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Requiem Veneziano: Un'indagine del commissario Enzo Fellini
Requiem Veneziano: Un'indagine del commissario Enzo Fellini
Requiem Veneziano: Un'indagine del commissario Enzo Fellini
E-book312 pagine2 ore

Requiem Veneziano: Un'indagine del commissario Enzo Fellini

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Info su questo ebook

Dentro una gondola viene scoperto il cadavere di una donna. Si chiama Gudrun Kessler ed è una soprano tedesca. Ha quarantadue anni. Chi l’ha uccisa? Perché? Il Superuomo – così si firma l’assassino – prende di mira cantanti liriche e poliziotti. Nonostante la gravità degli eventi, il questore Egisto Badalamenti è interessato a un unico obiettivo: rincorrere l’opinione pubblica. A complicare ulteriormente le cose, ecco un piccante affaire de coeur tra Fellini e… Riuscirà, il nostro commissario, a risolvere il caso? Venezia è protagonista assoluta anche in questo nuovo romanzo di Nathan Marchetti, acclamato dai lettori come “Il nuovo Camilleri. Veneziano”.

Nathan Marchetti (Adria, 1973) ha maturato – a vario titolo – esperienza ventennale nel mondo dell’editoria italiana. Marchetti è laureato in lettere moderne con una tesi sul regista svedese Ingmar Bergman. È inoltre diplomato in flauto traverso al conservatorio e ha svolto studi di composizione. Dopo Giallo Venezia, ecco Requiem Veneziano: una nuova indagine del commissario Enzo Fellini. Che si svolge, come sempre, nella città più bella del mondo. Tutti i romanzi di Nathan Marchetti sono pubblicati da Fratelli Frilli Editori (Genova).
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2020
ISBN9788869434402
Requiem Veneziano: Un'indagine del commissario Enzo Fellini

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    Anteprima del libro

    Requiem Veneziano - Nathan Marchetti

    1

    Oro…

    Quanto oro, Dio bono…

    Il sostituto vicecustode Ivano Sumiàn è oggi di turno nella Basilica di San Marco. Vaga in lungo e in largo per il presbiterio, unica zona ancora asciutta della Cattedrale.

    Punta in alto lo smartphone.

    Scatta.

    Si sposta di mezzo metro.

    Scatta ancora.

    Magrissimo, nonostante decenni di spritz e cichéti, Sumiàn confronta il soffitto aureo con le immagini memorizzate nel telefono.

    La realtà veramente vera no’ se rièsse mai a caturàrla sul serio…

    Inquadra davanti a sé. Ecco lo spazio assembleare. Completamente allagato.

    Scatta nuove foto.

    Le guarda.

    San Marco invasa dall’acqua alta.

    Adesso, carico ’ste fotografie su Facebook. Cussì me becco no’ so quanti Like!

    No.

    Mejo ancora: le vendo ai giornali. Anzi, alle agensíe de stampa...

    A l’Ansa. A la Reuters.

    Cussì guadagno míle euro...

    Se non de pi’…

    Sumiàn lo sa benissimo: non conviene tentare la sorte.

    Vietato fotografàr in servíssio, ’orco can!

    Míle euro…

    I me faría comodo, però…

    No.

    Non deve.

    È vietato.

    Raggiunge l’altare maggiore. Vi appoggia sopra il cellulare. Lo copre con il cappello da custode.

    E riprende a vagare.

    Piedi asciutti. Piè sutti!, ripete in veneto. La xe la mia unica, semplicissima regoletta.

    Arriva di fronte alla Pala di San Marco: un’enorme icona rivestita d’oro e pietre preziose.

    L’uomo si gratta i capelli ispidi.

    Quanto oro…

    Scruta senza fretta i dettagli della Pala.

    Poi torna al cospetto dell’assemblea deserta.

    Sommersa.

    Contempla le pareti. Il soffitto.

    Oro…

    Strizza gli occhi. Guarda meglio.

    Xe un oro strano, però…

    Sì, un oro strano…

    Xe oro. Oro ventiquattro carati. Oro purissimo.

    Oro zechín.

    Quattromiladuecento metri quadri de mosaici d’oro.

    E pure…

    Sumiàn fissa i personaggi che abitano lassù da secoli e secoli.

    Xe un oro strano, efetivaménte…

    È come se l’oro di San Marco emanasse più ombra che luce. Come se per vie traverse venissero disattesi i racconti biblici illustrati da milioni di tessere.

    Qual è la verità?

    Quàla xéla la verità veramente vera?

    Il sostituto vicecustode cerca con gli occhi. Cerca la verità.

    Si imbatte nella raffigurazione di Gesù Cristo.

    Nostro Signor Gesù Cristo…

    Alcuni passi. Col naso all’insù. Le braccia penzoloni.

    …E se invéze, quando uno muore, da l’altra parte el se ritrova al cospèto de Allah?

    Cosa potrò mai dírghe, mi, ad Allah?

    Eh?

    De cossa potrò vantàrme, co’ Allah?

    Eh?

    …Ghe digo…

    Ghe digo che me piaxe el kebab?

    Non ride della sua battuta.

    Sembra preoccupato sul serio.

    Per distrarsi, Sumiàn scende di uno scalino verso la zona assembleare. Un solo scalino, in ottemperanza alla regoletta.

    Piè sutti!

    Si china. Con l’indice destro, sfiora l’acqua.

    L’è tiepida, òstrega...

    Xe el ventisíe de novènbre…

    «Adío!», esclama rialzandosi in piedi.

    Ascolta il riverbero della propria voce perdersi tra acqua e oro.

    «Adío autúni frédi e brinósi! Autúni de ’na ’olta, adío!».

    Si gode il rimbombo. Come prima.

    «Adío!», declama. «Adío pelícole Kodak, Fujifilm, Minox. Adío machine fotografiche anaògiche. Adío Nikon FM2, Canon AE1, Yashika FX3… Adío diapositive, adío proiettori co’ na lampadina dentro, costruíi in Germania Est o in Jugoslavia... Adío al me negozietto de svilúpo e stampa fotografica... E ’na grazia che, dopo el faliménto del FotoPiù di Sumiàn Ivano, go rimedià ’sto lavoro: sostituto vicecustode a San…».

    TUM!

    TUM! TUM! TUM!!

    2

    TUM!!

    Sumiàn indietreggia.

    Mah… Mah…

    TUM!!!

    «’Orco can!».

    Si mantiene sul presbiterio: c’è la regoletta.

    Piega le ginocchia. Rannicchiato, scruta il portale.

    TUM!! TUM!! TUM!!!

    Grida: «Chi xe là?! Chi seu?!».

    TUM!!!

    Valuta la situazione.

    Òcio: el me lavoro xe star qua. Fermo ne la Catedràle.

    Devo semplicemente ’spetàr.

    Aspettare el tempo che occorre ’spetàr.

    Finché passarà ’st’inondasión del casso.

    Quelo che càpita in Piàssa no’ xe competènsa del sottoscritto.

    «Nossignori!», conclude ad alta voce. «Mi no’ c’entro gnénte co’ voialtri!».

    Un altro duro colpo sovrasta tutto.

    TUM!!!

    «Vandali insolenti! Cafoni! Vilàni! Bàrbari!».

    Qua va a finír che…

    Va a finír…

    Va a finír che quei disgrassià i danégia el portón…

    …E se…

    …E se…

    …E se i danégia el portón…

    Ehi! Ma se…

    «Maria Vergine!». Ivano Sumiàn si dà una pacca in fronte. «Se danneggiano il portone, il Patriarcato me tacarà tuta la colpa a mi! A mi, pa’ mancata sorvegliànsa! Qua va a finír che i me licènsia, che perdo el posto, Dio bono!».

    TUM!!!

    «Can del porco! Dine ’sassín!!».

    TUM!!!

    «BASTA!!!», urla Sumiàn.

    TUM!!!

    Trasgredisce la sua semplice, unica regoletta: lascia il presbiterio.

    Giù. A correre nel lago sacro.

    Urla: «Ascari! Salvàdeghi! Fiòi de ’na vèraaa!!».

    Nella volta d’oro, il popolo del paradiso non si scompone di un millimetro. Neppure quando Sumiàn scivola nel nartece e affonda.

    TUM!!!!!!

    Sott’acqua, il botto si propaga più forte e acuto. I timpani del sostituto vicecustode languiscono come punti da miriadi di aghi.

    L’uomo riemerge ansimando.

    Basta! Pa’ carità de Dio… Basta!

    Apre i chiavistelli. Gli viene da piangere.

    I me mandarà a ca’ pa’ colpa ’ostra!

    Desgrassià!

    Belve!

    Injústi!

    Spalanca il portale.

    Ecco: il fero a prua si fa avanti.

    La gondola penetra nella Basilica di San Marco.

    Scivola silenziosa. Senza gondoliere. Alla deriva.

    Sumiàn la guarda impietrito. Finché torna in sé.

    Raggiunge la barca fantasma, ferma sugli scalini che elevano al presbiterio.

    Sbircia dentro.

    Nello scafo, niente carèghe né sgabelli.

    Soltanto un telo nerastro. Che avvolge qualcosa.

    Con la sinistra, il sostituto vicecustode inclina la gondola verso di sé. Con la destra, scopre un po’ il telo.

    E affiora il volto: il volto di una donna con i capelli corti, biondi. Gli occhi blu.

    Inutilmente affacciati sull’oro della Cattedrale.

    PRIMA PARTE

    IL SUPERUOMO

    3

    Eccomi. Fermo in Campo del Varisco. Immerso nell’acqua fino al cavallo dei pantaloni.

    Sottobraccio stringo una cassetta di arance.

    Esamino le cifre che scorrono sul display affisso all’angolo.

    Giovedì ventisei novembre.

    Ore dieci e trentacinque.

    Ventidue gradi e mezzo.

    Ai dati fa seguito la pubblicità.

    Punto Baldàn Mobile.

    Calle del Varisco.

    A trenta metri.

    Non è riportato il livello della marea. Neanche un numero sull’inondazione che oggi colpisce Venezia.

    Calle del Varisco.

    A trenta metri.

    Mah…

    Co’ tuta ’st’aqua…

    Magari, del problema ne parlarò stasíra co’ i colèghi.

    …Ma zio can! Bisogna salvare i schei! Subito! Altroché stasíra!

    Sgrano gli occhi recuperando consapevolezza: è la prima volta che così, in modo spontaneo, medito in lingua veneta.

    Non sono nato da queste parti: provengo da Rimini.

    Vivo a Venezia da diciotto anni.

    Eh…

    …D’altro canto, solo on autentico venessiàn l’è disposto ad afrontàre l’aqua alta pa’ procuràr frutta alla famégia.

    Be’, i familiari aspetteranno mezz’oretta in più. O il mio conto corrente andrà in rosso.

    Da stamattina, nella mia mente, vige un’immagine memorabile: è l’estratto conto che ho trovato nella buca delle lettere.

    L’acqua saliva di livello. Come la mia rabbia, mentre studiavo Dare e Avere.

    Cercavo un fruttivendolo aperto. Intanto, ho telefonato alla banca col mio Nokia.

    «I servizi aggiuntivi per il telefonino li ha chiesti lei», ha chiarito seccamente la vicedirettrice. Era indispettita. Aggiunse: «…E che bei servíssi, òstrega!».

    Poi ha chiuso la comunicazione.

    Mah…

    A quel punto, ho contattato due volte il mio operatore: Baldàn Mobile.

    …E no’ son riussío a combinàr gnénte!

    Ho spento il telefono dal frutariól, prima de pagàr le arance. Ciò in base al seguente ragionamento: Se è spento non funziona. E se no ’l funziona, no’ ’l màgna schèi.

    Un ragionamento sbagliato, probabilmente; ma non sono riuscito a escogitare di meglio.

    È assai più probabile che i servizi rimangano attivi. Anche con lo smartphone disattivato.

    Diavolo cagnàsso!

    Da chissà dove, qualcún preleva schèi su schèi dal me conto corrente.

    On hacker. Deve trattàrse de on hacker!

    Mi infilo in Calle del Varisco.

    Trenta metri stretti. Tanto stretti che devo tenere la cassetta per lungo.

    Ricapitolo il da farsi: Sistemo la questión smartphone.

    Po’, vago a ca’ mia. Méto zo le arance.

    Arance… No’ se dixe cussì, in venessiàn…

    Arance se dixe…

    4

    Gli infermieri sollevano la barella marchiata Ferrino. A braccia, portano via il sostituto vice custode.

    Inutile parlargli: Sumiàn è in stato confusionale.

    Ripete, con voce strozzata: La xe morta… La xe morta… La bionda la xe morta…

    Bestemmia tra le lacrime.

    Poi ricomincia: La xe morta…

    Il vicecommissario Carlo Lino Comunalazzi e l’ispettore Francesco Franco Bonora restano a piantonare l’ingresso della Cattedrale.

    Guardano i soccorritori e l’uomo imbarellato superare le colonne di San Marco e San Tòdaro. Voltare a destra. Sparire oltre la Biblioteca Marciana.

    Altri due minuti.

    E la barca-ambulanza parte a tutta velocità.

    Disturbato dall’urlo della sirena, Lino Comunalazzi preme il cellulare contro l’orecchio.

    «Niente», dice toccando il tasto Chiudi. «Vuole provare lei, ispettore?».

    Franco Bonora estrae il proprio smartphone da una tasca asciutta.

    Telefona.

    «Niente», constata, immusonito come sempre. «È irreperibile. Con mezza questura ammalata... Non gli viene il dubbio che potremmo aver bisogno di lui? Dopotutto, Enzo Fellini è un effettivo di PG: Polizia Giudiziaria. Roba da sanzione disciplinare…».

    Comunalazzi stoppa il collega alzando una mano.

    «Riprovo io».

    Niente.

    Per giunta, Livio Cerón – poliziotto addetto alle comunicazioni – ha trentasette e sette di febbre.

    Tantissimo, per l’italiano medio.

    Dunque, gli agenti devono contattarsi tra loro. Nonché gestire a turno la guardiola della questura.

    Allagata, ovviamente.

    Nella guardiola, fino a venti minuti fa, c’era Bonora. Poi gli ha dato il cambio Egisto Badalamenti: il questore in persona.

    Gli fa compagnia Peggy, una candida cagnolina di razza maltese salvata dalla polizia stradale venti giorni fa.

    Con altre centonove cagnette, tutte femmine, tutte maltesi.

    Totale: centodieci maltesi, vittime del traffico illegale di animali.

    Le cagnoline stavano ammucchiate dentro un Ducato Maxi fermato casualmente dalla stradale.

    «Urgono rinforzi», rileva Bonora. «Adesso chiamo…».

    Ssst!, fa Comunalazzi. Meglio non allertare la sede. Se Badalamenti scopre che Fellini non è a disposizione…

    …Gli fa un culo così!, completa l’ispettore. E se è il questore a chiamare? Cosa gli diciamo?

    Non chiamerà: ci pensa Peggy a tenerlo occupato.

    Ah, già. Da quando ha adottato Peggy…

    Il mormorio resta a metà: sopraggiunge Nunzio Pischedda, ventisette anni, il collega più giovane della squadra.

    Guarda guarda…, sogghigna Bonora. Hai capito il pivellino?

    E Comunalazzi: «È l’unico equipaggiato a dovere. Saggio come un vecchio, il ragazzo…».

    Il nuovo arrivato si dà due colpetti ai fianchi, protetti da stivaloni alti fino alla cintura: l’unico rimedio, con l’acqua che c’è in giro.

    Sa, Pischedda…, sibila l’ispettore. Io non sono affatto sicuro che il regolamento contempli quella mise…

    «Tutta invidia», chiude l’agente-ragazzino. «C’è il dottor Fellini? È in chiesa?».

    Gli interlocutori scuotono la testa.

    «Andate pure dentro», prosegue il giovane. «Lo so che non vedete l’ora di fare i commissari al posto del titolare… Resto io, di guardia. Chi attendiamo oltre al mitico Enzo?».

    «La scientifica», risponde Comunalazzi. «Cioè Sanúdo, Ardizzón e Meneguòlo».

    «No. Meneguòlo oggi non…». Bonora cerca le parole adatte. «È in… come dire… È in malattia».

    L’ispettore fa un gesto. Traduzione: Dario Meneguòlo è rimasto a casa perché ubriaco al limite del coma etilico.

    «Appena possibile, Fellini si farà vivo», dice Comunalazzi cambiando argomento.

    In quanto a cameratismo, è il migliore.

    Va dentro. Sprofonda nel nartece fino allo stomaco.

    Bonora lo segue a ruota.

    «E il medico legale?», fa Nunzio dall’ingresso.

    «Temporín è già all’opera», risponde Franco Bonora.

    Senza voltarsi.

    5

    Arance… Come se dixe in venessiàn?

    …Se dixe…

    …Se dixe narànze!

    Bene. Tornernò a casa. Metterò giù le narànze.

    Farò una doccia.

    Me vestirò.

    Pranzarémo.

    Saluderò moglie e figli. Correrò in questura. Timbrerò il cartellino.

    Speremo che la marea la se sbàssa, nel fratèmpo.

    Ma ocupémose de ’sto smartphone.

    Adesso. Da Baldàn.

    La porta è spalancata. Così l’acqua entra meglio.

    Cussì l’aqua la va dentro mègio, mormoro con sarcasmo.

    Tre scalini.

    Dal cavallo delle braghe, l’acqua passa a lambirmi i polpacci.

    Di là dal bancone scorgo due strani tipi tatuati.

    «Bon dí», dico agli alieni. Ciascuno avrà venticinque anni. O qualcosina in meno.

    Ciao, biascica uno dei due giovani. Spento come un’ameba. Vive dietro il suo socio.

    «Tu assomigli da matti a Che Guevara!», esclama Frontman, decisamente borioso.

    «Me lo dicono tutti», confermo.

    Appoggio sul bancone la cassetta Made in Catania.

    Estraggo il cellulare dalla tasca interna della giacca.

    Lo porgo a Frontman; impossibile non apprezzare il dragone rosso-blu che gli lecca la carotide.

    Ameba, intanto, ha preso a fare fotocopie. I suoi tatuaggi consistono in penne, piume e alucce che gli volano sulle mani, sul collo e sulla nuca rapata.

    «Però…», commenta Il Borioso.

    Sobbalzo: sta girando e rigirando i pezzi del mio cellulare. L’ha smontato mentre mi distraevo a guardare Birdy Man.

    Il Borioso Dragon Boy fornisce delucidazioni: «Neanche a Pompei o a Ercolano trovano roba del genere: un autentico Nokia Lumia 520. Ah ah ah… Del 2012, credo. 2011 o 2012. Sì… Un miliardo di anni fa. Li facevano ancora con la batteria estraibile... Pensa… Sai che ti dico, Guevara? Questo giocattolino proponilo al Moma di New York. Vedrai che te lo pagano a peso d’oro».

    «Senti, amigo… Chi ti ha dato il permesso di smontare il mio telefono?».

    Ssssh!, mi zittisce.

    Mira e rimira la batteria. La sim. L’interno del reperto preistorico.

    Hm! Hm!, tossisco.

    Non ottengo riscontri.

    Alzo un pelino la voce: «Non sono venuto qui per una stima del mio smartphone! Minuto dopo minuto sto pagando servizi aggiuntivi che non ho mai attivato! I consumi telefonici ciucciano e ri-ciucciano direttamente dal mio conto bancario e…».

    Il Borioso Dragon Boy mi ferma: «Non serviva la gradita visita, allora. Bastava che tu chiamassi il 210120. Baldàn Mobile non vede l’ora di salutare gli affezionatissimi clienti. La chiamata è gratuita».

    «Ho già provato due volte! La prima, una certa Agnese mi ha sbattuto il telefono in faccia. La seconda, l’operatore Mauro come posso aiutarla ha consigliato al sottoscritto di ricorrere alle benedizioni di Sant’Antonio da Padova; il telefono gliel’ho sbattuto in faccia io».

    «Passami una laurea tascabile», ordina boriosamente Frontman.

    «Eeeh?!».

    Esci un documento…, traduce Birdy Man con marcato accento veneto. E tanta voglia di soccombere.

    Estraggo la carta d’identità dal portafoglio. Rovinata ai bordi ma ancora valida.

    La spiano sul bancone, tra arance e pezzi di cellulare.

    A questo punto, Dragon Boy mi spiazza con un sorriso a trentaduemila denti.

    Scuote un po’ la testa.

    Sempre sorridendo, chiama Ameba: «Frocy Man! Guarda! Come professione, Enzo Fellini svolge un lavoro da pelle d’oca: Commissario di polizia. Dunque, è un bravo agente in borghese! Sai che è pronto a chiuderti in galera se trova l’erbetta che nascondi in tasca? Eh? Ammettilo, Fro’: hai una gran voglia di farti sbattere dai maschiacci che affollano le gabbie…».

    Mmm…, fa Ameba. E smette di ammucchiare fotocopie.

    «Siete degli sfrontati!», esclamo. «Non si scherza su queste cose».

    «Guarda che è vero! La roba, ce l’ha! Mostragliela, Fro’».

    Ameba si fruga nelle tasche. Non trova niente.

    Implora: Portami in carcere, Fellini…

    Guardo Il Borioso: «Facciamo che in carcere ci finisci tu? Ecco il capo d’imputazione: perditempo».

    «Ehi! A me piacciono le donne! È per questo che te la prendi? Vediamo quanti anni hai e da dove vieni, simpatico difensore della bandiera arcobaleno…».

    Legge la carta d’identità.

    Poi riprende a blaterare: «A-ha! Cinquant’anni secchi… Nato a Rimini. Aspetta, aspetta, aspetta! Rimini, Fellini… Fellini, Rimini… Dì, Che Guevara, sarai mica parente di Federico Fellini?».

    «Non te lo dirò mai»,

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