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Il lastrico del tempo
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E-book288 pagine4 ore

Il lastrico del tempo

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Fantascienza - romanzo (224 pagine) - Il terzo e conclusivo romanzo di uno dei cicli più popolari della fantascienza italiana, quello del servizio segreto temporale italiano, gestito come ogni ente statale italiano: cosa può andare storto?


Dirigenti che pensano solo alla carriera, donne brillanti bloccate dal muro di gomma del maschilismo, intrallazzi, favori, poca voglia di lavorare, e un vecchio direttore che ne sa una più del diavolo, sempre che siano due persone diverse. Insomma, un tipico, normalissimo ente statale italiano, come ce ne sono tanti. Salvo che l'UCCI è segreto, e ha il più delicato dei compiti: salvaguardare l'integrità della storia italiana.

Sì, perché da quando Leonardo da Vinci ha inventato la macchina del tempo e questa è stata messa a disposizione di tutte le potenze del pianeta, si combatte una guerra fredda temporale che va tenuta sotto controllo. E quando si cominciano a trovare agenti dell'UCCI brutalmente uccisi appare evidente che stia succedendo qualcosa di terribilmente pericoloso.

Anche questa volta il vicedirettore Mariani dovrà collaborare suo malgrado con la sua esuberante "segretaria" Savoldi per venire a capo di una cospirazione che corre sul lastrico del tempo.


Lanfranco Fabriani, nato a Roma nel 1959, si è laureato nel 1986 in letterature comparate con una tesi sulla fantascienza post atomica. Sin dagli anni ottanta si è fatto apprezzare con la pubblicazione di racconti su varie pubblicazioni, fino ad approdare al romanzo con Lungo i vicoli del tempo, vincitore del Premio Urania nel 2001, premio che ha vinto di nuovo nel 2004 con il seguito, Nelle nebbie del tempo, quest’ultimo vincitore anche del Premio Italia. Entrambi sono stati riproposti in questa collana. Al ciclo dell'UCCI fa riferimento anche il racconto Il cerchio di paglia (Delos Digital).

Di Fabriani Delos Digital ha pubblicato anche I quadrivi del tempo e dello spazio, che raccoglie tutti i racconti brevi, e la novella YouWorld scritta in collaborazione con Giovanni De Matteo.

LinguaItaliano
Data di uscita17 mar 2020
ISBN9788825411522
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    Il lastrico del tempo - Lanfranco Fabriani

    9788825406870

    Capitolo 1

    Roma. Tempo Reale. 10 dicembre, ore 0030

    Marina Savoldi arrestò l’auto al margine del palcoscenico e rimase con Mariani a guardare la scena attraverso il parabrezza imperlato da minuscole goccioline di pioggia. Infine il tergicristallo si risvegliò, fece un unico arco, pulendo il vetro e tornò in animazione sospesa.

    – Fossi più vecchia direi che sembra di essere al drive–in. Hai portato i popcorn?

    Volanti della polizia erano ferme su entrambi i lati della stradina con i lampeggianti accesi che spandevano nella notte la loro malsana intermittenza blu, ferendo gli occhi dei presenti. La luce, a parte il debole lampione, veniva soltanto dai fari delle auto, parcheggiate in modo da illuminare la scena. Uomini in divisa e in borghese si affaccendavano attorno all’Alfa Romeo scura con gli sportelli aperti.

    – Ma che diavolo…! – sbottò Mariani impermalito, studiando l’inatteso e spiacevole affollamento della scena. – È giorno di mercato, oggi?

    – Allora, io ti aspetto qui. Comincio a girare l’auto nel caso in cui dovessimo sfuggire sgommando alle grinfie delle sagaci forze dell’ordine? – propose Marina guardandolo di sottecchi.

    – Dimmelo tu. – replicò Mariani di cattivo umore come sempre, che al contrario di Marina era un ex ufficiale dei Carabinieri. – Questi sono colleghi tuoi, non miei.

    – Oh beh, ormai ex colleghi… Cacchio!

    Mariani girò la testa verso di lei. – Che c’è?

    Marina finse indifferenza. – Non guardarlo, ma c’è un agente che sta venendo verso di noi. Lo conosco, e lui conosce me.

    – Cosa? – Lui dovette fare uno sforzo di volontà per non voltarsi.

    – Eravamo insieme alla questura di Bologna. Vai adesso, qui me la cavo da sola.

    Mariani non si mosse. – Sicura che non ti serva aiuto?

    – Certo che no – rispose lei irritata, scrutandosi malgrado la penombra nello specchietto retrovisore, cosa per lei insolita. Si scompigliò artisticamente con due dita i capelli sulla fronte. – Pensi forse che non sia in grado di gestire la situazione?

    – Beh, evita di combinare guai, – disse lui aprendo lo sportello, tutt’altro che rassicurato dalla capacità di Marina di gestire le situazioni senza inutili e controproducenti clamori. La luce dell’abitacolo non si accese, perché la prima cosa che faceva Savoldi con una macchina nuova era disattivare per motivi di sicurezza l’accensione automatica dell’illuminazione interna.

    – Non penso di mettermi a sparare all’impazzata, se è questo che intendi – replicò lei con tono velenoso.

    Mariani mise un piede a terra e imprecò con sentimento quando nella debole luce si accorse di aver infilato la scarpa fatta a mano da trecento euro in una chiazza di fango.

    Scese dall’auto e si mosse verso l’Alfa, incrociando il poliziotto che si stava avvicinando alla Renault Clio di Marina. Cercò di sbirciare verso di lui, ma proprio in quel momento il volto dell’uomo entrò in un cono d’ombra.

    Quando Mariani entrò nella luce dei fari un agente si avanzò per fermarlo, ma lui lo bloccò sbattendogli davanti al naso un tesserino plastificato, sventolandolo però in modo che l’altro non potesse esaminarlo.

    Arrivò vicino all’Alfa Romeo con lo sportello del conducente aperto e guardò il cadavere. Tutto intorno, impresse nel fango c’erano decine e decine di impronte di scarpe di varia foggia e misura. Sembrava la riva di un fiume dopo l’apericena dei bufali. Era fuori di dubbio che nessuno avrebbe cavato una sola traccia utile da quell’andirivieni, ma forse un paleontologo del futuro avrebbe avuto una bella storia da raccontare sullo scarpozoico. Magari anche materiale per una tesi di dottorato.

    Di Stefano, dell’AISI, smise di parlottare con un uomo e si avvicinò. – Ciao, mi dispiace averti tirato giù dal letto.

    – Non mi hai tirato giù da nessuna parte. Stavo ancora lavorando, – mentì Mariani, scoprendosi a rimpiangere le lenzuola. Se c’era una rogna in circolazione, il suo desiderio di starne lontano cresceva in modo esponenziale rispetto alla sua gravità. – Invece vorrei sapere per quale motivo mi hai chiamato.

    – Sono spiacente, ma temo si tratti di uno dei tuoi. A proposito, che tesserino era quello che hai mostrato a quell’agente?

    Mariani si accostò allo sportello sprofondando le mani nelle tasche del cappotto, attento a non lasciare impronte digitali e cercò di guardare dentro.

    – Non tocchi nulla! – Lo ammonì un funzionario della scientifica infilato in un’ampia sopra tuta bianca simile a un preservativo, impegnato a spargere polvere per le impronte sul bordo dello sportello.

    – Un tesserino dell’AISI, ovvio, – borbottò Mariani di cattivo umore. – C’è nessuno che ha una torcia?

    Di Stefano gliene passò una e Mariani, rimpiangendo di non aver preso i guanti, la afferrò e buttò la luce dentro l’auto.

    L’uomo era riverso contro il volante, con la testa girata verso sinistra. Guardava con occhi sbarrati nella direzione dello sportello aperto, come imbarazzato di trovarsi morto di fronte al superiore.

    Mariani studiò il foro di proiettile nella tempia sinistra. Si rizzò, allontanandosi dalla portiera.

    – Chi lo ha trovato?

    – È passata una volante e gli agenti si sono insospettiti di non trovare neppure una prostituta al lavoro, questa è zona. Così si sono guardati intorno fino a che hanno visto l’auto.

    – Gente astuta, – bofonchiò Mariani. – Dovresti assumerli, migliorerebbero la vostra deprecabile media.

    – Non è detto che non lo abbia fatto. Mi dispiace per il tuo uomo. Condoglianze vivissime.

    – Risparmiati il dispiacere e ripiega e metti via le condoglianze per la prossima volta, non è uno dei miei.

    – A noi risulta di sì.

    Mariani puntò la torcia in faccia a Di Stefano, guardandolo distogliere gli occhi abbacinati. – Il giorno in cui a voi risulterà qualcosa di a malapena corretto, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica farà sparare ventuno salve di cannone e apporre una lapide di marmo a imperitura memoria dell’evento.

    Spense la torcia e la restituì a Di Stefano dopo aver stropicciato il manico con un fazzoletto.

    L’uomo che stava parlando con Di Stefano quando lui era arrivato si avvicinò e tese la mano a Mariani. – Mascagni, Squadra Mobile – si presentò con un pesante accento toscano. – Il dottor Di Stefano ha detto che forse lei poteva fornirmi qualche ragguaglio riguardo a questo pasticcio. Conosce l’identità del morto?

    Mariani si chiese cosa il collega avesse potuto dire al funzionario terzo incomodo e sperò che avesse mantenuto almeno un minimo di riserbo. Strinse la mano. – Mi dispiace, ma il dottor Di Stefano ha sbagliato e su tutta la linea. Non so cosa sia avvenuto e non conosco la vittima – mentì, incrociando lo sguardo incredulo del funzionario dell’AISI.

    L’uomo della Mobile guardò prima l’agente dell’AISI, poi riportò lo sguardo su Mariani. – Ne è proprio certo? Il dottor Di Stefano è stato abbastanza sicuro su questo.

    – Desolato, ma non è un mio uomo, neppure l’auto è una delle nostre – rispose Mariani utilizzando la sua migliore faccia da full di re.

    – A proposito, – interloquì l’uomo della questura, – non ho capito il nome del suo ufficio.

    – È un centro di collegamento interforze presso il Viminale, alle dirette dipendenze del signor Ministro – Borbottò Mariani rimanendo nel vago ma comunque sotto un ombrello in grado di scoraggiare ulteriori inopportuni scrosci di domande. – Adesso, se mi volete scusare, avete interrotto il mio lavoro per una stupidaggine, e con il vostro permesso ci torno di filato.

    Girò sui tacchi. L’uomo della Mobile cercò di trattenerlo con un aspetti, ma Mariani lo ignorò e tornò verso la Clio di Savoldi.

    – Che diavolo stavi cercando di fare? – Borbottò a bocca storta in direzione di Di Stefano, che lo stava accompagnando.

    – Niente, un avvertimento nei confronti del tuo Direttore. Se lui ficca il suo lungo naso negli affari nostri, noi ci premuriamo di ficcarlo nei suoi.

    – Ci sono altri sistemi per mandare un segnale, beccamorto! Ringrazia che non era già arrivato il magistrato, altrimenti staremmo ancora lì e passeremmo le prossime due settimane a piazzale Clodio a dire nulla saccio, nulla vidi.

    – Io questa roba non la capisco, – riprese acido dopo una pausa. – Ogni volta che vi scappa una cazzata più grossa del solito, qualche cervellone politico comincia a blaterare di riforma dei servizi segreti e cambia nome a tutto l’ambaradan e il SISDE diventa AISI e il SISME AISE. Poi io mi ritrovo davanti sempre gli stessi stronzi ancora occupati a fare le stesse stronzate negli stessi posti. Se almeno lasciassero stare i nomi non dovreste buttare i soldi per rifare i tesserini, la carta intestata e i siti web. E sarebbe già un vantaggio.

    Tornando all’auto, la vista di Marina non gli piacque. Appoggiata al cofano della vettura era troppo garrula e scherzosa, e lasciava che l’ex collega, altrettanto allegro, le stesse troppo vicino, almeno per i suoi gusti.

    – Andiamo – ordinò sgarbato, aprendo lo sportello del passeggero e salendo a bordo.

    Dall’abitacolo, attraverso il parabrezza, vide Marina frugarsi senza fretta in tasca, continuando a parlare e infine lasciare un biglietto da visita all’agente.

    – Chiamami domani sera, – la sentì concludere salendo a bordo della Clio rossa.

    La donna mise in moto e partì in retromarcia con una leggera sgommata, poi frenò e girò lo sterzo con il palmo della mano, finendo la manovra quasi in scivolata a due millimetri dalla fiancata di una volante bianca e azzurra.

    Mariani osservò l’agente che continuava a guardarli, giocherellando con il biglietto.

    Poi Savoldi partì, sparando terra e sassolini dietro di loro.

    – Che gli hai detto? – chiese Mariani, preoccupato come sempre dalla possibile curiosità della gente, strutturalmente incapace di farsi i fatti propri.

    – Che vuoi che gli abbia detto. Io ho avuto il trasferimento dalla questura di Bologna e mi sono congedata a Roma. Lui credeva che fossi ancora in servizio. Gli ho rifilato la solita balla del nucleo sperimentale di collegamento con i Carabinieri presso il Viminale, e lui l’ha bevuta. D’altronde è un bravo ragazzo fiducioso e beve sempre tutto quello che gli viene detto da un bel paio di ciglia lunghe.

    – E perché gli avresti dato il biglietto da visita?

    – Perché oltre a essere un bravo ragazzo è anche un bel ragazzo, e malgrado non sia il poliziotto più furbo sulla faccia della terra, non mi dispiacerebbe rivederlo. Anzi, proprio perché non è il poliziotto più astuto del mazzo. Ma, tutto considerato, questi proprio non sono casi tuoi.

    – Non sapevo ti piacessero i nasi grossi e le sopracciglia cespugliose.

    – Neppure questi sono affari tuoi. E comunque, mi sono fatta piacere persino te!

    Mariani prese il cellulare, spinse la sequenza di tasti che attivava la crittografia e chiamò l’Ufficio, il numero del capo della squadra di Sicurezza. – Zecchini? C’è un repulisti da fare. Bisogna mandare una squadra delle pulizie a casa di Martesano, al galoppo pancia a terra. Fai controllare che non si sia portato qualcosa a casa, fascicoli e altro, che lo colleghi a noi. L’hanno trovato morto un’ora fa e prima o poi, finito il lavoro della scientifica e aperto il portafogli, la Mobile scoprirà dove abitava.

    Riattaccò senza dare tempo all’altro di ribattere e si volse verso Marina.

    – E ti sembra una mossa intelligente da fare? – Insistette. Dopo la bella trovata di Di Stefano, aveva bisogno di sfogarsi con una lavata di capo a qualcuno.

    Ma Marina era l’ultima che potesse accettarla, e soprattutto da lui. – Come ti ho detto non sono casi tuoi. Il fatto che ogni tanto facciamo ginnastica insieme non significa che tu possa auto incoronarti doganiere del mio letto – rispose secca, cambiando marcia con una mossa brusca e accelerando, scaricando a terra i 130 cavalli della sua Clio e sbattendo il superiore contro la spalliera del sedile per il contraccolpo.

    – Senti Savoldi, puoi trovarti tutti i ragazzi che vuoi, belli e brutti, alti e bassi, magri e grassi, come più ti aggrada. Anzi, per quello che me ne importa puoi anche mettere accanto al letto il distributore con i numeretti per gestire la fila. Ti ho chiesto soltanto se ti sembra intelligente andarsi a impelagare con un ex collega – rispose Mariani, ignorando volutamente il tono dell’altra.

    – Ah, si trattava soltanto di una consulenza gestionale riguardo ai miei amanti? Avevo capito che fosse un ordine di un capo maschilista e geloso. Molto stupido da parte mia! Mi rendo conto che sarebbe ora che io imparassi a distinguere le due cose – rispose l’altra lampeggiando un paio di volte arrivando a un incrocio, rallentando a malapena per poi accelerare di nuovo una volta passato.

    – Stai per caso insinuando che io non sia in grado di gestire la situazione? – Riprese dopo un lungo silenzio. L’indicatore di pericolo nella voce della donna stava saltellando decisamente nella zona rossa. – E poi, lui mi crede ancora in servizio, mi spieghi perché dovrebbe andare a controllare? Stiamo parlando di un agente di polizia, non di uno di noi malfidati dei Servizi.

    – E conti di lasciarlo entrare nel tuo appartamento traboccante di armi, con la Beretta attaccata con lo scotch sotto il letto e l’Uzi tra le coperte nell’armadio? – chiese Mariani ironico.

    – Ma se un amante non si chiama Mariani difficilmente inizia a perquisirti casa – replicò velenosa lei.

    – Continuo a essere contrario, – insistette lui. – Non mi sembra una buona idea.

    – Se non volessi uscire con lui e lo mollassi, allora sì che potrebbe saltargli il ticchio di mettersi a fare lo sbirro per potermi ricontattare. E questo sì che sarebbe fastidioso – concluse pratica Marina. – E comunque lascia che me la sbrighi io. Non hai niente da insegnarmi, al contrario ricorda tu chi ti ha insegnato il mestiere.

    Mariani scoprì il polsino della camicia e guardò il cronografo Breil sbadigliando. Era passata l’una.

    Senza troppa speranza chiamò al cellulare il numero dell’ufficio del Direttore. Risposero al primo squillo.

    – Pronto? – Risuonò aspra al suo orecchio l’odiosa voce della Madre Superiora, come era universalmente conosciuta nell’UCCI la segretaria del Direttore.

    – Sono Mariani, può riferire al Direttore che la notizia è confermata: c’è stato un incidente lungo la costa, con sversamento di petrolio. Sono già state avviate le procedure per il contenimento della macchia oleosa – Disse Mariani, malgrado la spia della crittografia fosse accesa. La signorina Alfonsi era capacissima di fare rapporto al Direttore per una violazione dei protocolli di sicurezza. Anzi, trattandosi di lui, l’avrebbe fatto di sicuro.

    Il fatto che il Vecchio, come tutti chiamavano il Direttore dell’UCCI, quando erano certi di essere fuori dalla portata di orecchie indiscrete, fosse ancora in ufficio, cosa certa, visto che la Madre Superiora era lì, non gli piacque nemmeno un po’. Perché si era trattenuto quando lui era andato a casa? Di sicuro per fargliene qualcuna alle spalle. Per quale altro motivo se no?

    – Il Signor Direttore – a Mariani parve di sentir rombare nell’orecchio le maiuscole – desidera che lei lo raggiunga in ufficio per un rapporto, al più presto – gli rispose la signorina Alfonsi, e visto che aveva emanato un editto imperiale, che secondo lei andava soltanto obbedito tacendo, chiuse la comunicazione senza dargli il tempo di replicare.

    – Puttana – borbottò Mariani, quasi pro forma. Poi si rivolse a Marina, che era impegnata nella guida, sempre troppo veloce per i suoi gusti. – Cambia direzione, il Vecchio ci vuole in ufficio. – Guardò lo smartphone per controllare che la linea fosse chiusa.

    – Peccato, pensavo di poter tornare a letto per qualche ora. E adesso non c’è nemmeno un bar aperto per un caffè decente, non di lunedì. Che voleva Di Stefano? Perché era lì? Bastava che ci avvertisse e si togliesse dai piedi, no?

    – Chiedilo a lui! Dobbiamo aver incrociato la strada dell’AISI. Ha montato un teatrino davanti a un tizio della mobile come se volesse sputtanarci veramente, lo stronzo!

    Lei sospirò, senza staccare gli occhi dalla strada. – Sembrate due ragazzini che continuano a farsi dispettucci a vicenda. Perché non vi decidete a crescere? Cos’è, roba da maschi? Sfide territoriali o lotte con sbattimenti di corna nella stagione degli amori?

    Mariani preferì non risponderle, per non correre il rischio di farsi sfuggire qualcosa di cui poi avrebbe potuto pentirsi.

    In assenza di traffico e grazie alla guida spericolata di Marina che lo lasciò in uno stato di tensione continua, intervallata da punte di panico, in breve arrivarono in centro, e in spregio all’isola pedonale giunsero in via dei Giubbonari, di fronte al decrepito palazzo costruito nel 1500 dai principi Barberini. Edificio che l’UCCI, l’Ufficio Centrale Cronotemporale Italiano, sotto le mentite spoglie dell’Ufficio per il Controllo dei Combustibili Inquinanti, condivideva con un liceo, una sede del PD e una dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.

    Marina svoltò in via dell’Arco del Monte, fermò davanti al portone e attese che gli addetti lo aprissero per guidare l’auto nel cortile.

    Entrarono nell’edificio, e mentre Mariani si dirigeva verso la scala per andare a rapporto, Marina si fermò in portineria, intenzionata a contrattare un caffè con la macchinetta espresso di servizio.

    Capitolo 2

    Roma. Tempo Reale, 10 dicembre, ore 0130

    Mariani sedette sulla scomoda poltroncina destinata agli agenti a rapporto, davanti alla scrivania del Vecchio.

    – Brutte notizie – esordì senza attendere di essere interrogato. Ma il Vecchio non smise di controllare i rapporti che aveva davanti. Soltanto dopo qualche minuto, con un lieve tocco dell’indice destro fece scivolare i mezzi occhialetti da lettura sulla punta del lungo naso e lo squadrò interrogativamente da sopra di essi.

    – Quanto brutte?

    – Abbastanza. Come le avevo telefonato da casa prima di uscire, Di Stefano mi ha chiamato verso le undici di stanotte, facendomi andare in una traversa periferica dell’Aurelia, sostenendo che c’era un nostro uomo morto. E in effetti c’era. Martesano.

    Il Direttore per un lungo istante non disse nulla. L’unica luce nella stanza era la lampada da tavolo, che si rifletteva nei suoi radi capelli argentei e nella montatura metallica degli occhiali. Per quel lungo istante sembrò il busto di marmo di un padre della patria o di un filosofo ottocentesco. Perfettamente intonato al resto della stanza. La scrivania in legno scuro, un piccolo scaffale accostato al muro e quasi piegato dal peso di alcuni faldoni, l’armadio blindato per i fascicoli più importanti, i segreti dell’UCCI di cui neppure Mariani veniva messo al corrente, e su un lato della scrivania un vecchio leggio con sopra un’antica e preziosa copia de Il Principe di Machiavelli che il Vecchio era solito aprire per leggere e meditare sui passi, come un monaco avrebbe fatto con il Vangelo.

    – Spiacevole – fu la sua unica reazione.

    A Mariani questa non piacque, certo che il Vecchio volesse tenerlo all’oscuro, o quanto meno nella fitta nebbia, come il solito. E comunque, anche se conosceva a malapena Martesano, riteneva che la morte di un agente dovesse essere considerata un po’ più che soltanto spiacevole.

    – È un bel problema – continuò dopo un po’ il Direttore con il suo solito modo di minimizzare le cose, e questo confermò Mariani nella sua ipotesi.

    – Un bel problema un cavolo! – sbottò. – Di cosa si stava occupando Martesano?

    – Proprio di niente, è questo il bel problema. Non c’era il minimo motivo di ucciderlo.

    L’ormai ieri di Mariani, nato storto e terminato male, che stava figliando un oggi ancora peggiore, gli impedì di mantenere il solito riserbo. – Lei fa rientrare Martesano da Milano 1600 e sei mesi dopo viene ucciso. E io dovrei credere che non si stesse occupando di nulla?

    Il Direttore si prese un lunghissimo tempo per rispondere, studiandolo con attenzione da sopra i mezzi occhialetti. – Mariani, le confido che in passato le nostre chiacchierate, quando lei mascherava alla perfezione la sua profonda sfiducia nelle mie asserzioni, sono state spesso un momento di grande godimento. Potremmo quasi definirle delle partite di poker verbali. Mi vedo però costretto a rimarcare che sempre più spesso, e ribadisco, sempre più spesso, lei sta assumendo la sgradevole abitudine di mostrare apertamente tale sfiducia, arrivando a volte persino ad accusarmi di mentire. Ora, non è gratificante per un superiore sentire che il sottoposto, perché ci tengo a ricordarle che lei questo è, mette in discussione le sue affermazioni a ogni piè sospinto. Sono sicuro che lei, come ex ufficiale dell’Arma, capisca benissimo di cosa sto parlando. Gradirei che per il futuro ciò venisse a cessare, o quanto meno rientrasse all’interno di sporadici momenti della normale dialettica d’ufficio.

    "Venendo al fatto specifico, Martesano mi aveva fatto presente che

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