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Il segreto di Giano
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Il segreto di Giano
E-book169 pagine2 ore

Il segreto di Giano

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Info su questo ebook

La verità è come un elastico, afferma l’ispettore Lo Ciuffo. Malleabile, proteiforme e sfuggente come l’identità di Giano Bifronte. Si fatica a comprendere la realtà e talvolta non rimane che vagare come il professor Scriboni nelle lande della fantasia, dove il surreale appare meno enigmatico, o forse solo più affascinante, della quotidianità. Comico e tragico si intrecciano, mentre in lontananza si ode un ululato antico, una disperata richiesta di senso. Il segreto di Giano è una silloge di quattordici racconti, il cui protagonista assoluto è l’uomo di oggi, ritratto con i colori accesi dell’umorismo e di una immaginazione sfumata, in alcuni casi, di nero e di grottesco.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ago 2015
ISBN9786050403244
Il segreto di Giano

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    Anteprima del libro

    Il segreto di Giano - Luca Rachetta

    Copyright

    Titolo del libro: Il segreto di Giano

    Autore: Luca Rachetta

    Progetto grafico e impaginazione: Michele Pinto

    Immagine di copertina: Angela Tonni Perucci

    © 2015, Luca Rachetta

    Self publishing

    e-mail: l.rachetta@libero.it

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta dell’Autore.

    LA MISSIONE DI SAN SILVESTRO

    La neve scendeva a grandi fiocchi, quel 28 dicembre. Quei grandi fiocchi che allietano il cuore di tutti: quello di chi li osservi al calduccio da dietro una finestra, e quello di chi, camminando lungo il corso cittadino, li senta adagiarsi freddi e pastosi sul naso e sulle ciglia o finirgli dritti in un occhio, fondendosi all’interno del quale fanno per un attimo annegare la visuale nello specchio deformante dei piccoli cristalli liquefatti.

    L’allegria diffusa nell’aria era davvero contagiosa, quel 28 dicembre, sebbene fosse chiaro più o meno a tutti che quella neve non avrebbe formato alcun candido manto sulla strada e sui tetti, limitandosi al massimo a sedimentare sul parabrezza delle auto in sosta quella sottile coltre di brina che a taluni lascia l’amaro in bocca, come un tentativo di poesia abortito sul nascere. L’autunno d’altronde era stato caldo, e quel principio d’inverno, sceso in picchiata sulla città tra il 25 e il 26 dicembre come un kamikaze disperato, non aveva cancellato l’impressione che quella stagione sarebbe stata assai anomala, tiepida forse come la primavera stentata di fine marzo.

    Eppure quei bianchi fiocchi stavano stemperando almeno un po’ la malinconia del Natale appena trascorso, che anche quell’anno aveva lasciato in eredità un clima uggioso di festa finita, in particolare a tutti coloro, ed erano molti, che non provavano alcun conforto al pensiero dell’arrivo del Capodanno.

    Facevano allora sorridere le piccole disavventure dei passanti che, centrato con la suola uno di quei pochi mucchietti di poltiglia nevosa disseminati qua e là, scivolavano goffi sul marciapiede; ed erano divertenti anche le improprie litanie pronunciate dalle signore che cadevano in terra dopo aver perso il lungo tacco del loro stivale all’ultima moda, incastratosi nello spazio tra un sampietrino e l’altro non tanto per la disattenzione delle stesse, ma piuttosto perché tale interstizio, occultato alla vista dall’ennesimo grumo di lurida poltiglietta, nero di sporcizia come il selciato, finiva col rappresentare una ben mimetizzata trappola spezza tacchi per dame impellicciate.

    Di tutto questo, però, il signor Alvaro Prevosto pareva non accorgersi minimamente mentre incedeva lungo il corso con risoluto passo di marcia, proteso, come lasciavano supporre il piglio marziale e la determinazione suggerita dai rigidi tratti del volto e dallo sguardo sempre orientato davanti a lui, alla realizzazione di qualcosa cui doveva tenere davvero tanto, di un atto importante per sé e forse anche per altri.

    Ma in verità, caro lettore, il signor Alvaro aveva condotto l’intera sua esistenza a passo di marcia. E sempre con le idee ben chiare riguardo a ciò che sarebbe stato utile e conveniente fare in questa o quella situazione. Perché il nostro signor Alvaro era un uomo di ceppo antico, uno dei pochi sopravvissuti a quella terribile era glaciale rappresentata dalla società moderna, foriera, con la sua dimensione labirintica e le sue proteiformi fattezze, di insicurezze, di dubbi, di instabilità, e quindi di debolezza e di inadeguatezza nell’affrontare le difficili prove di ogni giorno.

    Mai il signor Alvaro aveva difatti perduto la bussola; mai si era trovato sprovvisto della lucidità necessaria alla valutazione degli eventi e delle ripercussioni che la scelta che stava per fare avrebbe avuto sulla sua esistenza. Per un uomo di tal fatta il rischio dell’errore si riduceva in modo considerevole rispetto alla maggior parte delle persone, giacché l’emotività, che fa brancolare nel buio gli spiriti deboli, mai lo sopraffaceva, rimanendo essa imbrigliata nelle reti della ponderatezza, del realismo, di quel sano pragmatismo proprio dell’uomo di buon senso. E che nessuno si azzardi soltanto a ipotizzare la presenza di un’impronta egoistica o materialistica nella suddetta filosofia di vita del signor Alvaro! Che, difatti, mai si era posto il fine dell’arricchimento e mai aveva scelto la strada più facile per sottrarsi a doveri e responsabilità, ma che piuttosto aveva sempre considerato, nell’interpretare i casi della vita e nell’agire di conseguenza, l’interesse e la salute dei propri cari, familiari o amici che fossero.

    Per qual motivo, ad esempio, aveva accettato di mostrarsi convinto simpatizzante del tal partito, prendendone addirittura la tessera e brigando in ufficio per favorire gli amici degli amici di certi alti dirigenti? Proprio lui, che anche nelle dispute calcistiche al bar preferiva non prendere posizione, reputando la cosa noiosa e inutile, nonché causa di battibecchi stupidi e comunque fastidiosi. La motivazione stava nel guiderdone che gli era stato promesso, il quale si era puntualmente concretizzato in forma di impiego da ragioniere per il figlio appena diplomato, ormai sistemato da anni e felice padre di famiglia. Il quale figlio, come raccontava orgoglioso lo stesso signor Alvaro, avrebbe dovuto tuttora genuflettersi e baciargli le mani, benedicendo vita natural durante l’atto di forza, accolto a quel tempo da strilli e improperi, con cui lo aveva fatto iscrivere all’istituto tecnico commerciale, distogliendolo così da certi velleitarismi giovanili di matrice letterario-fannullona che, anche dopo la laurea, lo avrebbero lasciato nella condizione di giovanotto senza arte né parte. E che dire poi della lungimirante decisione di andare in pensione a soli quarantacinque anni (qui lo aiutò, bisogna ammetterlo, la buona sorte di essere nato nel Bel Paese…)? La cosa gli aveva consentito di aggiungere alla discreta pensione il buono stipendio integrativo raggranellato nel tempo libero, usato per inventarsi sensale in occasione di questioni di vario genere, sicuramente legali e onorevoli ma puntualmente lasciate nel vago e avvoltolate in un denso alone di mistero qualora capitasse, sempre per errore e sempre di sfuggita, di farvi cenno nel corso delle chiacchiere in libertà tra parenti e conoscenti. Senza poi contare che, al di là del vantaggio economico derivante da quell’attività di faccendiere in chissà quali faccende affaccendato, lo status di pensionato precocemente acquisito gli consegnava tanto tempo libero per dedicarsi anche a generosi e irrefrenabili slanci di filantropia, consistenti in consigli di vita incommensurabilmente preziosi proprio in quanto partoriti da chi aveva dimostrato di saper stare al mondo, elevando le condizioni di vita sue e delle persone a lui più vicine fino a toccare non già la felicità, utopia di un mondo perfetto, ma quanto meno il più alto grado di serenità possibile in questo mondo imperfetto. Il nostro Alvaro, che con il procedere della narrazione sarà sempre più nostro e sempre più stimato, reputava addirittura un proprio dovere intervenire nei problemi altrui, con quel sentimento di generosità innato in coloro che avvertono di poter dare molto ai singoli fratelli sfortunati e, in ultima istanza, al consorzio umano nella sua interezza.

    Quella mattina, difatti, era proprio quest’ansia di fare il bene che lo aveva spinto in strada per compiere il suo apostolato, stavolta addirittura a domicilio, presso i poveri di spirito e i digiuni delle cose della vita.

    Mentre i fiocchi di neve cadevano come manna dal cielo, egli incedeva con ampie falcate, sicuro in cuor suo di ciò che avrebbe dovuto fare per recare aiuto a quei derelitti che, incredibile a dirsi, si apprestavano a trascorrere in casa, di lì a tre giorni, la notte di San Silvestro, senza partecipare al veglione e indulgere ai festeggiamenti di rito.

    Ma cosa avete in testa? Le pigne? gli sarebbe piaciuto dire a quei suoi parenti e amici che per noia, per depressione o per una forma di puro snobismo avevano programmato, la notte tra il 31 dicembre e il primo gennaio, di isolarsi da tutti e di rintanarsi nelle proprie abitazioni come animali selvatici nelle proprie spelonche. Altro che annoiato! Altro che depresso! Altro che intellettuale con la puzza sotto il naso! gli sarebbe piaciuto sputare in faccia ad ognuna di quelle persone. Tu, amico mio, volti le spalle alla vita! Te lo dico io, che ho percorso in lungo e in largo i sentieri dell’esistenza e mai mi sono nascosto! Non avere paura di vivere, brutto scimunito! Dai, che è facile… Ti insegno io!.

    Con questo imperativo educativo che gli rimbombava autoritario nei quattro cantoni del cervello, il buon Alvaro si ritrovò davanti al portone dello stabile che ospitava l’appartamento del primo dei renitenti alla festa da lui individuati nei giorni precedenti.

    Non prese neanche l’ascensore, il nostro eroe. E dire che si trattava di salire fino al quinto piano, e la sua età non era certo verde. Eppure la rabbia che provava dentro di sé gli fornì il combustibile per divorare le scale a due a due. Sì, perché proprio di rabbia si poteva parlare: la rabbia del buon samaritano che non riesce ad accettare che il bene definito dal suo vangelo di vita sia messo in discussione dai vangeli apocrifi redatti da persone in palese stato di difficoltà. Ora bisognava riportare le pecorelle smarrite all’ovile, a cominciare, appunto, da quella che si stava accingendo ad affrontare a tu per tu.

    Si trattava del caro nipote Massimo, vanto della famiglia Prevosto, che, nel fioco firmamento dell’intellighenzia locale, brillava come la stella cometa nella cupa volta del cielo notturno. La sua tesi di laurea, premiata con un centodieci e lode e proposta di pubblicazione, era stata l’abbrivio per una fulgida carriera di ricercatore e di conferenziere, assai richiesto non solo da atenei e circoli culturali, ma persino, udite udite, da certi salotti radiofonici e televisivi, in cui, ovviamente, alla filosofia si chiedeva di diventare più leggera e di facile approccio, quasi fosse una sorta di forbito pettegolezzo o, nel migliore dei casi, un manuale di vita. Ad un certo punto, però, Massimo Prevosto si era fatto crescere la barba, per la precisione una folta barba nera, a contrasto della quale il pallore del viso rimasto scoperto dall’ispida peluria, così dichiaratamente intellettuale, risaltava ancora di più e le labbra già sottili finivano con lo scomparire quasi del tutto, al punto che le parole del filosofo non si capiva bene da quale orifizio uscissero (vi potete immaginare le scontate e volgari ipotesi proferite a tal proposito dai suoi nemici, vale a dire da coloro che avevano un orientamento speculativo diverso da quello dell’illustre Massimo). Da quel momento le pubbliche apparizioni si erano diradate, e con esse la voglia e l’abitudine di stare a contatto con gli altri. Situazione senz’altro spiacevole e difficile, che peraltro si dichiarò in tutta la sua gravità allo zio Alvaro non appena egli mise piede nell’appartamento e cominciò poi a camminare dietro al nipote, il quale, avvolto in una lercia vestaglietta, lo guidava verso il salotto con passo stanco, lasciando in custodia alle narici del povero Alvaro un olezzo che di epistemologico o di filosoficamente astratto aveva ben poco, essendo piuttosto forgiato nella concretezza della vita sudata e intensamente vissuta.

    Diamine, Massimo, le finestre potresti aprirle ogni tanto! E anche una bella doccia non è che ci starebbe male! sbottò poco diplomaticamente lo zio applicando al naso la mano destra a mo’ di maschera antigas. D’accordo che non vedi più molta gente, ma abbi almeno un po’ di amor proprio….

    L’amor proprio, caro zio, l’ho già recuperato… rispose Massimo con voce stanca e strascicata. E l’ho recuperato precisamente quando ho deciso di tagliare i ponti con la gente…

    Ma se stavi tanto bene, prima, seduto sul podio a tener conferenze? disse Alvaro mentre guardava schifato qua e là, in alto e in basso, occhieggiando ora le croste di chissà quale origine tatuate sul pavimento, ora il calzino spaiato penzolante dal tavolino del salotto. E anche sull’emittente locale ti trovavi da papa, a fare il tuttologo esistenzialista ad uso e consumo di massaie, perdigiorno e….

    Sbam! Clang!

    Zio, ma che fai? esclamò girandosi di scatto Massimo, che nel frattempo aveva voltato le spalle allo zio con la sufficienza di chi si sente vaccinato contro la falsa attrattiva di certi argomenti

    IO non so proprio come si può vivere in queste condizioni… disse tra lo scandalizzato e l’avvilito il nostro Alvaro, mentre si chinava per raccogliere la scarpa che aveva scagliato senza effetto contro uno scarafaggio materializzatosi improvvisamente in un angolo della stanza, nonché il mazzo di chiavi che aveva lanciato subito dopo la scarpa, nel tentativo di centrare, con quel proiettile di riserva, lo scarabeo molesto. Ma qui c’è da aver paura! C’è da chiamare l’ufficio d’igiene per far disinfettare tutto col lanciafiamme!.

    Massimo si sedette molle sul divano, socchiuse gli occhi e non disse nulla, come a significare un iperuranico disinteresse per le parole appena pronunciate dello zio, per quelle che avrebbe pronunciato, per il motivo stesso, qualunque esso fosse, che lo aveva portato a casa sua quel giorno.

    Dunque, dicevo… cercò di riannodare il filo del discorso il buon Alvaro, ancora un po’ sconcertato. Tu con la gente ti trovavi bene… Ti guardavano tutti con ammirazione… Li dominavi con la tua cultura… Dal primo dei professori universitari all’ultima delle donnette che ti guardava in televisione mentre consigliavi come sopportare con stoica rassegnazione le corna fattele dal marito… O altre fregnacce del genere… Che però ti rendevano importante! E ti piaceva quella vita, di’ la verità!.

    Senti, rispose scocciato il giovin barbuto "è proprio questo il punto: adesso quella vita non mi piace più! Con i mezzi di comunicazione fu un errore scendere a compromessi… Pascolare i gonzi ti abbrutisce…

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