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Amarene
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E-book220 pagine2 ore

Amarene

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Arnaut, un inglorioso critico teatrale, grazie a un vecchio libro di uno scienziato del sonno, scopre il modo di vivere i sogni in totale coscienza. Grazie a questo espediente malnato eccolo allora convincersi a capofitto in un baratro di elegante sfrenatezza, dividendosi fra il mondo concreto, sapido di invidia per l'amico Cadamosto e la sua amante Neiva, e intriso di sdegno verso tutto ciò che si dimostra pragmatico, realista o necessario; e un mondo intessuto dal groviglio mutaforma dei suoi sogni, profumato d’amore per quella visione che ha nome Berenice. In un universo doppio, sospeso in tempi e luoghi indefinibili, si recita questo esagerato melodramma, spassionato, sbruffone e pigro, vizioso e infantile, sulla cui ribalta si affanna il solo Arnaut, commiserandosi, districandosi fra l’una e l’altra parte con languida indolenza. Superbamente convinto di poter giostrare a suo piacimento gli eventi, scandagliando le pieghe più oscure di entrambi i mondi e lasciandosi trasportare dal fascino della finzione, egli è consapevole della rovina verso la quale si sta lasciando trascinare, ma, carmagnolescamente, accetta il suo destino, in nome della bellezza del dramma. Tutto precipiterà in un parossismo di vizi e ripicche, doppelganger, sdoppiamenti e ricongiungimenti, ombre, figure, marionette e sospetti grotteschi, fino a quando i due mondi non si troveranno irrimediabilmente a collidere. La protagonista è tuttavia Blanche, che come ogni ottima attrice apparirà per poco e se ne andrà senza farsi notare, ma lascerà un vuoto profondo sul palcoscenico e nei cuori della platea; fate tesoro d’ogni sua parola e d’ogni suo gesto, poiché sta tutto lì, il resto è costume.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mar 2020
ISBN9788831661935
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    Anteprima del libro

    Amarene - Luca Viti

    Amarene

    Fosche visioni in una bettola

    Quan­do aper­si gli oc­chi mi tro­vai in un vec­chio lo­ca­le di le­gno, una tra­di­zio­na­le lo­can­da dei bei tem­pi an­da­ti, quan­do an­co­ra l'eb­brez­za si co­lo­ra­va di sep­pia e gli uo­mi­ni sa­pe­va­no can­ta­re all'om­bra dei qua­dri­fo­gli. Non ri­cor­da­vo con pre­ci­sio­ne i fat­ti del gior­no, ma in­tuii che una leg­ge­ra piog­gia ave­va spor­ca­to il so­le, e un ti­mi­do ar­co­ba­le­no di pri­ma­ve­ra si era af­fac­cia­to fra i pa­laz­zi del­la cit­tà. L'avreb­be­ro chia­ma­to tem­po del­le stre­ghe se aves­si avu­to quin­di­ci an­ni di me­no; e già mi fi­gu­ra­vo le fat­tuc­chie­re ter­ri­fi­can­ti vo­lar­se­ne a ca­val­lo di sco­pe fra l’ar­co­ba­le­no iri­de­scen­te, al­zan­do la sot­ta­na ai pre­ti e mu­tan­do il co­lo­re ai ro­spi! Di­ver­ten­ti fan­ta­sti­che­rie da mar­moc­chi... a ogni mo­do, mi ri­tro­vai in que­sta bet­to­la ac­co­glien­te e te­po­ro­sa, se­du­to a un mas­sic­cio ta­vo­lo ap­pic­ci­co­so, col men­to nel­la mia ma­no de­stra e una si­ga­ret­ta spen­ta nel­la mia ma­no si­ni­stra. Mi ac­cor­si che una neb­bia per­pe­tua par­ti­va il lo­ca­le in oriz­zon­ta­le e nem­bi gri­gio-co­bal­to si spo­sta­va­no per la sa­la mos­si da leg­gia­dria me­di­ta­bon­da. Ac­ce­si la si­ga­ret­ta. Al mio ta­vo­lo, di­scus­sio­ni sen­za bel­lez­za ar­ti­sti­ca fa­ti­co­sa­men­te si fa­ce­va­no lar­go nell'osce­no; tro­va­vo che fos­se un dol­ce pia­ce­re son­nac­chio­so, ri­pa­rar­mi nell'ari­sto­cra­ti­ca po­sa del fu­ma­to­re. Quat­tro in­di­vi­dui bru­ta­li mi ac­com­pa­gna­va­no. Di que­sti ri­cor­do so­la­men­te un uo­mo al­to, fre­ne­ti­co e pre­oc­cu­pa­to, coi suoi oc­chi pic­co­li e ne­ri. Fra il gri­gio­re de­gli astan­ti, un fu­ga­ce bar­ba­glio az­zur­ro ra­pì la mia in­co­scien­za e mi­nò la no­bi­le po­stu­ra che ave­vo idea­to. In un an­go­lo lon­ta­no al­cu­ne don­ne par­la­va­no ele­gan­te­men­te sen­za che io po­tes­si udir­le. La leg­ge­ra av­ve­nen­za di una di quel­le mi av­vol­se nel­la se­ta dei suoi oc­chi az­zur­ris­si­mi e nel de­li­ca­to svol­ger­si dei suoi ca­pel­li bion­di. Ac­cor­ta­si del mio in­te­res­se, lei ri­cam­biò il mio sguar­do e con in­tra­pren­den­za mi re­ga­lò un leg­ge­ro sor­ri­so. Ri­cam­biai si­len­zio­sa­men­te por­tan­do con al­le­gria la si­ga­ret­ta al­le lab­bra. Lei pa­re­va di­ver­ti­ta e non trat­ten­ne un se­con­do sor­ri­so. Co­me scos­so da un bri­vi­do fui co­stret­to a mo­di­fi­ca­re il mio po­sa­re e tro­vai un al­te­ro e poe­ti­co si­gni­fi­ca­to nel mio nuo­vo mo­do di se­de­re. Do­vet­ti ap­pa­ri­re buf­fo, poi­ché lei non riu­scì di nuo­vo a trat­te­ne­re il sor­ri­so. L'or­ren­do fi­gu­ro al mio fian­co si ac­cor­se del­lo scam­bio di cor­te­sie e com­pre­so il gan­cio mi al­zò con spi­ri­to d'ar­rem­bag­gio. Lo fre­nai con po­ca con­vin­zio­ne, ma sic­co­me in lui ri­co­nob­bi gan­cio e con­tral­ta­re, le mie pro­te­ste fu­ro­no tie­pi­de, e mi la­sciai con­dur­re fal­sa­men­te di con­tro­vo­glia!

    Mi sor­pre­si dun­que a quel lan­gui­do ta­vo­lo e fu l'ener­gu­me­no, mia gui­da, co­lui che esor­dì per pri­mo. Un ovat­ta­to ri­ver­be­ro echeg­giò le sue pa­ro­le osce­ne e il se­man­ti­co si per­se fra la mia fin­ta di­stra­zio­ne. Al­cu­ne leg­ge­re ri­sa­te lo ac­col­se­ro e quel­lo, spa­lan­can­do i suoi mi­nu­sco­li oc­chi, s'im­pet­tì tron­fio e ar­ri­schiò un af­fon­do. Dal ciuf­fo do­sa­to dei miei ca­pel­li sbir­ciai quel­lo sguar­do az­zur­ro. Si­len­zio­so se­det­ti al lo­ro ta­vo­lo e la­sciai che il du­ca mio di­scen­des­se fra i cer­chi in­si­dio­si di quei lo­ro giu­di­zi si­len­ti. Non mi cu­rai di un so­lo det­ta­glio che non fos­se lei, pur­pu­rea ro­sa di un giar­di­no di­sa­dor­no. Qua­le un­ta pe­ro­ra­zio­ne tes­se­va quell'im­bo­ni­to­re da ban­ca­rel­la, e con qua­le fie­rez­za avan­za­va il suo vi­ri­le fan­dan­go; si lan­ciò nei mean­dri di un ispi­do bo­sco fit­to di tra­me oscu­re e mac­chi­no­se, col suo so­lo pul­sa­re co­me ar­ma (in­no­cua e in­con­clu­den­te, fiac­ca quan­to iner­me). Il suo va­gheg­gia­re sva­nì len­ta­men­te in dis­sol­ven­za, smi­si di ascol­ta­re. Por­si ele­gan­te la mia ma­no mi­glio­re agli oc­chi az­zur­ri e mi pre­sen­tai col mio no­me: Ar­naut. Lei sor­ri­se e tras­se da una giac­ca blu stret­ta al­le spal­le, una pen­na blu, e d'in­chio­stro co­per­se il dor­so del­la mia ma­no. La guar­dai stra­ni­to ma lei mi in­vi­tò a os­ser­va­re con più at­ten­zio­ne; ab­bas­san­do lo sguar­do al­lo­ra ral­le­grai il mio ani­mo tur­ba­to; al­cu­ni nu­me­ri, ri­don­dan­ti e mu­si­ca­li all'ascol­to, de­li­nea­va­no il pro­fi­lo di un nu­me­ro te­le­fo­ni­co. For­se che fos­se col­le­ga­to al suo ap­pa­rec­chio? Ami­ci let­to­ri, que­sto non vo­glio per ora sve­lar­lo. Vol­tan­do di­strat­to il ca­po, sor­pre­si il du­ca mio di nuo­vo at­tac­ca­to al­le ami­che di lei. Mi striz­zò l'oc­chio (fu fa­ti­co­so il no­tar­lo, pic­co­li com'era­no) e al­zan­do­si mi as­se­gnò a ve­det­ta di quel­la lu­di­bria schie­ra di bel­lez­ze; la sua as­sen­za avreb­be por­ta­to in­te­res­san­ti po­li­bi­bi­te! Par­ti­to che fu, su­bi­to i lo­ro oc­chi fu­ro­no su di me che ero ri­ma­sto. Mi in­for­ma­ro­no pur­trop­po che il mio com­pa­gno non le ave­va per nul­la con­vin­te e ave­va­no pia­ni­fi­ca­to una ra­pi­da e se­gre­ta eva­sio­ne pri­ma di un suo ri­tor­no. Ve­lo­ce chie­si a Lei da­gli oc­chi ce­ru­lei qua­le no­me avrei do­vu­to ri­cor­da­re e lei ri­spo­se spi­glia­ta: Be­re­ni­ce. La sua Bel­lez­za mi fol­go­rò ro­ve­scian­do l’in­te­ro mon­do in un bian­co e ne­ro, co­sì ele­gan­te... Si trat­ta­va di una Bel­lez­za pro­pria e ipe­ru­ra­ni­ca, esta­ti­ca, sen­za tem­po. Be­re­ni­ce... An­co­ra al­la cop­pa del suo no­me be­ve­vo avi­do, che le com­pa­gne già pren­de­va­no per l’usci­ta e lei, di­spia­ciu­ta del fat­tac­cio, la­sciò ca­de­re in se­gre­to un in­vi­to. Lo rac­col­si dal pa­vi­men­to e l'aper­si. Le sue in­di­ca­zio­ni por­ta­va­no a un lo­ca­le che già ave­vo va­ga­men­te sen­ti­to no­mi­na­re, l' Oeu­vre, un de­li­zio­so ca­fè af­fac­cia­to su una via ciot­to­lo­sa, in ri­va a un len­to e pla­ci­do na­vi­glio. Mi sa­rei ov­via­men­te do­vu­to pre­sen­ta­re sen­za il du­ca mio. Non po­tei ac­con­sen­ti­re, già se ne era­no già an­da­te con la Bo­rea e io in fret­ta mi tro­vai co­stret­to a pren­de­re una de­ci­sio­ne. Dan­zai su me stes­so, ri­ti­rai sciar­pa e man­tel­lo at­ten­to che i miei com­pa­ri, pro­stra­ti ai se­ni di una ca­me­rie­ra ge­ne­ro­sa, non si av­ve­des­se­ro del mio pas­sag­gio, e sva­nii nel fu­mo pas­san­do dal­la pe­san­te por­ta mas­sic­cia. Non fui ca­pa­ce di trat­te­ne­re un ri­so smar­gias­so, mi im­ma­gi­nai il mio co­rag­gio­so ami­co re­ca­re be­ve­rag­gio a un pan­co­ne de­ser­to, e col suo espres­sio­na­re sgo­men­to e tra­boc­can­te d'ira, ret­to sui suoi lom­bi da gin­na­sta, ma­le­di­re que­sto flac­ci­do cor­po d'Ar­naut...

    Il mattino ha l’oro in bocca

    Per i bou­le­vard di una cit­ta­di­na non ne­ces­sa­ria­men­te fran­ce­se mi ri­tro­vai dun­que a va­ga­re spen­sie­ra­to, ve­la­ta­men­te tron­fio di un'este­ti­ca im­pec­ca­bi­le, slac­cian­do una cra­vat­ta bor­deaux ab­boz­za­vo un sor­ri­so sghem­bo trat­te­nen­do im­pe­rio­sa­men­te una si­ga­ret­ta. O qua­le brez­za scom­pi­gliò d'un trat­to i miei ca­pel­li cor­vi­ni! De­si­de­rai es­se­re bion­do, e lo fui, ma con­sta­tan­do il tra­di­men­to del­le mie aspet­ta­ti­ve, riar­ran­giai la mia ac­con­cia­tu­ra ed es­sa tor­nò al co­lo­re ori­gi­na­le. Fi­le di ve­tri­ne fu­ro­no i miei spec­chi en­tro i qua­li fret­to­lo­si com­pa­ri­va­no e re­pen­ti­na­men­te s'am­mu­to­li­va­no rap­pre­sen­ta­zio­ni oscu­re ma lu­cen­ti del­la mia per­so­na. Ne fui estre­ma­men­te fe­li­ce. Sec­co il ru­mo­re del­le mie scar­pe di ver­ni­ce s'al­za­va al con­tat­to con l'asfal­to, non ave­vo la mi­ni­ma idea cir­ca la de­sti­na­zio­ne del mio di­va­ga­re, ep­pu­re, ugual­men­te pro­se­gui­vo, im­pet­ti­to e sbruf­fo­ne, me­ra­vi­glian­do me stes­so a ogni luc­ci­can­te no­vi­tà. Quan­do mi sof­fer­mai all'al­tez­za d'un car­tel­lo, vol­tan­do la mia at­ten­zio­ne di qua e di là, de­si­de­rai che fos­se gior­no, e gior­no di­ven­ne! Un so­le lim­pi­do s'ac­ce­se co­me di col­po de­sta­to, e qual­che ab­boz­zo di nu­vo­la da lu­gu­bre gri­gio oscu­ro can­giò in un chia­ro co­lor mar­mo di ce­ru­leo ve­na­to. E la fol­la! Ovun­que mi gi­ras­si, dal nul­la ap­par­se­ro don­ne dai co­lo­ri sgar­gian­ti, aran­cio­ni, e az­zur­ri e ver­di, con bor­se e cap­pel­li e un pas­so al­le­gro e fre­ne­ti­co; e uo­mi­ni con im­per­mea­bi­li bei­ge e ka­ki, e oc­chia­li da vi­sta dal­la spes­sa mon­ta­tu­ra e va­li­get­te e par­la­va­no tut­ti ru­mo­ro­sa­men­te sor­seg­gian­do caf­fè in bic­chie­ri di car­ta o se­du­ti a spa­ru­ti ta­vo­li dal­le sot­ti­li gam­be ri­cur­ve o fer­mi di fron­te a ve­tri­ne me­ra­vi­glio­se co­strui­te di car­ta co­lo­ra­ta. Dal pro­fon­do si­len­zio di una not­te so­li­ta­ria, il suo­no chias­so­so del gior­no pro­rup­pe en­tro ogni an­frat­to; gri­da, e ri­sa­te, e bi­ci­clet­te e il pas­so di scar­pe tut­te in­sie­me per la via prin­ci­pa­le, e i fio­ri e gli al­be­ri di pic­co­le ver­di aiuo­le sal­va­te al ce­men­to da ma­no pie­to­sa. Tut­to per­va­se e ali­men­tò il mio gen­ti­le stu­po­re e sor­ri­den­do m'av­viai ver­so me­ri­dio­ne, se­guen­do lo spe­gner­si dei lam­pio­ni e l'aprir­si del­le im­po­ste. È mat­ti­na dun­que? Pen­sai per­spi­ca­ce, all'Oeu­vre ser­vo­no il caf­fè e un'ot­ti­ma tor­ta di me­le con ge­la­to al­la cre­ma.

    Un buffo cloche e un panamà

    Vol­tai la ma­no de­stra af­fin­ché po­tes­si con­trol­la­re il nu­me­ro sul dor­so, ma in una stra­na oscu­ri­tà te­po­ro­sa riu­scii so­la­men­te a scor­ge­re la pal­li­da epi­der­mi­de pri­va d'ogni gra­fe­ma. Co­me stor­di­to, la­sciai ri­ca­des­se l'in­te­ro brac­cio ed es­so spro­fon­dò mor­bi­da­men­te. Tras­si un pro­fon­do re­spi­ro e co­me vol­tan­do­mi ri­tro­vai su­bi­ta­men­te la stra­da e ri­tro­vai la cit­tà splen­den­te. Qua­le sor­ti­le­gio... Per po­co eb­bi pen­sie­ri tur­ba­ti, ma fin­gen­do in­dif­fe­ren­za pro­se­guii il mio cam­mi­no. Un im­po­nen­te edi­fi­cio pia­no sfi­lò al­la mai si­ni­stra, con le sue tar­ghe di mar­mo lu­ci­do, i suoi bu­sti e le sue in­se­gne dai ca­rat­te­ri an­ti­chi. Pre­si per il can­cel­lo prin­ci­pa­le; can­di­de Ma­gno­lie co­pri­va­no il giar­di­no che si apri­va all'in­ter­no, pan­chi­ne ra­min­ghe sta­va­no all'om­bra del­le fron­de, ra­mi in­trec­cia­ti sen­za pe­so in­cor­ni­cia­va­no co­lon­ne mas­sic­ce e se­ve­ri sar­co­fa­gi echeg­gia­va­no il mo­ni­to cu­po dei fa­sti pas­sa­ti. Una sal­ma pa­ci­fi­ca ri­po­sa­va oriz­zon­ta­le so­pra un ba­sa­men­to re­cin­ta­to, dal fo­glia­me qual­che spa­ru­to ri­chia­mo d'uc­cel­lo. Pro­se­guii fi­no a una pic­co­la via, da quel­la a un por­ti­ca­to, svol­tai. Pia­no si sco­stò un pa­laz­zo gial­lo­gno­lo e pas­sa­ta la cal­le sor­se­ro un pic­co­lo pon­te e un pla­ci­do na­vi­glio. Si­ste­mai il col­let­to del­la mia ca­mi­cia scu­ra e le spal­le d'una bian­ca giac­ca ges­sa­ta blu. Ec­co il di­scre­to ca­fè apri­re una cop­pia di om­brel­lo­ni bor­deaux, ec­co gli agi­li ta­vo­li­ni in fer­ro bat­tu­to e le snel­le se­die in sti­le mo­der­no. Ed ec­co lei, so­la, a un so­li­ta­rio break­fa­st ma­lin­co­ni­co. Sor­ri­si e la rag­giun­si. Fu sor­pre­sa di ve­der­mi e ri­cam­biò il sor­ri­so apren­do i suoi me­ra­vi­glio­si oc­chi ce­ru­lei. Sen­za par­la­re mi in­vi­tò a pren­de­re po­sto, io mi se­det­ti e ri­ma­si a se­gui­re la li­nea dei suoi ge­sti. Tol­si il pa­na­mà e lo ap­pe­si al­lo schie­na­le di una se­dia vuo­ta. Ave­vo un cap­pel­lo? A quan­to pa­re... Scam­biai un dol­ce sguar­do con la don­na e tras­si dal­la ta­sca in­ter­na del­la giac­ca un por­ta­si­ga­ret­te d'ar­gen­to; mi of­fer­se un fiam­mi­fe­ro. Fu­mam­mo en­tram­bi, e quan­do uno snel­lo ga­rçon con una bian­ca ca­mi­cia e un ne­ro pa­pil­lon ven­ne al no­stro ta­vo­lo, or­di­nam­mo del caf­fè e del­la tor­ta di me­le con ge­la­to al­la cre­ma. Lei pre­se a rac­con­ta­re del­la sua ele­gan­za e del­la sua pas­sio­ne per gli abi­ti da cock­tail. Mi rac­con­tò del ma­re e di co­me i suoi ca­pel­li fos­se­ro me­ra­vi­glio­si co­per­ti dal­la sal­se­di­ne. Po­san­do de­li­ca­ta la ce­ne­re mi par­lò con leg­gia­dria e io l'ascol­tai sen­za un giu­di­zio, in­ti­ma­men­te con­vin­to non ci fos­se ne­ces­si­tà di giu­di­zio. Ama­va le gue­pie­re e le bal­le­ri­ne. Mi rac­con­tò di un suo viag­gio in cam­pa­gna, nel Wes­sex; le chie­si se aves­se mai let­to... lo con­fer­mò con un pa­ca­to cen­no, ma pre­fe­ri­va di gran lun­ga il ven­to fra le fron­de pec­ca­mi­no­se de­gli al­be­ri. Ar­ri­vò il no­stro break­fa­st, lei aprì un pic­co­lo faz­zo­let­to bian­co e lo pog­giò sul­le sue gi­noc­chia. De­li­ca­ta­men­te ta­gliò la tor­ta e l'ac­com­pa­gnò con il ge­la­to. La fis­sai sor­seg­gian­do il caf­fè. Mi chie­se da do­ve ve­nis­si, ma stra­na­men­te non sep­pi ri­spon­der­le; in­di­cai il mon­do co­me mia ori­gi­ne e lei ri­se un po­co sug­ge­ren­do­mi di re­strin­ge­re il mio luo­go di na­sci­ta al mio so­lo in­tel­let­to. Mi con­fi­dò l’amo­re per al­cu­ni li­bri, vo­lu­mi dal­la co­per­ti­na ri­gi­da, ver­de, sca­va­ta d’in­ta­gli do­ra­ti. Nei pi­gri po­me­rig­gi esti­vi, si se­de­va fra le er­be, coi suoi enor­mi oc­chia­li da so­le, fra pa­laz­zi co­lor dell’oro e ce­spu­gli di lam­po­ni, e ri­ga do­po ri­ga scen­de­va sca­le di cri­stal­lo fi­no a fiac­chi fi­na­li. Era co­sì ot­to­cen­te­sca e co­sì au­sti­nia­na la sua esta­te. Muo­ven­do lo sguar­do, riu­scii a scor­ge­re di nuo­vo i gra­fe­mi sul dor­so del­la mia ma­no. Mi rac­con­tò del­la per­di­ta di un amo­re lon­ta­no, mi de­scris­se al­cu­ne la­cri­me, non do­ve­ro­sa­men­te le sue, e mi ac­cen­nò a let­te­re mai aper­te. Mi mo­strò la fo­to­gra­fia di una vil­la coi bal­co­ni co­lor sab­bia e si in­ter­ro­gò più vol­te del mio pas­sa­to, ma io non sep­pi dar­le ri­spo­sta al­cu­na. Stra­na­men­te, d’un trat­to, mi ac­cor­si di non ave­re mai udi­to la sua vo­ce: ca­la­ta sui no­stri cor­pi, mil­le­na­ria e ina­mo­vi­bi­le sta­va co­me una sor­da e pie­na cap­pa di si­len­zio e so­lo in quell'istan­te sep­pi del­la sua esi­sten­za. Ep­pu­re riu­sci­vo a com­pren­de­re il dol­ce pe­rio­da­re di lei che ha no­me Be­re­ni­ce, Be­re­ni­ce? Pia­no si al­lon­ta­nò dal suo ca­ro di­scor­so, co­me dis­sol­ven­do­si, e in un istan­te mi fu più vi­ci­na. Tol­se il suo pic­co­lo cap­pel­lo sco­pren­do i suoi ca­pel­li mor­bi­di e buf­fi... Ave­va un cap­pel­lo? Con quel­la fa­scia co­lor sal­mo­ne, co­me ave­vo po­tu­to non no­tar­lo? Tro­vai le sue ma­ni nel­le mie e il suo vi­so lie­ve­men­te in­cli­na­to sco­per­se uno stra­no luc­ci­co­re. Be­re­ni­ce...

    La ba­ciai, lan­gui­do, con un ar­ti­sti­co con­te­gno, più di una vol­ta. Sor­ri­den­do, poi, pre­si il suo brac­cio sot­to il mio brac­cio e in­sie­me pas­seg­giam­mo lun­go il na­vi­glio pla­ci­do, io col mio pa­na­mà lei col suo gio­co­so clo­che an­ni '20. E fu co­me non udi­re suo­no al­cu­no, di nuo­vo, men­tre fu­man­do tran­quil­la­men­te su un pic­co­lo bal­co­ne no­tai la tre­men­da al­ti­tu­di­ne a piom­bo su una la­stra az­zur­ro­gno­la; mi ri­tras­si e il suo ri­de­re si per­se in un'ovat­ta­ta sor­di­tà. La tua vo­ce, Be­re­ni­ce.

    Ancora in terra, Arnaut!

    Ten­tai d'al­za­re il mio brac­cio ma que­sti pe­san­te­men­te ri­cad­de a un pal­mo dal mio na­so, al che mi ri­tras­si di nuo­vo, ma ora, co­me im­prov­vi­sa­men­te de­sto, un'oscu­ri­tà pe­san­te ca­la­va sui miei oc­chi. Ten­tai nuo­va­men­te d’al­za­re il brac­cio, ma es­so or­ri­bil­men­te si tra­sci­na­va e ri­ca­de­va su se stes­so e sul­la pro­pria flac­ci­di­tà. Ne af­fer­rai il pol­so e d’im­prov­vi­so fui per­va­so da un bru­cio­re fre­ne­ti­co, mi­glia­ia di pic­co­li aghi ar­den­ti s’in­fran­se­ro l’uno sull’al­tro, vol­li ur­la­re in que­st’oscu­ri­tà li­mi­na­le ma quan­do al fi­ne mi tro­vai, mi sor­pre­si se­du­to in un let­to so­li­ta­rio e si­len­zio­so. Sco­per­si il mio gra­ci­le cor­po e di quell’in­cre­di­bi­le fer­men­to, non ri­ma­se al­tro che un fa­sti­dio­so do­lo­ruc­cio all’ar­to che pia­no ri­pren­de­va sen­si­bi­li­tà. Lo vol­tai cau­ta­men­te e con­trol­lai il dor­so del­la mia ma­no; nes­su­na trac­cia di quel­le ci­fre blu e ton­deg­gian­ti. D’un trat­to un bar­ba­glio, nell’oscu­ri­tà tras­si a me il cas­set­to di un co­mo­di­no adia­cen­te al mio gia­ci­glio. Fru­gai fi­no al­la ri­cer­ca di car­ta e pen­na; cie­co ri­por­tai su un fo­glio una va­ga sen­sa­zio­ne e pre­sto, quan­do il mio guar­da­re si abi­tuò al buio, la scor­si: in­cer­ti e so­vrap­po­sti, al­cu­ni se­gni si as­sem­bla­va­no in un ri­go oriz­zon­ta­le, che fi­no al­la fi­ne del­la nar­ra­zio­ne ri­mar­rà mi­ste­rio­so e oscu­ro a voi let­to­ri. Lo

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