La sirena nera
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Emilia Pardo Bazán
Emilia Pardo Bazán (A Coruña, 1851 - Madrid, 1921) dejó muestras de su talento en todos los géneros literarios. Entre su extensa producción destacan especialmente Los pazos de Ulloa, Insolación y La cuestión palpitante. Además, fue asidua colaboradora de distintos periódicos y revistas. Logró ser la primera mujer en presidir la sección literaria del Ateneo de Madrid y en obtener una cátedra de literaturas neolatinas en la Universidad Central de esta misma ciudad.
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Anteprima del libro
La sirena nera - Emilia Pardo Bazán
Table of Contents
Emilia Pardo Bazán - La sirena nera
Emilia Pardo Bazán - La sirena nera
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
«Ai confini tra la vita e la morte» di Diego Símini
Edizioni in italiano di opere di Emilia Pardo Bazán.
Profilo biografico
Emilia Pardo Bazán - La sirena nera
titolo originale: La sirena negra
traduzione e cura Diego Símini
Quest’Opera è stata pubblicata con il sussidio ricevuto dal Ministero della Cultura e dello Sport della Spagna.
Musicaos Editore, 2021
Via Arc. Roberto Napoli, 82 | 73040 Neviano (Le)
tel. 0836618232 | info@musicaos.it | www.musicaos.org
Musicaos Editore
Aprile 2021 | Vela Latina, 4
Progetto grafico | Bookground
Isbn 9791280202154 cartaceo
Isbn 9791280202178 ebook
Emilia Pardo Bazán - La sirena nera
traduzione e cura di Diego Símini
I
Arrivato all’angolo tra la Red de San Luis e la Calle del Caballero de Gracia, mi allontanai dal gruppo con cui ero uscito dal teatro Apolo, dove avevamo assistito a una prima coronata da successo. Se parlassi ad alta voce direi «gruppo di amici» ma, per me stesso, che bisogno c’è di indorare la pillola? Spero di non avere nessun amico, non tanto a causa dei potenziali candidati, quanto per mia scelta. Se talvolta mi sono lasciato prendere dal desiderio di comunicare, di espandermi, di esprimere la mia anima, se mi è capitato di esibire un poco del suo oscuro contenuto, dopo mezz’ora mi sono trovato confuso e affranto, come fossi un custode del tempio ebraico che avesse consentito a un profano di toccare l’arca dell’Alleanza.
Perciò mi guardai bene dall’intervenire nella discussione che era nata circa l’«idea» della pièce. L’idea in questione per me è di casa: è la sesta volta quest’inverno che viene sfruttata. Stando ai recitativi, alle canzoni, ai duetti e ai concertati di quella zarzuela, la vita è bella, l’allegria è sana e chi non va in giro sprizzando soddisfazione da tutti i pori è uno stupido. Non so perché, quella questione mi preoccupava, forse a causa della discussione avviata dal gruppo, che mi colpiva il cervello come un rullo di martellate secche e leggere su una lastra sonora. Nessun altro pensiero, per chi è in vita, potrà rivestire più interesse di quanto ne rivesta la qualità della vita stessa.
D’altronde, sebbene preoccupato, non smettevo di osservare una serie di particolari insignificanti, mediante quella capacità di sdoppiamento propria dei meditativi sensuali come me. Sotto i miei passi, il marciapiede risuonava metallico. La notte era serena, il freddo pungente; riparato dal passamontagna di maglia di seta, il mio respiro si liquefaceva in goccioline ghiacciate che mi inumidivano la barba. Mi venne in mente di prendere una vettura, ma poi scelsi di proseguire a piedi. Il freddo mi stimolava il pensiero, e in quell’istante decisi di affrontare il problema, sfruttando tutte le occasioni che mi potessero condurre alla soluzione, non a beneficio del genere umano, ma di me stesso. Il «genere umano» è espressione priva di senso: non vi è umanità senza uomini. Se si arriva ad esprimere qualcosa per il genere umano, ci pensano gli uomini a smentire subito l’affermazione. Mentre rimuginavo, tirai fuori il fazzoletto e mi asciugai i ghiacciolini che mi costellavano la barba cosparsa di brillantina profumata.
Quando svoltai per via Jacometrezo, le mie elucubrazioni furono interrotte da una creatura dal mantello grigio e dalle occhiaie color carbone. Quale sarà il parere sulla vita di questa donna, che scaccio infastidito quasi fosse una mosca? Non occorre chiedere, è prevedibile: anche la psicologia elementare basta a rendere noto il fondo di quell’animo. Le chiamano di vita, per antonomasia, e addirittura di vita allegra. Per dimenticare un istante l’allegria della propria vita, esse fumano, gridano, bisticciano, si abbruttiscono, lanciano improperi. Il loro ideale, il loro sogno dorato, è di coricarsi presto e dormire della grossa.
Cento passi più avanti, un guardiano notturno si inclina su di un uomo steso a terra. Dinnanzi al mio gesto di aiuto e alla mia domanda, il vigilante mi risponde sollecito, con una compassione sdegnosa per il caduto. «Niente, il solito: un ubriacone che ogni sera crolla a terra esattamente nello stesso angolo... Non arriva mai a casa, che è qui, a due passi... Un peccato: è un bravo falegname, con cinque piccoli... stanno tutti in un cantuccio...».
Quando lo facciamo alzare, qualcosa di liquido, viscoso, mi scivola sulla mano, che scuoto con ripugnanza. È sangue. «È ferito», dico al guardiano; lo portiamo con grandi precauzioni al suo domicilio, un fabbricato stretto e fatiscente, tipico delle vie più centrali della Madrid antica. Esce la moglie, impastata di sonno, spettinata: vede la frattura alla testa del marito, impreca e si dispera: «E ora giù soldi per il medico e per lo speziale!». Sentendo i tentativi consolatori del custode – invece di un ferito, potevamo aver portato un morto, se avesse preso diversamente l’orlo del marciapiede –, la poveretta ribatte: «Un morto non soffre. Lui dice sempre che noi poveri stiamo bene solo da morti».
Lasciai un duro per i medicinali e chiesi un po’ d’acqua per lavarmi la mano macchiata. Spuntò dal retrobottega una bacinella così sudicia che preferii tamponarmi soltanto col fazzoletto. Mi allontanai in preda a un prurito nervoso, a una collera sorda. La serata non mi offriva altro che impressioni dal «colore oscuro», come le parole lette da Dante sopra la porta dell’Inferno. Eppure, con impressioni del genere si scrivono pièce di successo in cui il vizio e l’alcolismo sono fonte di intrattenimento. La saggezza evidentemente consiste nel guardare tutto da un punto di vista gaio e spensierato: non riesco ad adottarlo. Peggio per me, che diamine!
Mi rivolsi un altro rimprovero. Pur non credendo nell’umanità, concetto vuoto, parola da meeting elettorale, un istinto di estetica morale mi induce a essere pietoso con i disgraziati e con gli insignificanti, quando me li trovo davanti. Mi pesava di non esser rimasto a prendermi cura del falegname, di non avergli procurato un medico e medicine e perfino di non avergli fornito consigli per liberarsi dall’alcol.
Le cause della mia inazione? Due, che indico subito.
La prima, una sorta di pudore, di vergogna nel praticare ciò che viene comunemente definito il bene, la beneficenza, e che non comprendo in senso relativo ma in senso assoluto, dato che vi dedico l’esistenza intera. Fare qualcosa di caritatevole implica che i beneficiari ti si attacchino caninamente, o almeno che ti esprimano gratitudine e ti elogino per la tua bontà: tutte fandonie, giacché quale bontà può rivelare il privarsi di quanto ci avanza?
La seconda, un timore dell’azione, che non posso (né voglio) superare. L’azione è nemica delle fantasticherie e delle riflessioni, che rivestono per me una singolare attrazione. Non esiste azione più nobile di un’idea: pensare ciò che sto pensando vale più che correre a casa di Alejandro San Martín (1) e portarlo al capezzale di un ubriacone che ha battuto la testa su una pietra sporgente. Bah! Affari suoi. Sbornia più, sbornia meno...
Con un’alzata di spalle mi avvio senza fretta verso casa. Sulla piazzetta sono indaffarati, in piena notte, alcuni operai della rete fognaria e dell’acquedotto. A quanto pare, il loro operato non si deve interrompere. Un rigagnolo d’acqua gelida corre ai loro piedi. Per non tramutarsi in pezzi di ghiaccio hanno acceso un falò, al quale si avvicinano a turno, sbuffando e sgranchendosi le mani intirizzite. Per evitare che i passanti possano subire infortuni, hanno appeso un fanalino indicatore sui sampietrini divelti e ammucchiati. Prima di fare quel lavoro non preferirei... qualcos’altro? Forse anche loro, come le coriste che un’ora fa stonavano all’Apolo, considerano che la vita
è saporita e buona,
dono divino
di incanti pieni?
Ancora più avanti vanno sul marciapiede, radenti i muri, guardinghe, due donne vestite non male e con belle calzature: ecco un incontro che potrebbe essere divertente. Le riconosco: sono le sarte del terzo piano del mio stabile, ragazze di San Sebastián, che si sono stabilite a Madrid. Le incontro spesso per le scale. La maggiore è graziosa, ancora fresca, nonostante il lavoro e la vita sedentaria. La minore è zoppa, la sua gamba più corta le fa fare mentre cammina saltelli da pernice alquanto ridicoli. Mi metto al loro fianco e offro loro la mia compagnia: mi era venuto il capriccio di sapere se considerano bella la vita. Esse presumono che io abbia un altro fine, sconveniente ma piacevole. La maggiore si arroga la conquista, la zoppa, nella sua umiltà da invalida, non può immaginare che qualcuno le presti attenzione. Per entrare in argomento, chiedo loro se si trovino bene a Madrid e come vadano gli affari.
– Normale. Per ora non si sa... le signore sono proprio strane! Chissà quando ci faremo l’abitudine, ai loro capricci...
Da dove venivano? Curiosa combinazione! Dallo stesso teatro, solo che all’uscita alcune amiche avevano offerto loro una tazza di cioccolata... Lo spettacolo? Carino, una musica brillante.
– E che ne pensate dell’idea secondo cui la vita è bella? Pilita...Manola... Siete contente di essere nate?
La risposta arrivò tra risatine e battute. Pensavano scherzassi, e non volevano rimanere indietro. Probabilmente (ho pensato dopo), queste due api il cui pungiglione è l’ago per cucire non si ritengono infelici. Mi considerai ingenuo per aver scelto proprio quelle due per la mia indagine. Volendo cambiare argomento, feci loro un po’ di complimenti insipidi, prima di lasciarle davanti al portone di casa. Salire insieme a loro, a braccetto, sarebbe stato un supplizio, per cui preferii riprendere la mia perlustrazione.
Le vie di una capitale popolosa, soprattutto d’inverno, nel cuore della notte, hanno un fascino particolare. Che mistero infinito dietro i portoni imponenti dei palazzi nobiliari, dietro le finestre che sembrano occhi su cui sono calate le palpebre nel sonno! Perché questa sospensione della vita, in tutta la città allo stesso tempo? Tutti quanti rifugiati nelle stanze da letto, misere o confortevoli: non è come se fossero morti? Ogni giaciglio, chiuso e tiepido, non è forse un’anticamera del sepolcro? E questo silenzio, questa pace letale della notte, non è forse l’unico momento delizioso, dolce, pacifico, delle ventiquattr’ore tessute dal ciclo giornaliero?
Quando, casualmente, un nottambulo ne incontra un altro, non prova forse, ognuno dei due, un moto di sfiducia, di cauta curiosità? Solo le anime perse dalla miseria, dalla delinquenza o dall’amore clandestino vegliano e circolano fuori dal loculo delle stanze da letto. Se di notte vedo qualcuno mal vestito, è un mendicante o un malfattore; se vedo un borghese elegante, col passamontagna, il collo del cappotto rialzato, è un amante occulto. Invece io non sono né l’una né l’altra cosa, ma anch’io vago, intirizzito, intorpidito dal freddo mattutino, diverso da quello del tramonto, perché è aggravato dallo sfinimento nervoso causato dalla mancanza di sonno. Questo pensiero mi fa fermare davanti alla facciata bianca, corretta, tranquillizzante, del Teatro Real. Che ci faccio per la strada a battere i denti? Non ho forse la mia alcova spaziosa, silente, appartata, il mio bel letto comodo, di bronzo dorato, con un sommier e un materasso che ti invitano a sdraiarti, con un piumone gonfio di piume d’anatra, bello soffice, che appena lo tocchi salta e si comprime per poi tornare a gonfiarsi?
«Quanti me lo invidierebbero?», pensai, ma nell’iniziare la ritirata verso la mia tana, mi mancò la forza di volontà e mi avviai per la via Arenal. Si diffondeva nel firmamento una trasparenza livida: l’aurora. La chiesa di San Ginés aprì le porte per la prima messa. Salii le scale, attraversai l’atrio, mi infilai nella sacrestia in penombra e da una porticina entrai nella navata. Calpestare la juta a terra fu piacevole per i miei piedi che erano due mucchi di grandine. Una panca si offrì, in un angolo, alla mia stanchezza, mi ci adagiai e cedetti, incapace di resistere, esausto, esanime, a un improvviso letargo, di quelli che colpiscono il cavaliere sul suo cavallo o il timoniere con la barra in mano.
Svegliandomi, a giorno fatto, non ricordavo dov’ero e fu grande la mia sorpresa nel vedere il retablo dell’altar maggiore e, accanto a me, un pulpito. A dirla proprio tutta, mi ero svegliato perché il sagrestano mi dava piccole pacche sulla spalla e mi sussurrava nell’orecchio un «ssst, eh! Signore!» alquanto adirato. A quanto pare è diffusa e classificata la categoria dei nottambuli a cui piace sonnecchiare tra le serene mura delle chiese, a notte fonda, e i sagrestani nutrono una legittima ostilità per quella razza, che scacciano come cani intrusi.
Mi genuflessi e uscii estenuato dal tempio, con il disagio della funzione fisiologica interrotta. Presi nella prima bettola un caffè caldo per riprendermi, ma ebbe l’effetto contrario, aumentò il mio bisogno di riposo, la mia nostalgia della morte temporanea, la mia sete di nulla. Saltai su una vettura e detti l’indirizzo. Assonnato e con la testa ciondoloni sul petto per la stanchezza, in un angolo del clarens, dove non reclinavo il capo per paura delle impurità promiscue accumulate da chissà quante chiome, pensavo che