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Amami ancora
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E-book228 pagine2 ore

Amami ancora

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Info su questo ebook

Inizio anni Settanta: Daniela è una bellissima ragazza dai lunghi capelli neri e dagli occhi altrettanto scuri. Durante il primo anno di università incontra su un treno Renato, un giovane e brillante ragazzo poco più grande di lei. Tra i due scoppia un amore forte e passionale che, nonostante gli umori scostanti di lui, si trasforma in una relazione seria e profonda. Daniela rimane incinta, ma decide di lasciare Renato quando scopre che l’uomo ha il vizio del gioco. Quindici anni dopo, Daniela si innamora di Paolo, da tempo fidanzato, e ne diventa l’amante. Solo dopo varie vicissitudini il loro amore troverà coronamento .
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2019
ISBN9788863939101
Amami ancora

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    Anteprima del libro

    Amami ancora - Pietro Speranza

    PRIMA PARTE

    Capitolo I

    Daniela aveva l’abitudine involontaria, quando viaggiava in treno, di analizzare il volto delle persone. Fantasticava, per pura curiosità o forse per gioco, sul carattere e sui problemi dei passeggeri seduti nello stesso scompartimento; a volte capitava che gli altri interpretassero il suo sguardo come una forma d’interesse e, soprattutto se uomini, cercavano di attaccare bottone.

    «Mi chiamo Renato.» La voce, timida e inaspettata, era di un giovane ossuto con un paio di occhialini rotondi dalla montatura sottile, in acciaio. Lei lo stava fissando senza guardarlo davvero; in quel momento, trasalì di soprassalto e arrossì.

    «Mi chiamo Renato, abito a pochi chilometri da casa tua» ripeté il giovanotto. Sorrideva imbarazzato, temendo di importunarla.

    Daniela, distratta, non capì subito che l’uomo le stesse rivolgendo la parola; si atteggiò in un mezzo sorriso e, con una luce ambrata nello sguardo, disse: «Non credo di conoscerti, altrimenti scusa la mia cattiva memoria!».

    L’altro percepì una fitta di fastidio, mentre rifletteva tra sé che purtroppo era sempre passato inosservato a quegli splendidi occhi. Fece finta di niente e, sorridendo di nuovo, si giustificò: «Abbiamo frequentato lo stesso liceo, anche se ho conseguito il diploma due anni prima di te. Poi mi sono iscritto in Ingegneria Informatica a Napoli, ma ho avuto la fortuna di trovare lavoro in una piccola azienda di computer. Ho preferito rendermi subito indipendente, pur nella consapevolezza di ritardare la laurea».

    Il giovanotto, sempre un po’ impacciato nel rapportarsi alle donne, si meravigliò per la facilità di dialogare con quella ragazza che aveva ammirato tante volte da lontano. Riprese più baldanzoso per non smorzare la conversazione: «Adesso abito a Roma, in un piccolo appartamento fra il Colosseo e l’ospedale militare, e sono il responsabile dell’assistenza al cliente nella ditta che mi ha assunto».

    Una signora di sessant’anni circa, seduta accanto a lui, seguiva intrigata il tentativo di approccio. Sogghignava, forse al ricordo che qualcosa del genere era accaduto anche a lei in gioventù, e ora faticava a non mettersi nei panni della studentessa. 

    Daniela cercava di scoprire dove e quando avesse potuto incontrare quel giovane. 

    Non bello ma di lineamenti abbastanza delicati e con un certo fascino; barba rada e occhiali da studioso per un aspetto alquanto snob; magro, bel sorriso aperto. Magari anche simpatico.

    Un’attenta e rapida analisi, tutta al femminile. Le vecchie abitudini di sana curiosità avevano preso il sopravvento e l’esame era venuto fuori in modo naturale.

    Non provava alcun interesse per lui.

    L’attenzione era rivolta soltanto a una sua espressione.

    Indipendenza economica!

    Come ho fatto a non pensarci prima?

    In quell’istante, avrebbe desiderato essere sola per meglio dipanare i tanti pensieri che le si aggrovigliavano nella mente: il suo cuore batteva forte, mentre Renato continuava a parlare. Stava cercando di ricavarsi un momento di tranquillità con se stessa, quando la signora, incuriosita, le chiese cosa studiasse. La risposta fu spontanea, nonostante il fastidio per l’intromissione imprevista: «Ho frequentato il primo anno di Medicina, ma sono in procinto di iscrivermi al corso di Fisioterapia, dura solamente tre anni e dà maggiore possibilità di trovare lavoro e indipendenza. Per noi donne…».

    «… la famiglia è importante» completò a suo modo la signora che, iniziando a conversare, aveva poggiato sul sedile accanto la borsetta rigida di pelle nera dalla chiusura color oro, per poter meglio accompagnare le parole con una gestualità esaltata. «Le donne hanno anche il dovere di badare ai figli, mentre gli uomini lavorano soltanto… e sa bene Iddio quanto sia difficile, oggi! Perciò, se noi portiamo a casa pure lo stipendio, tanto meglio, ma c’è da sfacchinare il doppio.» Ammiccando come chi la sa lunga, compiaciuta pose fine alla piccola lezione socioeconomica. 

    Daniela, da quasi femminista, avrebbe voluto ribattere; tuttavia si trattenne ricordando che sua madre, casalinga convinta, sosteneva le stesse idee. Rivolse, allora, lo sguardo in direzione di Renato. Quel gesto deciso bastò alla signora per sentirsi, suo malgrado, estromessa dal discorso: recuperò sul suo grembo la borsetta anni Cinquanta, riguadagnando con delusione lo spazio fuori dal proscenio. 

    La studentessa non diede peso alla pantomima; era intenta a scoprire in quale modo Renato si fosse procurato un lavoro.

    Sarebbe la soluzione ai miei problemi!

    Orgoglioso di salire finalmente alla ribalta per rendersi interessante agli occhi della compagna di viaggio, il giovane si mise comodo e raddrizzò le spalle, pronto a raccontare la propria storia.

    «Spesso è soltanto la casualità a guidare i nostri passi. Avevo appena terminato di seguire un corso all’università e, prima di far ritorno a casa, ero entrato in un negozio di computer per curiosare fra le ultime novità. Il proprietario, un semplice rivenditore, capiva poco o niente di software e hard disk, perciò non riusciva a scrollarsi di dosso un ragazzino con il suo apparecchio difettoso. Senza volere, ascoltai la discussione fra i due; rendendomi subito conto del problema, peraltro banale, ne indicai la soluzione. Da quel giorno, ogni pomeriggio risolsi piccole complicazioni in cambio di pochi spiccioli. La ditta, intanto, si era ingrandita, e il padrone mi chiese se fossi disposto a firmare un contratto di lavoro stabile. Così, accettai.» 

    L’altra, fantasticando sulle proprie opportunità, disse: «Hai avuto fortuna a inserirti in un campo attinente ai tuoi studi, così da non doverli abbandonare del tutto». Stava quasi per aggiungere come toccherà a me. E lo avrebbe fatto, se fossero stati soli nella carrozza. Sentiva il bisogno di confidarsi e vedeva Renato disposto ad ascoltarla, ma le mancò il coraggio di parlare e lasciò che il silenzio sostituisse il non detto. 

    La seconda classe aveva carrozze vecchie e sporche; si viaggiava anche con trenta minuti di ritardo e a nessuno sembrava strano. Gli scompartimenti affollati e il caldo di giugno non permettevano di assopirsi al tipico dondolio del treno. A ogni fermata salivano e scendevano nuovi passeggeri; soltanto la signora con la borsetta in grembo non sembrava mai giungere a destinazione. Daniela attribuiva proprio a lei la colpa per il disagio che, in quel frangente, le bloccava la voce. Quasi presagiva l’imbarazzo al cospetto di sua madre. Sperava, invece, che quel compagno di viaggio potesse aiutarla, chiarendole come affrontare genitori delusi da figli che abbandonano gli studi. 

    Entrambi immersi nei loro pensieri, i due ragazzi si erano chiusi nel proprio guscio e si scambiavano, di tanto in tanto, poche parole di pura formalità. Renato sembrava essere assorto nel paesaggio esterno e Daniela continuava ad agitarsi sul sedile, mentre ansia e timori crescevano in proporzione ai chilometri percorsi. 

    Il treno stava per arrivare a Napoli Centrale senza aver recuperato nemmeno un minuto di ritardo, quando la signora si scosse come al trillo di una sveglia in testa e si preparò per scendere. Mentre imboccava il corridoio, li sorprese con un rimprovero: «Buona continuazione, e sappiate che il dialogo arricchisce. Tu, bella signorina, non darti tante arie con questo bravo giovanotto!».

    Daniela e Renato arrossirono, per motivi opposti. Imbarazzata lei, lusingato lui. La strana atmosfera creata dalla donna finì per diventare lo spunto di nuova conversazione e d’incontro, tanto più che, data l’ora tarda, salirono pochi passeggeri e nessuno entrò nello scompartimento, considerato occupato da due innamorati. 

    Lui avrebbe voluto gridare di gioia per una conoscenza che desiderava fare dai tempi del liceo. 

    È proprio eccitante!

    Spiava le movenze del suo corpo libero in una sottile gonna di voile e avvolto da una t-shirt rossa. Cercando le parole giuste per un successivo appuntamento, era come ipnotizzato da quegli occhi neri che sprizzavano fiamme. 

    Fu lei a parlare, all’improvviso, con il cuore in gola. E l’ansia sembrò quasi aggressività: «Per motivi inutili da raccontare, non sono riuscita a preparare neppure un esame, perciò ho deciso di abbandonare l’università. Anch’io voglio trovare un lavoro».

    L’altro sapeva che era stata la più brava del Classico.

    «La tua è una difficoltà comune a tanti e puoi risolverla con facilità. Fossi in te, ci penserei due volte prima di lasciare gli studi!»

    Daniela scosse la testa.

    «Da un po’ di tempo le difficoltà mi fanno paura. Medicina è troppo impegnativa; non intendo sprecare tanti anni della mia vita, senza la certezza dei risultati.» Poi, mormorò fra sé: «Siamo realisti, esigiamo l’impossibile!». Un sorriso amaro le increspò le labbra, giudicandosi una comunista indegna.

    «Indubbiamente, Che Guevara è stato un uomo eccezionale!» intervenne Renato. «Ma tutti abbiamo le nostre debolezze, che affiorano nei momenti più impensabili, e dobbiamo affrontarle con forza. Alla fine, la maggioranza ci riesce.»

    Gli occhi della ragazza diventarono grandi e intensi. 

    Lui capì di aver fatto una bella figura riconoscendo la citazione e disse con un atteggiamento di superiorità: «Pochi non hanno letto almeno un libro sull’eroe cubano. Sono tendenzialmente di sinistra, ma contrario alle rivoluzioni violente».

    Daniela cominciava a trovare interessante quel tipo smilzo che parlava con fervore e aria da intellettuale. Lei aveva sempre classificato i giovani in attivisti e qualunquisti; compiaciuta, adesso rifletteva che la sensibilità giusta poteva stare anche fra i non militanti. Tuttavia, in quel momento voleva evitare discussioni di carattere politico per riportare il filo del discorso su un argomento a lei più utile. Non volendo sembrare invadente, cercava le parole adatte per carpire a Renato informazioni di natura personale. 

    «Come ti dicevo, ho deciso di ritirarmi dagli studi, ma non so come affrontare la questione in famiglia.»

    Il giovanotto prese tempo. Togliendosi gli occhialini, finse di recuperare un fazzoletto per pulirli. Ma, nella tracolla verde militare che si portava sempre dietro, sembrava piuttosto cercare di raccogliere le idee.

    «Per quanto mi riguarda, è stato abbastanza semplice. I soldi in casa erano pochi, e i miei genitori si sono bevuti con entusiasmo la storiella dello studente inglese che lavora per mantenersi all’università. Invero, non ho la possibilità neppure di aprire un libro, figurarsi di sostenere esami. Fortuna che il lavoro mi soddisfa e non ho sensi di colpa. Torno però a consigliarti di ripensare con attenzione a quanto hai deciso, presa dallo sconforto.» Mentre parlava, Renato si mostrava intento a sgrassare le lenti; poi, con il cuore che batteva all’impazzata e la mente in tilt, continuò: «Sarei felice se decidessi di riparlarne con me. Se vuoi, ti lascio il numero di telefono. Mi trattengo una settimana a casa dei miei genitori e per te sarò sempre disponibile».

    Si sentiva vicino a una meta importante: era evidente che ci sarebbero stati altri incontri. Persuaso che per la ragazza si trattasse soltanto di dubbi transitori e forse causati da una sbandata sentimentale, non si giudicava cinico. Avendone la possibilità, sarebbe stato sinceramente partecipe, aiutandola a recuperare la fiducia in se stessa. Lasciava il resto al fato.

    Capitolo II

    La studentessa, assorta, continuava a guardare fuori dal finestrino, senza scorgere risposte.

    Perché sono cambiata così tanto?

    E pensare che al liceo avevo mille certezze! 

    Quanto coraggio dovrò trovare per incrociare i suoi occhi?

    La scelta maturata cozzava con il timore della delusione da infliggere al suo amico professore. 

    Il treno fischiava nella corsa verso la stazione di Paestum; in lontananza s’intravedevano i templi illuminati. 

    Oh Dio! Luigi! Ricordo come fosse ieri quella volta che venimmo di nascosto con la Vespa a visitare gli scavi. Il suo sapere eccezionale era quasi un tratto della sua personalità. Che rottura, però, essere costretta a sorbirmi una lezione su tempio di Cerere, basilica e anfiteatro! L’eco della sua voce impostata mi risuona ancora nelle orecchie: «La città è stata fondata dai greci nel 600 avanti Cristo con il nome di Poseidonia. A Nettuno, infatti, è consacrato il tempio più grande, coevo per forma ed età al Partenone di Atene».

    Ma era tutto così meraviglioso in quel periodo e noi eravamo follemente innamorati! Quanto s’imbestialì per il divertimento dei turisti tedeschi in seguito al suo plateale ruzzolone e anche con me che continuavo a ridere nel vederlo disteso lungo lungo per terra. Era così comico nel tentativo vano di salvare il giubbino di renna dal chinotto che reggeva in mano. Non dimenticherò mai l’emozione di quella passeggiata lungo la via Sacra sotto il sole, le tenerezze scambiate, il gusto acerbo dei suoi baci e le mani calde sulla mia pelle. Quella sera facemmo l’amore per la prima volta. Niente di stupendo, come sognavo; ma sono stata bene fra le sue braccia e non me ne pento.

    Un dolce sorriso nacque nel vagone affollato dai ricordi della sua breve esistenza.

    Proprio quell’anno, terminata la seconda liceo, zia Aurelia mi invitò a trascorrere le vacanze in Spagna, con la prospettiva di imparare la lingua. Entrambe sapevamo bene che il vero motivo era avere una tregua da mio padre, colpevole del mio malessere. Tutti ignoravano, però, che io covavo l’idea di non fare più ritorno.

    La sorella della madre conviveva felicemente da molti anni a Barcellona con un commerciante di vini, cui aveva dato tre figli, un maschio e due femmine pressoché della sua età. Abitavano in un appartamento dalla magnifica vista sul litorale e sul nuovo porto in costruzione. Nella vita di Snella, il mare aveva un ruolo importante, anche se lei non capiva quale, anzi vi avvertiva un’inconsapevole pericolosità, forse perché si sentiva negata per il nuoto.

    Non è stato tutto subito facile per me in casa Morata; all’inizio, ho mantenuto stupidamente un rapporto distaccato con le mie cugine, trascorrendo pomeriggi solitari su quelle spiagge sconfinate dove lo sguardo volava lontano insieme al vento e ai gabbiani. Le lunghe passeggiate e il paesaggio diverso mi aiutarono, però, a legare con la nuova famiglia, permettendomi di spegnere la tensione che mi mordeva lo stomaco. A dire degli altri, perfino i miei occhi hanno acquisito una luminosità più fresca, quando ho abbandonato le escursioni lungo la costa basca per appassionarmi al Barrio Gótico, l’antico quartiere medievale alle spalle del centro. Al ridursi della calura, quanto mi piaceva perdermi nelle viuzze ricche di botteghe artigiane, tra splendidi ventagli e pezzi in oro esposti nelle vetrine! Oppure sedermi ore intere davanti a uno dei tanti piccoli bar, in compagnia di un libro e del tipico dolce di farina e patate farcito con pinoli e mandorle tritate! Spesso fingevo di leggere, mentre in realtà ero affascinata dal viavai della gente. Studiavo le donne e gli uomini che passavano, quasi in attesa che qualcuno si fermasse e mi restituisse, con una magia, la serenità perduta. A volte, quando le persone parlavano strettamente catalano, e io non capivo neppure una parola, avvertivo la piacevole sensazione di cominciare a stare bene con me stessa. Avevo deciso di vivere alla giornata, perché questo significava gustare il ritmo della città e assaporare la movida con la frenesia dei miei diciotto anni, senza pensare ad altro. Le vie che preferivo erano Las Ramblas intorno a Plaça de Catalunya, in giro con gli amici da un locale all’altro.

    La realtà spagnola e il confronto con una società più aperta e comprensiva aveva di certo mitigato il suo carattere rigido, permettendole di scoprirsi curiosa e tollerante. L’antico proposito di non ritornare più alla casa paterna si era smorzato così, nella nostalgia dei colori e delle ombrosità delle colline natie. Ancora una volta, zia Aurelia era stata il porto di una piccola zattera sballottata

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