. E scopre che, come avviene per l’alcol, anche per le sostanze illegali la produzione e la diffusione di norme e rituali sociali consente alla maggioranza dei consumatori di usare in modo controllato, compatibile con la propria vita sociale.
In questo libro, divenuto un “classico” della letteratura sulle droghe, l’autore focalizza i fattori del set e del setting, ridimensionando la centralità fino ad allora attribuita alla sostanza, e apre una prospettiva verso un’interpretazione libera da pregiudizi e stigmi.
Una prospettiva più che mai attuale, vista la diffusa normalizzazione dell’uso di sostanze psicoattive, e che rappresenta un’opportunità particolarmente utile per ripensare i modelli culturali e operativi dei servizi e per rispondere alla sfida posta dai cambiamenti in atto.
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2020
ISBN9788865792216
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    Anteprima del libro

    Droga, set e setting - Norman E. Zinberg

    Norman E. Zinberg

    Droga, set e setting

    Le basi del consumo controllato

    di sostanze psicoattive

    introduzione di Grazia Zuffa

    postfazione di Stefano Vecchio e Susanna Ronconi

    traduzione di Susanna Ronconi

    Pubblicazione in accordo con Yale University Press

    Copyright © 1984 by Yale University

    Originally published by Yale University Press

    Progetto editoriale a cura di

    Forum Droghe, Cnca e Associazione Gruppo Abele

    in collaborazione con il Dipartimento Dipendenze Asl Na1 centro

    Edizioni Gruppo Abele

    © 2019 Associazione Gruppo Abele Onlus

    corso Trapani 95 - 10141 Torino

    tel. 011 3859500

    www.edizionigruppoabele.it

    edizioni@gruppoabele.org

    isbn 9788865792216

    In copertina fotografia di Laura Carletti

    Il libro

    Le droghe sono davvero incontrollabili e il loro uso porta necessariamente a un destino di dipendenza? Questo dicono paradigmi e credenze dominanti. Negli anni Settanta, Norman Zinberg libera il suo sguardo di clinico e di ricercatore e legge i consumi di droghe da una diversa prospettiva: comportamenti umani connotati da intenzioni, apprendimenti, culture. E scopre che, come avviene per l’alcol, anche per le sostanze illegali la produzione e la diffusione di norme e rituali sociali consente alla maggioranza dei consumatori di usare in modo controllato, compatibile con la propria vita sociale.

    In questo libro, divenuto un classico della letteratura sulle droghe, l’autore focalizza i fattori del set e del setting, ridimensionando la centralità fino ad allora attribuita alla sostanza, e apre una prospettiva verso un’interpretazione libera da pregiudizi e stigmi.

    Una prospettiva più che mai attuale, vista la diffusa normalizzazione dell’uso di sostanze psicoattive, e che rappresenta un’opportunità particolarmente utile per ripensare i modelli culturali e operativi dei servizi e per rispondere alla sfida posta dai cambiamenti in atto.

    Gli autori/le autrici

    Norman E. Zinberg psichiatra, professore alla Harvard Medical School, dopo anni di esperienza clinica nel campo dell’uso di droga, intraprende una serie di studi sui consumatori di eroina, marijuana, Lsd e altri psichedelici, con un modello di consumo non-dipendente. Su questa base, elabora una teoria dell’apprendimento sociale del controllo sui consumi. Il suo lavoro ha dato impulso al ricco filone di studi internazionali nei setting naturali per approfondire i meccanismi psicosociali di regolazione del consumo. La sua opera principale è Drug, set, and setting (Yale University, 1984).

    Susanna Ronconi, dagli anni Novanta ha lavorato nella Riduzione del Danno (RdD), oggi svolge attività di ricerca e formazione nei campi delle dipendenze, delle marginalità sociali e del carcere. Ha partecipato al Tavolo interministeriale per le Linee guida sulla RdD nel 2000, oggi fa parte del Gruppo regionale piemontese sulla RdD. Dal 1996 è attiva in Forum Droghe, che rappresenta al Civil Society Forum on Drugs presso la Commissione Europea.

    Stefano Vecchio, psichiatra, Direttore del Dipartimento Dipendenze della Asl Na1 centro organizzato secondo la prospettiva della Riduzione del Danno (RdD). Ha partecipato alla Commissione nazionale per la stesura delle prime linee guida sulla RdD. è stato tra i promotori di Itardd la Rete italiana della Riduzione del Danno, ed è Presidente di Forum Droghe.

    Grazia Zuffa, psicologa, svolge ricerca nel campo dell’uso di droghe, della salute mentale, del carcere, con lo sguardo rivolto alla differenza femminile. Negli anni Novanta ha fondato Forum Droghe e diretto fino al 2010 la rivista Fuoriluogo. è presidente della Società della Ragione, associazione per la tutela dei diritti nell’ambito della giustizia e del carcere. Dal 2007 fa parte del Comitato Nazionale di Bioetica.

    Indice

    Introduzione all’edizione italiana

    Come si diventa consumatori controllati, attualità di un pensiero eccentrico

    di Grazia Zuffa

    Prefazione

    I. La prospettiva storica del consumo controllato di droghe

    II. Dipendenza, abuso e uso controllato di droghe: qualche definizione

    III. La metodologia della ricerca e i dati

    IV. I risultati della ricerca: l’inizio e gli effetti del consumo di droghe

    V. I risultati della ricerca: rituali, norme e controllo dell’uso di droga

    VI. Personalità e apprendimento sociale: la teoria del consumo controllato di droghe

    VII. Riflessioni su politica sociale e ricerca sulle droghe

    Appendice A

    Traccia dell’intervista iniziale

    Appendice B

    Traccia della seconda intervista

    Appendice C

    Un’analisi della ricerca precedente

    Ringraziamenti

    Postfazione

    Da Zinberg a noi

    di Stefano Vecchio e Susanna Ronconi

    Bibliografia

    Introduzione all’edizione italiana

    Come si diventa consumatori controllati,

    attualità di un pensiero eccentrico

    di Grazia Zuffa

    Perché proporre oggi ai lettori e alle lettrici italiane il testo di Norman Zinberg, pubblicato dalla casa editrice dell’università di Yale nel lontano 1984? Un libro che, sebbene possa essere considerato un classico poiché getta le fondamenta della prospettiva dell’apprendimento sociale nel campo dell’uso di droga, si basa su ricerche circa l’uso non-dipendente di marijuana, eroina, psichedelici che risalgono a quegli anni?

    La risposta più ovvia può essere: per colmare una grave lacuna culturale. È singolare che un libro che ha ispirato tanta ricerca psicosociale sull’uso di droga nei setting naturali, in America e in Nord Europa, non sia mai stato tradotto in italiano. Del resto, anche importanti studi sui modelli di consumo di cocaina in particolare, portati avanti in Olanda e Belgio, rispettivamente da Peter Cohen e Tom Decorte – pubblicati in lingua inglese – non sono ancora accessibili al largo pubblico italiano. In questa prospettiva, l’indifferenza all’opera di Zinberg acquista il sapore di una più profonda resistenza a cogliere l’originalità del tipo di ricerca proposta e discussa nel libro e il carattere rivoluzionario – si può ben dire – della cornice teorica che da quegli studi prende corpo. E infatti i primi studi condotti in Italia sulla linea di ricerca indicata da Zinberg risalgono a soli dieci anni fa¹. Giancarlo Arnao è stato uno dei pochi a leggerlo e ad apprezzarlo a suo tempo e infatti lo cita spesso nei suoi libri.

    Possiamo formulare una risposta meno ovvia, riflettendo sul titolo del libro, che bene ne racchiude il significato controcorrente. Droga, set e setting. Le basi del consumo controllato di sostanze psicoattive. Per spiegare l’uso di droga, l’autore statunitense propone un modello a tre fattori: droga, set (ovvero la psicologia del consumatore), setting (ovvero il contesto fisico e socio-ambientale del consumo). Zinberg arriva a formulare il ruolo del set e del setting a partire dall’ipotesi (confermata dalle ricerche esposte nel volume e da altre precedenti) che per le droghe illegali – così come per l’alcol – esista una pluralità di modelli di consumo, e non il modello unico della dipendenza. Le caratteristiche chimiche additive delle sostanze (il fattore droga) non sono evidentemente in grado di spiegare perché e come le persone possano utilizzare le sostanze in maniera controllata (diversamente dalla modalità intensiva-compulsiva della dipendenza); di conseguenza, i fattori che danno conto del controllo vanno ricercati altrove, nella psicologia del consumatore (stati d’animo, motivazioni, aspettative) e, soprattutto, nel setting: le regole sociali informali grazie alle quali le persone imparano a governare le droghe, invece che esserne governate.

    Da qui l’importanza di sviluppare la ricerca sui modelli d’uso non-dipendenti, per capire, dal racconto stesso dei consumatori, come funziona il controllo all’interno della loro esperienza di vita complessiva; e, strettamente correlata ai risultati degli studi, la critica a quello che Zinberg definisce il farmacocentrismo della ricerca tradizionale sulla droga, che influenza notevolmente il sentire comune.

    Set e setting sono dunque le variabili del controllo, che offrono la cornice teorica per spiegare l’uso di droga in chiave squisitamente psicosociale. Come dire: consumatori controllati si diventa, attraverso un’opera di regolazione sociale. Perché da sempre le società umane hanno sviluppato norme e rituali per addomesticare le (proprietà farmacologiche delle) sostanze psicoattive, in modo da godere delle loro proprietà inebrianti e contenere al tempo stesso gli inconvenienti dell’eccesso: assegnando all’uso di sostanze psicoattive un significato e un posto nel fluire della vita quotidiana, ma al contempo, attraverso le prescrizioni sociali (social sanctions) informali, stabilendo i limiti di compatibilità (da non valicare) fra l’alterazione della mente e le attività che fondano l’identità personale e sociale del consumatore (relazioni, lavoro etc.).

    Il set e soprattutto il setting sono la base della teoria dell’apprendimento sociale del controllo. Le stesse che la addiction theory non tiene presente, centrata com’è sulla droga come fattore patogeno nello sviluppo della malattia della dipendenza.

    Per tornare alle ragioni della (ri)proposizione di questo testo. Che ne è del modello "Droga, set, setting" a distanza di oltre trent’anni dalla sua uscita? Nei tanti convegni di operatori delle dipendenze cui mi capita di partecipare, è quasi d’obbligo che i relatori inizino la loro presentazione in Power Point citando il modello a tre variabili, ma in una prospettiva teorica assolutamente rovesciata. Set e setting si sono capovolti da controlli (sul potere additivo delle droghe), in fattori di rischio (individuale e ambientale) di sviluppo della dipendenza (convenzionalmente intesa come non-controllo sulla droga). In altre parole i fattori psicologici e ambientali sono stati assorbiti nel modello medico bio-psico-sociale, applicato alla particolare malattia della dipendenza. Dunque, l’uso controllato e soprattutto il fatto che da esso si possano desumere i controlli come cornice concettuale per l’interpretazione dell’uso di droga, appaiono ancora oggi dissonanti nel pensiero corrente sulla droga, tuttora dominato dall’approccio patologico.

    Ricollocare il set e il setting al posto originario di basi della teo­ria dell’apprendimento sociale del controllo: ecco un motivo non banale per leggere o rileggere oggi il testo di Zinberg. Cercando di coglierne i punti più attuali rispetto all’evoluzione dei consumi e alla percezione sociale dei cambiamenti; con lo sguardo rivolto anche ad altri paradigmi di interpretazione dell’uso di droga, specificamente la addiction theory o modello disease, e alla critica puntuale che il libro offre.

    Fra normalizzazione dei consumi e rilancio della dipendenza come brain disease

    Si è accennato alla percezione sociale circa i consumi di droga. La questione dell’invisibilità sociale dei differenti modelli di consumo è centrale in Zinberg. I modelli d’uso controllato sono i più invisibili, in ragione dello status di illegalità delle droghe: proprio i consumatori non intensivi, che mantengono una rete di relazioni e di impegni sociali significativi, hanno tutto da guadagnare a tenere nascosto il loro comportamento illegale. Tuttavia, proprio ai tempi in cui scrive Zinberg, il velo dell’invisibilità comincia a squarciarsi: la marijuana diventa una sostanza molto diffusa nella generazione dei giovani americani degli anni Sessanta, usata nella grande maggioranza dei casi in maniera controllata. Inizia da qui, dai consumi giovanili di cannabis, negli Stati Uniti ma anche in Europa, il processo di normalizzazione delle droghe illegali. Il concetto di normalizzazione ha molti risvolti; per quanto qui ci interessa, è importante il significato di allineamento fra sostanze legali (l’alcol) e sostanze illegali: diventa evidente agli occhi di tutti che la marijuana è usata perlopiù in modalità moderata/controllata, in maniera simile a quanto accade per le bevande alcoliche.

    L’emergere dei consumi di sostanze psicoattive nella cultura corrente è fondamentale, sia per consentire la larga circolazione dei controlli sociali (rituali e prescrizioni), sia per sostenere nel senso comune la convinzione che usare droga senza esserne posseduti si può, in totale contrasto con la vulgata proibizionista: convinzione utile a rinforzare i consumatori nelle loro abilità di controllo, così come a rendere più accettabile all’opinione pubblica in senso lato (ivi compresa parte del mondo accademico e dei policy maker) una teoria tanto eccentrica. Quanto Zinberg fosse consapevole di questa eccentricità lo dimostrano le lucide pagine in cui affronta i risvolti etici della ricerca sulle droghe e risponde all’obiezione di chi considera lo studio dell’uso controllato come una forma di incentivo ai consumi (argomentazione squisitamente ideologico-proibizionista, non del tutto accantonata perfino ai giorni nostri).

    Bene, la normalizzazione così come sopra intesa è avanzata a grandi passi dai tempi di Zinberg, non solo per la cannabis. Anche per altre sostanze più dure, come la cocaina, è diffusa la convinzione che possa essere usata in maniera controllata. Quanto ai consumatori di eroina, l’uso controllato è ancora ben nascosto e probabilmente vale ancora la ragione addotta da Zinberg: il desiderio di evitare lo stigma di devianza particolarmente legato agli oppiacei, la volontà di prendere le distanze dallo stile tossico che segna l’immagine sociale dell’eroina. I mutamenti sono noti anche agli operatori dei servizi, che sempre più spesso parlano di nuovi consumi e di nuove droghe, intendendo con ciò consumi non identificabili nella classica dipendenza.

    Da dove origina allora la resistenza a trarre le conseguenze teo­riche che Zinberg delinea, lasciando da parte il paradigma patologico? Da dove trae forza il persistente farmacocentrismo?

    Per rispondere a questa seconda domanda, bisogna alzare lo sguardo a tendenze socioculturali più generali, a fenomeni quali la crescente patologizzazione della vita quotidiana (basti pensare al rigonfiamento dell’ultima edizione del Dsm – il più autorevole manuale diagnostico psichiatrico esistente – con una varietà di nuovi disturbi e disordini); e la riduzione alla spiegazione biologica (con conseguente risposta farmacologica) di molti dei nuovi disturbi (si pensi alla controversa disforia di genere, o alla sindrome da deficit di attenzione – Adhd per i bambini iperattivi, trattati col Ritalin). Per non parlare del ruolo delle nuove tecnologie, come il brain imaging, che, applicato nel campo delle droghe, sostiene la più recente versione della teoria dell’addiction in chiave neuroscientifica, come malattia del cervello.

    Oggi, nelle assise di formazione degli operatori non manca mai una presentazione di immagini grafiche in 3D del cervello, in cui le colorazioni anomale sono presentate come evidenze inconfutabili dell’alterazione cerebrale indotta dalla dipendenza. Peter Cohen, in un puntuale saggio pubblicato in italiano nel 2010, dimostra come le nozioni di dipendenza, trasformate nel linguaggio della neurologia da scienziati quali Nora Volkow, siano completamente tautologiche; e come il processo neurologico della dipendenza, scoperto e convalidato tramite il brain imaging, sia tanto scientifico quanto il lavoro di Cesare Lombroso². Un filone, quello della brain disease, assolutamente sterile in campo applicativo, tanto che alle persone che entrano in trattamento non risulta venga mai fatta una diagnosi di dipendenza tramite una tecnica di neuro-imaging, a dispetto della frequenza delle immagini di cervelli in 3D nei workshop di formazione per operatori.

    Il respiro ampio della riflessione di Zinberg ci aiuta a capire molti di questi problemi. L’autore, in contrasto con la semplificazione cara ai giorni nostri, invita ad assumere uno sguardo multiplo sì da cogliere le connessioni fra il discorso scientifico, gli atteggiamenti sociali, gli orientamenti politici, la storia delle (differenti) culture della droga. In questa prospettiva, la scarsa consistenza scientifica della addiction theory, nella sua più recente versione di malattia del cervello, appare compensata dal suo carattere politically correct, nella sua funzionalità socioculturale di supporto della proibizione. In risposta alla normalizzazione dei consumi (non a caso bollata dall’establishment come banalizzazione), la brain disease ribadisce la riprovazione dell’uso di droga e rilancia la cultura dell’astinenza, col formidabile supporto dell’autorità della scienza.

    Al tempo di Zinberg, non si parlava di brain disease, e la spiegazione patologica del consumo che imperversava era in chiave psicoanalitica. Ma il commento dell’autore risuona tuttora illuminante: «la visione che il consumo di sostanze psicoattive dipenda solo dalla droga o da disturbi di personalità può sembrare attraente per coloro che accettano la condanna morale della società… ma per gli esperti usare la teoria psicoanalitica per veicolare questa visione sarebbe una diminuzione dei loro obiettivi clinici e teorici».

    Contro il mito della irreversibilità della dipendenza

    Quanti dimostrano interesse per la ricerca sull’uso controllato ma dubitano della sua utilità nella cura dei consumatori incontrollati (dipendenti) potranno trovare molti argomenti per ricredersi leggendo la Postfazione di Susanna Ronconi e Stefano Vecchio, che bene illustrano la fertilità della prospettiva dei controlli applicata ai modelli operativi dei servizi. In primis però raccomando la lettura della Prefazione del libro. Norman Zinberg, medico psichiatra e psicoanalista, racconta il suo approdo allo studio sui controlli a partire dalla sua ventennale pratica clinica con le persone che usano droga e dall’insoddisfazione per gli strumenti concettuali della sua formazione. Solo dopo un lungo periodo di studi e riflessione, scrive Zinberg, «compresi che per capire come e perché certi consumatori perdono il controllo, avrei dovuto affrontare la questione cruciale del come e perché molti altri riescono a raggiungerlo e a mantenerlo».

    Questo passaggio preannuncia, in maniera semplice e incisiva, il nocciolo teorico del libro e prefigura le ricadute operative. Dai consumatori controllati si possono trarre indicazioni fondamentali sui consumatori incontrollati perché il controllo è un meccanismo di regolazione dell’uso di droga che sta in un continuum, modulato com’è da diverse variabili, psicologiche, ambientali, temporali. Il controllo non può essere ridotto a (permanenti) capacità individuali di dominare la sostanza, così come il consumo incontrollato non può essere ridotto a (permanente) incapacità individuale di esercitare il controllo. Decade perciò la rappresentazione tradizionale della dipendenza come irreversibile incapacità di controllare la droga (una volta dipendente, sempre dipendente); e perde di significato la relativa contrapposizione "consumatore controllato versus consumatore dipendente". Perché il controllo può affievolirsi, ma non può mai essere assente. E infatti, la scoperta più interessante delle ricerche sui controlli è la grande variabilità nel tempo dei modelli di consumo: spesso i consumatori attraversano periodi in cui il controllo pare sfuggire, ma riescono poi a riconquistarlo in presenza di varie circostanze e condizioni. Né va dimenticato che le forme del controllo sono molteplici e sono presenti in diverse modalità in tutti i modelli di consumo, anche quelli intensivi: illuminanti le riflessioni di Zinberg sui consumi di eroina e lo stile additivo, così come, una decina d’anni dopo, le ricerche sui consumatori intensivi di eroina/cocaina sulla scena della droga di Amsterdam³. Sviluppare un modello di intervento capace di comprendere la complessa interazione fra le variabili del controllo, in modo da supportare le abilità della persona di stare sopra la droga quando queste abilità si affievoliscono: è la nuova sfida dell’innovazione per i servizi. Per orientare il cambiamento delle pratiche, il libro di Zinberg è attuale oggi allo stesso modo di quando fu scritto.

    Mi sia permesso un esempio, a dimostrazione di quanto appena detto. Sempre più spesso, si sente parlare di policonsumatori in maniera allarmistica, come se il policonsumo fosse una novità. Osservo intanto la povertà esplicativa del termine, in chiave puramente cumulativa, che pare alludere a un’indifferenziata compulsione nell’intossicazione fine a sé stessa. Consiglio di meditare i passaggi in cui Zinberg descrive il comportamento di un policonsumatore che si fa un drink per rilassarsi nella pausa dal lavoro, poi sniffa un po’ di cocaina per tirarsi su e tornare all’opera; e quando alla fine torna a casa, non si fa mancare una canna per facilitare il sonno. Questa raffinata regolazione al bilancino delle droghe illecite assomiglia molto – osserva l’autore – a quella che gli psichiatri adottano in campo psicofarmacologico, per curare ad esempio disturbi misti, come ansietà, depressione, paranoia. Il bilanciamento farmacologico, da pratica medica è transitato nella cultura e nel sapere diffuso, di cui si avvalgono anche i consumatori di droghe. Anzi, questi molto potrebbero insegnare in questo campo, a partire da ciò che imparano dalle loro pratiche.

    Ma le Cassandre del policonsumo non se ne accorgono, perché sfugge loro una lezione fondamentale: per capire l’uso di droga, bisogna considerare non solo gli svantaggi, ma anche «i benefici dell’uso di droga in sé e anche dei differenti modelli d’uso». Con queste parole, non a caso, si chiude il libro.

    1 Si tratta di studi sul consumo controllato di cocaina in Toscana e in Piemonte. Cfr. G. Zuffa (a cura di), Cocaina. Il consumo controllato, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2010.

    2 P. Cohen (2010), L’imperatrice nuda. Le neuroscienze moderne e il concetto di dipendenza, in Cocaina. Il consumo controllato, cit., pp. 223-244.

    3 Cfr. J.P. Grund, C. Kaplan, M. De Vries, Rituals of regulation: controlled and uncontrolled use in natural settings, in N. Heather, A. Wodak, E. Nadelmann, P. O’Hare (a cura di). Psychoactive drugs and harm reduction: from faith to science. Whurr Publishers, London, 1993, pp. 77-90.

    Prefazione

    Lo sguardo sul consumo di droghe illegali proposto in questo libro è andato sviluppandosi gradualmente in vent’anni di esperienza clinica con i consumatori. Inizialmente ero concentrato, come la gran parte delle persone, sull’abuso di droghe, cioè sulla perdita del controllo da parte dei consumatori sulla droga o sulle droghe che stavano usando. Solo dopo un lungo periodo di ricerca clinica, di studi storici e di riflessione sono arrivato a pensare che per capire come e perché alcuni consumatori perdessero il controllo avrei dovuto affrontare la questione cruciale di come e perché molti altri riuscissero ad avere un controllo e a mantenerlo.

    Il flusso di riflessioni che ha dato vita alla scrittura di questo libro si è messo in moto nel 1962. A quel tempo, dopo un decennio di insegnamento di psicologia medica a medici non psichiatri presso il Beth Israel Hospital di Boston, passato andando con loro ogni settimana a visitare cliniche pubbliche e private, ho cominciato a farmi delle domande sulla estrema riluttanza di questi medici sensibili a prescrivere dosi di oppiacei per alleviare il dolore. Questa loro riluttanza, basata sul timore di provocare dipendenza nei pazienti, era sorprendentemente tenace, anche quando si trattava di un paziente terminale. Così, in collaborazione con David C. Lewis, in seguito diventato aiuto primario di medicina al Beth Hospital, ho cominciato a fare uno studio su questo fenomeno. Dopo aver esaminato i dati clinici e analizzato la storia dell’uso di droga, è emersa un’immagine che ben poco assomigliava a quella che avevamo visto alla scuola di medicina.

    Avendo trovato una scarsa evidenza a sostegno della grande preoccupazione dei nostri medici circa una dipendenza iatrogena, fatta eccezione per un gruppo di pazienti particolarmente difficili, ci siamo rivolti alla storia delle droghe, alla ricerca di una spiegazione. E qui abbiamo trovato molte ragioni per questa preoccupazione, sotto il profilo medico, nei confronti degli oppiacei. Un ampio insieme di atteggiamenti sociali e culturali tradizionali verso l’uso di oppiacei era stato evidentemente interiorizzato dai nostri medici, e stava dominando i loro pensieri e il loro agire, generando paure che minavano la loro capacità di dare sollievo al dolore. Inoltre, gli atteggiamenti dei medici non solo determinavano la loro propensione a prescrivere o non prescrivere oppiacei, ma influenzavano anche gli effetti che questi farmaci avevano sui loro pazienti. Questo è stato il mio primo impatto con il potere di ciò che in questo libro viene definito il contesto sociale, che modifica i comportamenti e che detta le reazioni di chi consuma droghe.

    Non avevo in programma di continuare a studiare le droghe dopo la fine dell’esperienza al Beth Hospital, ma è accaduto che due articoli sul nostro lavoro (Zinberg & Lewis 1964; Lewis & Zinberg 1964) venissero pubblicati proprio nel momento del massimo interesse ai temi del consumo di droghe. Molti medici, confusi dalle nuove abitudini di consumare sostanze psichedeliche e stimolanti, riportate dai loro pazienti (o dai loro genitori), cercavano uno psichiatra che fosse esperto in questo campo. Alcuni hanno cominciato a inviarmi i loro pazienti, anche quando si trattava di marijuana o di psichedelici più che di oppiacei.

    Mano a mano che la mia esperienza clinica con i consumatori di droghe cresceva, diventavo sempre più consapevole del fatto che lo sguardo tradizionale sulla marijuana e sulle sostanze psichedeliche era anche più approssimativo di quello sugli oppiacei. Nel caso della marijuana, continuamente rilevavo che la convinzione che il suo uso comportasse la distruzione del normale funzionamento della personalità e un danno a un’ampia gamma di processi fisiologici, era fondata su errori e fraintendimenti. Fa sorridere oggi, che circa cinquantasette milioni di americani hanno provato la marijuana (Linner & Associates 1983), ricordare che meno di due decenni fa la gran parte dei cittadini informati credeva che qualsiasi tipo di consumo di marijuana avrebbe ridotto il cervello in pappa.

    Alcune delle mie dichiarazioni pubbliche su questi temi sono state condivise con un collega e amico, Andrew T. Weil. Alla fine del 1967, durante il quarto anno dei suoi studi in medicina a Harvard, Weil ha deciso che, se le nostre affermazioni volevano essere credibili, avevamo bisogno di dati sperimentali. E ha proposto che facessimo un esperimento con la marijuana, adottando con rigore una metodologia scientifica in cui né i ricercatori né i soggetti sapessero se la sostanza usata era attiva o era un placebo. In prima battuta abbiamo dovuto capire se la marijuana era stata farmacologicamente standardizzata e se c’erano ostacoli di natura legale che impedivano di usarla in modo sperimentale con gli esseri umani.

    Questi due obiettivi hanno talmente occupato i nostri pensieri che studiare come i consumatori sviluppavano un controllo sul loro consumo di droghe è apparso un obiettivo lontano anni luce. A quel tempo, l’idea di somministrare marijuana a un essere umano, specialmente se non aveva alcuna precedente esperienza, sembrava una sfida enorme, e il nostro timore che questo esperimento potesse sembrare troppo azzardato si è dimostrato fondato. Chiedere l’autorizzazione al Bureau of Narcotics and Dangerous Drugs (Bndd), alla Food and Drugs Adiministration (Fda) e al National Institute of Mental Health (Nimh), tutti che rivendicavano competenza in questo campo, è stata una fatica di Ercole. Weil, che conduceva l’esperimento per la sua tesi, aveva più tempo di me per scrivere tonnellate di lettere in risposta alle domande pedanti di queste agenzie, e anche per fare molti viaggi a Washington, ma tutti e due abbiamo fatto innumerevoli telefonate per sbrogliare l’assurda matassa dei rapporti gerarchici tra le diverse agenzie, finché, alla fine, abbiamo ottenuto i permessi.

    Le autorità hanno deciso che i nostri soggetti dovessero essere accompagnati nei nostri esperimenti, sia in ingresso che in uscita; che dovessero promettere di non toccare alcun macchinario, elettrico o di qualsiasi altro tipo, per ventiquattro ore dopo aver usato marijuana; e che firmassero una complicata dichiarazione di consenso informato, inclusa la garanzia a vita che non avrebbero sporto denuncia in caso fossero diventati dipendenti.

    Ma nemmeno queste rigide precondizioni soddisfacevano l’Università di Harvard. Il Comitato esecutivo della Harvard Medical School ha rifiutato il permesso su suggerimento del suo consulente legale, che al telefono mi ha detto: «Ho esaminato con attenzione la proposta e non ho trovato nulla di specificamente illegale. Comunque ho anche ascoltato la mia coscienza, e ho deciso che dovevo raccomandare che Harvard non vi autorizzasse a dare una droga così pericolosa a degli esseri umani».

    Il dottor Robert Ebert, allora rettore della Harvard Medical School, era a disagio per questa decisione. Così, quando il dottor Peter Knapp, direttore della ricerca in psichiatria alla Boston University Medical School, con generosità e coraggio ha trovato il modo di farci fare il nostro lavoro sotto sua tutela, Ebert ha messo a disposizione la consulenza legale a spese di Harvard, per far fronte ai problemi che fossero eventualmente sorti nel soddisfare le richieste delle agenzie governative e ottenere un adeguato consenso informato.

    Gli esperimenti, che hanno avuto luogo l’anno successivo (1968), si sono svolti senza difficoltà e con tranquillità, soprattutto grazie ai consigli attenti del dottor Knapp e al sostegno della sua brava assistente di laboratorio, Judith Nelsen. Nessuno dei nostri soggetti, esperto o neofita che fosse, ha avuto problemi a causa dell’esperimento, e noi abbiamo imparato qualcosa sull’effetto dell’intossicazione acuta da marijuana sulle diverse funzioni fisiche e psicologiche. Pensavo allora, e penso anche oggi, che il principale esito di questi primi esperimenti controllati di somministrazione a degli esseri umani di una sostanza illegale così ampiamente stigmatizzata, è stato quello di dimostrare che esperimenti di questo tipo potevano essere condotti in piena sicurezza (Weil, Zinberg & Nelsen 1968).

    L’anno seguente (1968-69) sono stato invitato a tenere una conferenza alla London School of Economics, e nello stesso tempo ho ricevuto un premio Guggenheim per studiare il sistema britannico di mantenimento con eroina (Zinberg & Robertson 1972). Sono stato abbastanza fortunato da arrivare in Inghilterra nel luglio del 1968, quando gli inglesi stavano cominciando a inviare i dipendenti da eroina in cliniche specializzate invece di lasciare che fossero medici privati a prescrivere l’eroina, un cambiamento che facilitava molto la mia ricerca. Ho scoperto che in Gran Bretagna c’erano due tipi di dipendenti, entrambi diversi da quelli americani: i primi avevano un funzionamento sociale adeguato, anche di successo, i secondi risultavano anche più debilitati dei tossicodipendenti americani. Ma, sebbene coloro che appartenevano a questo secondo gruppo si comportassero in modo incontrollato e si procurassero un gran danno, non erano – come gli alcolisti americani – causa di tensione, di crimini o di isteria sociale.

    Gradualmente sono giunto alla conclusione che le differenze tra i dipendenti britannici e quelli americani erano da attribuire ai loro differenti contesti sociali – cioè, ai diversi atteggiamenti sociali e ai diversi contesti legali riguardanti l’eroina nei due paesi. In Inghilterra, dove l’uso di eroina non era illegale ed era possibile rispondere legalmente ai bisogni delle persone dipendenti, i consumatori erano liberi da restrizioni di legge e non erano necessariamente considerati devianti. I dipendenti inglesi avevano una libera scelta: potevano accettare l’uso di droga come una parte della loro vita e continuare a portare avanti le loro attività abituali, oppure potevano vedere se stessi come soggetti disagiati e adottare uno stile di vita distruttivo, da tossico. Così i miei anni in Inghilterra hanno rivelato lo stesso fenomeno che avevo osservato al Beth Israel Hospital alcuni anni prima: il potere del contesto sociale, degli atteggiamenti sociali e culturali, nell’influenzare l’uso di droghe e i suoi effetti. Stava diventando chiaro che per comprendere l’esperienza della droga, avrei dovuto prendere in considerazione non solo la farmacologia della sostanza e la personalità del consumatore (il set), ma anche il contesto fisico e sociale in cui il consumo avveniva.

    Al mio rientro negli Stati Uniti nel 1969, mi sono reso conto che era avvenuto un cambiamento nel contesto sociale riguardo l’uso di psichedelici e in particolare di Lsd, perché la reazione pubblica alla rivoluzione della droga si era spostata dall’isteria per gli psichedelici al terrore per la epidemia da eroina (Zinberg & Robertson 1972). Nel 1971, dopo che questi sentimenti erano stati ulteriormente alimentati dai rapporti sul diffuso uso pesante di eroina da parte delle truppe in Vietnam, la Ford Foundation e il Dipartimento della Difesa hanno deciso di inviarmi in Vietnam come consulente, per studiare la situazione. Il Vietnam era una situazione strana e spaventosa per i soldati americani. Odiate dai vietnamiti e odiandoli a loro volta, le truppe americane erano facilmente attratte da qualsiasi attività, incluso l’uso di droghe, che potesse tener lontano il mondo esterno (Zinberg 1972).

    Nel momento in cui mi è stato del tutto chiaro che il contesto sociale (quello dei soldati in Vietnam) era il principale fattore alla base della preoccupazione sia per l’uso di droghe sia per il coinvolgimento ossessivo in altre attività che potessero distrarre i militari, ho deciso di consigliare all’Esercito di spostare i soldati che consumavano droghe dal loro contesto, di farli abbandonare il Vietnam. Questo consiglio è stato rifiutato. Il generale Frederick Weygand ha detto che se i soldati avessero saputo che consumare eroina avrebbe voluto dire lasciare il Vietnam, non sarebbe rimasto un solo non consumatore e non ci sarebbe stato più un esercito. Non si rendeva conto che trovare eroina era così facile, in Vietnam, che chiunque desiderava usarla lo stava già facendo. E nemmeno ha condiviso con me l’idea che l’interesse delle truppe per l’eroina era da attribuirsi al pessimo contesto sociale – la distruttività dell’ambiente della guerra e anche dei centri di riabilitazione – in cui controlli e rituali sociali non avevano la possibilità di svilupparsi. A quel tempo, la mia teoria su come i gruppi riescono a elaborare validi controlli sociali per sostenere un uso controllato non era ancora abbastanza evoluta da essere convincente. Così, l’Esercito ha prestato scarsa attenzione a ciò che, con il senno di poi, si è di fatto dimostrato un buon consiglio.

    Ovviamente, ogni tanto i soldati che consumavano venivano rimandati a casa e, come hanno dimostrato sia un mio modesto studio di follow-up sia gli studi più ampi e completi di Lee N. Robins (Robins 1973, 1974; Robins, Davis & Goodwin 1974; Robins, Helzer & Davis 1975; Robins e altri 1979), una volta sottrattisi a quella atmosfera nociva (il contesto sociale negativo), l’infezione (l’uso di eroina) sostanzialmente cessava. Circa l’88% degli uomini che erano dipendenti in Vietnam non lo diventavano nuovamente dopo il loro rientro negli Stati Uniti.

    Nel 1972, di nuovo in America, ho cominciato a riflettere sull’uso di droghe in modo più coerente. Avevo appreso negli anni precedenti che esistevano dei guerrieri del weekend vecchio stile (coloro che usavano eroina occasionalmente nei fine settimana), e il mio studio con Lewis nel 1962 aveva confermato l’esistenza di numerosi modelli di consumo di eroina. La diffusa esperienza con le sostanze psichedeliche negli anni Sessanta e, più tardi, la scena della droga in Vietnam avevano messo in luce il potere del contesto sociale, e mi ero chiesto se questo potere potesse essere usato in senso positivo per il controllo delle droghe e dell’eroina in particolare. Le mie letture sull’uso di alcol mi avevano chiarito che la storia dell’alcol, così come quella degli oppiacei, era estremamente complessa, e questo mi aveva dato qualche idea per futuri studi sulle droghe. Allo stesso tempo, ho avuto l’opportunità di promuovere nuove ricerche sugli oppiacei. Come consulente del neo istituito Drug Abuse Council (Dac), ho assegnato una modesta borsa di studio a Douglas H. Powell, che intendeva coinvolgere consumatori occasionali di eroina di lungo termine. Pubblicando delle inserzioni sui giornali alternativi, ha messo insieme un gruppo non numeroso ma sufficiente per dimostrare la sua tesi, che i consumatori controllati esistevano e che fattori diversi dalla potenza della droga e dalla personalità del consumatore avevano un ruolo (Powell 1973).

    Durante questo stesso periodo, Richard C. Jacobson (con cui avevo lavorato precedentemente per un progetto di educazione sulle droghe) e io abbiamo progettato uno studio su come agivano i controlli sociali, come li chiamavamo. L’idea che avevamo allora oggi può sembrare confusa e rozza, ma avevamo la disponibilità di dati molto frammentari e pochi di questi dati erano raccolti in modo sistematico. Abbiamo deciso di avviare uno studio comparato sull’uso controllato di tre droghe illegali, con diversa potenza e diversi livelli di accettazione sociale: marijuana, psichedelici e oppiaci (eroina in particolare).

    A causa di ciò che oggi appare una conoscenza scarsa sulle caratteristiche dell’uso di eroina (non solo uso occasionale ma anche pesante) (Zinberg e altri 1978), ero impreparato ai problemi complessi, filosofici e morali, che questa ricerca ha sollevato. Certamente, ero del tutto consapevole della difficoltà di mantenere un atteggiamento obiettivo nel campo della ricerca sulle droghe. Ricerca dove il ricercatore viene visto come o a favore o contro il consumo di sostanze psicoattive. In qualsiasi dibatto, show radiofonico e televisivo, e perfino nelle conferenze professionali, dove ci si aspetterebbe obiettività, il programma deve essere bilanciato. Un oratore che viene percepito come pro droga viene bilanciato da uno che è considerato contro. Dal momento che quello anti afferma che la proibizione e l’astinenza sono essenziali, ogni posizione di opposizione è vista come pro droga.

    Come risultato del mio precedente lavoro sulla marijuana, che si era dimostrata una droga relativamente leggera anche se non del tutto esente da danni potenziali, ero classificato tra i pro. Questo mi causava un po’ di ansia, perché mi ero sempre fermamente attenuto, in privato come in pubblico, al principio della moderazione e alla preoccupazione verso aspetti come la guida sotto l’effetto di droghe, l’età del consumatore e la diffusione delle droghe. Indubbiamente, però, la mia convinzione che la marijuana non fosse una sostanza così terribilmente distruttiva ha reso più difficile scrollarmi di dosso l’accusa di essere a favore delle droghe. Mi sembrava più importante far conoscere i fatti sulla marijuana che collaborare a disseminare convinzione errate, a mettere la gente in galera per semplice possesso e creare un non necessario clima di paura. Così, mi sono naturalmente opposto all’irragionevole censura di chiunque non fosse d’accordo sul fatto che il regno dell’imperatore fosse il migliore mai visto – cioè, che la marijuana fosse una droga mortale.

    Dopo che la mia ricerca su consumo controllato e droghe illegali è stata finanziata dal Dac nel 1973, la questione di porre dei limiti alla mia indagine si è fatta pressante. Quale sarebbe stato l’impatto di un risultato che testimoniava che alcune persone sono in grado di controllare il loro uso di eroina? Questa scoperta avrebbe potuto portare a provare l’eroina alcuni che, altrimenti, mai lo avrebbero fatto e che avrebbero potuto non saperla gestire?

    Dal 1974 Jacobson era rientrato all’università, e Wayne M. Harding era diventato mio associato in questa impresa. Abbiamo valutato queste difficili questioni con molta serietà. Nessuno di noi poteva accettare alla lettera la sacra massima la verità ti renderà libero. Ricordavamo entrambi l’esplosione dell’Lsd a metà degli anni Sessanta, in parte causata dalla pubblicità sul suo uso diffusa da professionisti e media. All’inizio, quando avevamo ancora difficoltà a trovare consumatori che usavano eroina in modo occasionale, avevamo qualche preoccupazione, perché poteva sembrare che questo consumo fosse insignificante. Ma quando è diventato chiaro che i consumatori di questo tipo erano molti, ci siamo resi conto che questa scoperta doveva essere portata all’attenzione pubblica. Ed effettivamente, durante lo svolgersi del nostro lavoro, altri ricercatori, soprattutto Leon G. Hunt (Hunt & Chambers 1976) e Peter G. Bourne (Bourne, Hunt & Vogt 1975), hanno cominciato a parlare di uso occasionale di eroina come di un modello stabile di consumo.

    A questo punto, la frequenza con cui mi veniva chiesto se ero per un uso non restrittivo di eroina ha cominciato a stancarmi. La domanda non solo

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