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Eucalipti e gigli di mare
Eucalipti e gigli di mare
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E-book237 pagine3 ore

Eucalipti e gigli di mare

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Info su questo ebook

Ultimi anni della seconda guerra mondiale. Berenice e la sua famiglia si trasferiscono in campagna, a Montalto, per sfuggire ai bombardamenti che incombono sulla capitale. Solo il padre continuerà a lavorare a Roma impossibilitato a lasciare in mani altrui l’impresa di famiglia. Per Berenice la guerra che infuria sul territorio italiano resta come sospesa fino a un tragico avvenimento che la colpisce nei suoi affetti più profondi. Poi, la fine della guerra, il ritorno in città, il tentativo di riprendere una vita normale le appaiono sotto una luce diversa. Anni dopo, tornata a Montalto, in una casetta di legno ubicata sulla spiaggia, isolata, ai margini della macchia mediterranea e di un boschetto di eucalipti, Berenice incontra l’Amore sotto le sembianze di un giovane dagli occhi verdi. Convinta, però, che il loro sia un rapporto impossibile, decide di troncare sul nascere questo sentimento e di trasferirsi all’estero. Lui, intanto, il giovane dagli occhi verdi, conclusi gli studi torna a casa, a Lucca, e cerca di costruirsi un futuro. Ma quando tutto sembra cristallizzato, come una gentile folata di vento, il destino scombina le carte. Al suo quarto romanzo, l’Autore si conferma un profondo conoscitore dell’animo umano. Mario Stefani incanta il Lettore con il suo stile limpido e semplice. Un romanzo incantevole.

Mario Stefani nasce a Cellere (Vt) il 3 dicembre 1938. Il padre, segretario comunale, nei primi mesi del 1940 si trasferisce, con tutta la famiglia, a Lucca. Qui compie gli studi fino alla maturità, conseguita al Liceo Classico. Frequenta la facoltà di Giurisprudenza a Pisa e ottiene la laurea con la votazione di 110 e lode nel 1962. Presta servizio militare nel corpo degli Alpini. Nel 1965 consegue l’abilitazione all’insegnamento e due anni dopo è immesso in ruolo per la cattedra di Discipline Giuridiche ed Economiche. Tra gli istituiti in cui insegna, l’I.T.C. lucchese. Va in pensione il 30 settembre 1998.

Ha pubblicato Finché brilleranno le stelle per Edizioni Nuovi Autori (Milano, 2010), Spighe di grano e papaveri rossi per MDA Edizioni (Treviso, 2011) e Pescatori di fiume e di fragili amori, s.e. (2012).
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2014
ISBN9788863965209
Eucalipti e gigli di mare

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    Anteprima del libro

    Eucalipti e gigli di mare - Mario Stefani

    L'Autore

    I

    Il boschetto di sughere

    Era un’estate diversa dal solito: essendo già pieno luglio, non si parlava di vacanze.

    Anche se la guerra non ci aveva colpito in modo diretto, se ne avvertiva la presenza, per motivi di vario genere.

    È vero che, a parte papà, eravamo tutte donne: mia madre, mia sorella e io, per cui il coinvolgimento nello sforzo bellico era limitato. D’altra parte mio padre, tra le altre cose, gestiva, nei pressi di Roma, una fabbrica di materiali destinati agli armamenti. Ma sull’argomento non sapevo molto e in casa non se ne parlava affatto.

    Io, coi miei tredici anni appena compiuti, stavo attraversando un periodo di irrequietezza, accentuato dal fatto che intorno a me, in famiglia e fuori, non si respirava un’aria serena.

    La guerra, fino ad allora, non aveva coinvolto la mia famiglia, ma certi aspetti della realtà e della vita quotidiana, ce la facevano avvertire.

    Era difficile, in generale, trovare i prodotti alimentari. La carne, di vitello e di manzo, si vedeva molto di rado, mentre in casa nostra erano sempre presenti, venendo dalla campagna, polli e uova, conigli e, una volta all’anno, l’agnello.

    Il caffè vero non si trovava, per cui tutti ricorrevano ai surrogati, specialmente all’orzo tostato, magari preparato in famiglia. Noi eravamo fortunati, perché dai nostri terreni coltivati prevalentemente a grano, veniva la farina. Inoltre, nei rapporti tra agricoltori, non era difficile procurarsi, nei mesi autunnali, l’olio d’oliva di frantoio: col suo colore verde particolare, era piuttosto denso e, almeno nei primi mesi, con un pizzicore gradevolissimo.

    Certamente eravamo dei privilegiati.

    Io, a scuola, ero un anno avanti e così a giugno avevo terminato le scuole medie, prendendo il diploma presso una scuola gestita dalle suore, che si trovava a poca distanza dalla nostra casa.

    Io avrei desiderato continuare a studiare, andando al liceo, ma avevo timore che in famiglia non mi approvassero. Mia sorella, assai più grande di me, era già sposata, aveva un bambino e viveva in un’altra casa, per cui non vedevo la possibilità del suo appoggio.

    Inoltre devo dire che, come donne, in famiglia contavamo poco. Le decisioni, di qualunque tipo, venivano prese da mio padre. L’unica possibilità, peraltro di incerta efficacia, poteva venire da un intervento di mamma, opportunamente formulato, in circostanze adeguate.

    Il mio papà rientrava a casa nel tardo pomeriggio, in genere intorno alle sette.

    Sentii la chiave che girava nella porta e mia madre che si precipitava ad accoglierlo.

    Entrarono in salotto, lei attaccata al suo braccio.

    Lo salutai: Ciao, papà. E andai a dargli un bacio.

    Lo accolse distrattamente e mentre io tornavo alla poltrona, dove avevo lasciato aperto il libro che stavo leggendo, domandò: Quando si mangia? Ho piuttosto fame stasera.

    Ogni desiderio di papà era quasi un ordine, per cui alle sette e mezza eravamo già a tavola: il piatto base era il coniglio con le olive, in un sughetto denso e sapido.

    Durante il pasto stavamo tutti in silenzio: un’eventuale conversazione dipendeva dalla volontà del capofamiglia.

    Alla fine della cena mamma, mentre sbucciava una pesca per papà, lasciò cadere due parole: Sai, Aurelio, la bimba vorrebbe continuare gli studi.

    Lui tacque, soprappensiero. Non si era arrabbiato e questo era già molto.

    Poi si rivolse a me: Perché? domandò laconicamente.

    Io non sapevo cosa dire; abbassai la testa verso il piatto.

    Allora lui proseguì: Che bisogno ne hai? Hai imparato le cose fondamentali. A che cosa ti servirebbero la geometria e le equazioni e magari due nozioncine su Aristotele e Platone?

    Io restavo in silenzio.

    Per fortuna sei una ragazza di buona famiglia. Puoi proseguire la tua educazione in casa. Imparerai quello che serve per diventare una buona madre. Conoscerai un bravo ragazzo, lavoratore, in grado di farti felice. Avrai figli da educare; pensa a tua madre.

    A questo punto, facendosi forza e per non lasciarmi del tutto sola, mia madre intervenne: Sai, la bimba vorrebbe proseguire per l’Università, per fare il medico.

    Mio padre rimase con la bocca semiaperta, guardandomi con aria stupita: Davvero ti interessa tutto questo?

    Non aspettava risposta. Ma evidentemente era in serata felice, perché concluse l’argomento con una frase possibilista: Beh, ne riparleremo; c’è tutto il tempo.

    Ma non fu così: due giorni dopo, in modo improvviso, cambiando volto in maniera repentina, ci piombò addosso la guerra.

    Era una bella giornata di sole, che prometteva di diventare molto calda.

    Avevo fatto colazione con una ciotola di latte e orzo, inzuppandoci delle fette di un ciambellone fatto in casa, a base di farina, latte e uova.

    Mentre girellavo per casa, in cerca di qualcosa da fare per passare il tempo, mi chiamò mamma: Vieni, bimba, accompagnami in città, prima che venga troppo caldo. Mi hanno indicato un posto dove forse troveremo della carne di vitella. Sai che a papà piace molto l’arrosto con le patate.

    Va bene, mamma, ma devo cambiarmi. Che vestitino mi metto?

    Rispose tranquilla: Quello a fiorellini mi sembra adatto.

    Non capivo perché fosse adatto, ma lo misi volentieri, perché mi piaceva, così di tanti colori, con le maniche a sbuffo.

    Mia madre non si preoccupò di dire niente a Rosetta, per la preparazione del pranzo, tanto eravamo sole, a tavola; papà sarebbe rientrato la sera e poi pensavamo di tornare presto.

    Data una voce di saluto, uscimmo in strada e ci avviammo di buon passo. Eravamo dirette dalle parti di piazza Bologna.

    Camminavamo svelte, ma quando arrivammo sul posto, trovammo una lunga fila, in attesa di entrare.

    Il negozio era ancora chiuso.

    Mentre mamma, contrariata, stava pensando se valeva la pena di aspettare o se era preferibile tornare indietro, d’improvviso l’aria venne lacerata dall’urlo inaspettato della sirena, lugubre e lamentoso.

    Certo, sapevamo che la guerra era in corso, ma la percepivamo come una realtà lontana da noi.

    Era il primo allarme vero e proprio che sentivamo e ci spaventava.

    Sembrava inverosimile che la nostra città venisse bombardata, dopo l’allocuzione del Papa in difesa della Città Eterna, la capitale del mondo cristiano.

    Io e mamma ci mettemmo a correre verso casa. Ci fermammo a rifiatare nell’atrio di un palazzo.

    Il mio sguardo si rivolse in alto: si scorgeva, in avvicinamento, una frotta fitta fitta di aeroplani, belli a vedersi, d’argento e sfolgoranti di sole.

    Capimmo che non avremmo fatto in tempo ad arrivare a casa.

    Seguimmo, istintivamente, un gruppo di persone che a corsa andavano a rifugiarsi nelle cantine del palazzo.

    Nello scantinato ci trovammo riuniti in molti, intimoriti e in cerca di protezione.

    Il buio era rotto dalle fiammelle di un paio di candele, che poi si spensero, dopo poco che erano iniziate a cadere le bombe.

    Io e mamma stavamo strette strette nella penombra, senza parlare.

    Tutti stavano in silenzio.

    Fuori si sentivano, a volte vicini, a volte attutiti dalla distanza, gli scoppi e i boati delle bombe che cadevano, senza discriminare gli obiettivi.

    Si capiva, dal numero degli schianti, dalla intensità dei rumori, che veniva colpito un po’ di tutto: case e chiese, monumenti e persone.

    Solo più tardi, per quello che vedemmo direttamente e per quello che ci raccontarono, percepimmo l’entità immane della distruzione, l’estensione smisurata e indicibile della catastrofe.

    Quando verso le tre, dopo il cessato allarme, uscimmo dalla cantina sulla strada, venimmo abbagliate dalla forte luminosità della giornata di luglio. Poco più avanti l’aria era offuscata da una nuvola di polvere. Ci trovavamo al margine della zona distrutta, ma non ci soffermammo a osservare le macerie.

    È pericoloso restare qui, disse mamma, e poi possiamo fare ben poco.

    Ci lasciammo alle spalle quel grave disastro e ci dirigemmo verso casa.

    Incrociavamo gente stralunata, con la faccia contratta e impaurita, solcata di lacrime.

    Dopo che erano cessati gli scoppi furiosi dei bombardamenti e il rumore dei crolli delle case, come per contrasto c’era un grande silenzio, rotto solo da pianti, lamenti o urla improvvise.

    Quando arrivammo a casa, salimmo le scale di corsa; mamma andò ad abbracciare Rosetta, muta e spaventata.

    Io domandai: Si sa niente di papà?

    La domestica fece cenno di no col capo.

    Mia madre andò in bagno, dove si trattenne un po’ .

    Quando venne fuori, sembrava più tranquilla.

    Venite qua, ci disse, recitiamo il Santo Rosario, per invocare la protezione della Madonna.

    Così ci raggruppammo in salotto, mormorando le Ave Maria; lo stare vicine in qualche modo ci rassicurava.

    Mio padre tornò a casa prima del solito.

    Grazie a Dio, non vi è successo niente! esclamò, manifestando il suo sollievo. Sapete, le distruzioni sono state pesanti. Ci sono stati tanti morti e un’infinità di feriti. Penso che volessero distruggere la ferrovia a San Lorenzo, ma hanno colpito anche tutto intorno, il Prenestino, il Tuscolano e altro ancora.

    Ci guardavamo con occhiate strane, quasi furtive: sollevati per aver scampato la morte, ma avevamo le facce piene di incertezza e di paura.

    Ci avevano sempre detto che a Roma eravamo al sicuro; la città Santa, la culla del Cristianesimo! Era una certezza data per scontata, che non avrebbero toccato la città del Papa, non avrebbero osato distruggere i monumenti della romanità.

    Le nostre convinzioni erano cadute in pochi minuti.

    Rosetta aveva apparecchiato la tavola.

    Andammo a cena, ma fu un pasto rimediato: prosciutto, patate lesse, formaggio pecorino.

    Mentre sbucciava una pera, con fare assorto, come se stesse compiendo un’operazione complessa, mio padre cominciò a parlare. Sapevo già, per come lo conoscevo, che aveva preso una decisione per noi.

    Qui la situazione è diventata troppo pericolosa. Il rischio di morire sotto i bombardamenti è alto. Penso che oggi sia stato solo il primo capitolo di una storia di dolore, tragica per la nostra città e per tutti noi. Per evitare il peggio, magari sepolti in qualche cantina, come topi, senza alcuna difesa possibile, vi porto via da qui. Domattina andremo in campagna, ci allontaniamo per qualche tempo.

    Mia madre obiettò: Ma il tuo lavoro? Non è che lo puoi lasciare.

    Lo so, lo so, rispose mio padre. Per qualche tempo, finché sarà possibile, farò avanti e indietro. Magari non potrò tornare tutti i giorni. Insomma vedremo.

    In poche ore stava cambiando tutto, intorno a me. La mia vita veniva sconvolta.

    Rosetta mi dette una mano a preparare le mie cose: biancheria, vestiti, pantaloni, scarpe… Vidi che tirava fuori anche le scarpe invernali.

    Ma dai, dissi io, siamo in piena estate!

    Lei mi guardò di traverso: Non si sa fino a quando dovremo stare lontano dalla città.

    Mia madre stava preparando il bagaglio personale. Ogni tanto la sorprendevo a confabulare piano piano con papà.

    L’atmosfera che andavo respirando intorno a me si caricava di incertezza e inquietudine. Stavamo per lasciare la casa. Mi sembrava qualcosa di grave, per non dire di irreparabile. Era la casa di famiglia, il simbolo del nostro vivere comune, il punto di riferimento della nostra vita. Non si sapeva neppure se si sarebbe salvata, nel caos della guerra. Mi sentivo spaesata, frastornata, anche se in fondo ai miei pensieri si stava risvegliando una certa trepidazione, quasi una meraviglia per il nostro andare incontro all’ignoto. Che poi per i miei genitori tanto ignoto non era, perché ci stavamo trasferendo in una villa di proprietà, situata al margine dei nostri terreni, non lontani dalla Maremma toscana.

    La mattina successiva, dopo una notte irrequieta, di sonno più volte interrotto, partimmo da casa sull’automobile di papà, bella carica e stipata di bagagli.

    Il resto, disse mio padre, ci seguirà domani o dopodomani, con un camion della ditta.

    La strada fu scelta accuratamente, per evitare i quartieri bombardati.

    Almeno per il primo tratto è bene evitare l’Aurelia: è una strada di comunicazione troppo importante. E poi non voglio avvicinarmi a Civitavecchia che, col suo porto, può costituire un obiettivo militare, non si può mai sapere. Poi, più a nord, tutto dovrebbe essere più tranquillo; non ci sono siti interessanti, dal punto di vista militare.

    Io vedevo scorrere la campagna, a me sconosciuta: bella, ondulata, ricca di olivi e di vigne, con grandi distese giallo oro, dove il grano era stato mietuto da poco.

    Quando arrivammo a destinazione, eravamo tutti un po’ stanchi; percorrendo strade secondarie il cammino si era allungato e inoltre, carichi come eravamo, non viaggiavamo molto veloci.

    Il mio papà a un certo punto sterzò e si accostò piano a un cancello e uscì ad aprirlo. Eravamo arrivati.

    La casa di campagna era una vera e propria villa, con davanti un giardino non troppo ben tenuto.

    Sembrava dormisse, nel caldo estivo, con tutte le finestre chiuse.

    Arrivò di corsa, da un cancellino laterale, un uomo alto, abbronzato, con i capelli grigi.

    Buongiorno, Aurelio, disse con confidenza, vi stavamo aspettando, anche se non sapevamo a che ora.

    Ci salutammo con calma.

    Andiamo, vi do una mano con il bagaglio. Vieni, Duilio.

    Era suo figlio: un bel ragazzo dai capelli castani, un po’ meno alto del padre, che era il nostro fattore.

    Si caricarono delle valigie e dei colli più pesanti, per cui a me e a mamma non rimase che seguirli, con in mano un paio di fagotti leggeri.

    Noi andiamo; vorrete sistemarvi. Se c’è bisogno, chiamatemi.

    Si allontanarono, lasciandoci nella casa che pian piano stava riprendendo vita.

    Rosetta apriva via via le finestre, io e mamma prendevamo possesso delle camere, che erano tutte al piano di sopra.

    Facemmo presto, perché il grosso dei bagagli sarebbe arrivato nei giorni successivi.

    Dopo aver mangiato quello che ci eravamo portati da Roma, andammo a riposare. La mia camera era grande, anche troppo per me.

    Stavo sdraiata sul letto, a piedi nudi e con indosso soltanto la biancheria.

    I miei pensieri si susseguivano un po’ confusi, senza una logica precisa.

    Mi sentivo strana, lontano dalla città e da quello che era stato il mio mondo.

    È vero che c’erano mamma e Rosetta, però papà tornava in città: aveva la fabbrica da mandare avanti. Infatti partì nel pomeriggio.

    Nei mesi successivi lo avremmo visto molto poco.

    Presto mi stancai di stare sola in camera; mi rivestii e scesi in giardino. Era grazioso, ma aveva necessità di essere curato. La cosa più bella era costituita da due palme, belle rigogliose, che abbellivano la facciata.

    Buongiorno, signorina, mi sentii interpellare.

    Era un vecchio giardiniere, con un paio di cesoie in mano. Sto potando le rose, che mi sembrano piuttosto trascurate.

    Di rimando sorrisi, non sapendo cosa rispondere. Sentii il cancellino che girava, cigolando un poco.

    Mi volsi di lato: c’era Duilio, con una ragazza più o meno della mia età.

    Erano preceduti da un cagnolino che mi venne incontro di corsa, abbaiando festoso. Si appoggiò a me con le zampe davanti.

    Non avere paura di Buby, disse Duilio, è molto buono, vuole soltanto giocare.

    Lo accarezzai sulla testa, pareva soddisfatto.

    Questa è Evelina, mia sorella. Sorrideva.

    Mi puoi chiamare Lina, come fanno tutti, così fai prima.

    Le cose cambiarono rapidamente. Non mi sentivo più tanto sola.

    In quel mentre uscirono dal portone mamma e papà: Bimba, mi raccomando, disse papà, fai la brava e aiuta la mamma, quando ne ha bisogno. Io devo andare. Cercherò di ritornare quando sarà possibile.

    Mi dette un bacio sulla guancia, abbracciò mamma e salì in automobile.

    Quando fu uscito sulla strada, chiusi il cancello. Mi girai. Mamma stava già rientrando in casa.

    I primi giorni in campagna, quando non vedevamo papà ormai da un po’, passarono rapidamente: sotto la direzione di mamma, Rosetta, io e Marietta (la moglie del fattore), provvedemmo a ripulire le stanze da cima a fondo, spostando qualche mobile, spazzando, spolverando, lavando, tutti i pavimenti e le scale, mettendo poi a posto tovaglie, asciugamani, lenzuola, insomma tutta la biancheria di casa.

    Dopo qualche giorno, la mamma si dichiarò soddisfatta. Ormai era tutto a posto, come voleva lei.

    Anche il giardino, davanti casa, era notevolmente risistemato, con il lavoro quotidiano del giardiniere.

    In quei giorni avevo visto poco Duilio e Lina. Soltanto verso sera Lina suonava al portone ed entrava con un fiasco di latte, che lei stessa aveva appena munto.

    La sera ero molto stanca, per i lavori della giornata, per cui davo la buonanotte a mamma e andavo a dormire subito dopo cena. Tenevo la finestra aperta, perché era caldo, ma anche perché dall’esterno trapelava un chiarore, per quanto limitato, proveniente dalla luna e dai lampioni accesi al di qua e al di là del cancello. Il canto monotono dei grilli mi conciliava il sonno. Facevo tutta una tirata fino al mattino, quando venivo svegliata dalle luci dell’alba e dal fresco mattutino.

    Fino ad allora non mi ero posto il problema, ma per come andarono le cose, rimanemmo nella villa per più di un anno.

    Con Lina e Duilio visitai il nostro terreno.

    Attraverso il cancellino entrammo nell’aia, grande, in parte sterrata e in parte asfaltata. Distante una cinquantina di metri si trovava il cosiddetto casale che era costituito da un grande fabbricato regolare: al piano terreno c’era il granaio, in quel momento vuoto, uno stanzone per il ricovero degli attrezzi agricoli, compreso un trattore. Un’altra stanza, più piccola, adibita al mantenimento dei prodotti agricoli e delle provviste: patate, mele e pere, un sacco di fagioli, un paio di sacchi di farina e altre cose ancora. Nella parte superiore del fabbricato c’era l’abitazione del fattore e della sua famiglia, a cui si accedeva da una scala esterna. Poco a poco tutto mi diventò familiare.

    Un po’ distante dal casale c’era una stalla, con più scomparti, che ospitava due cavalli, madre e puledrino, e un paio di mucche. Per l’aia scorrazzavano liberi tacchini, galline, faraone.

    Non era molto tempo che avevamo lasciato la città, ma a dire il vero, non sentivo molto il distacco.

    La scuola e le suore non mi mancavano. Forse un po’ sentivo la lontananza di Ernestina, la mia compagna di banco, ma d’altra parte d’estate non ci vedevamo mai. Le uscite in città, in quegli ultimi tempi,

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