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Dentro la borsa
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E-book161 pagine2 ore

Dentro la borsa

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Info su questo ebook

Dentro la borsa è un romanzo che affronta argomenti quali l’aborto, l’obiezione di coscienza e quei giudizi che, troppo spesso, si danno con leggerezza e senza cognizione di causa.
Viene narrata la storia di Cristina, un medico, specializzanda in ginecologia e ostetricia. Ha ventotto anni e una vita ordinata e metodica, fondata su certezze granitiche dietro le quali nasconde l’ansia di essere perfetta per compiacere la madre.
Lidia è una professionista di quarant’anni, decisa a interrompere una gravidanza; un atto inconcepibile per Cristina, obiettrice di coscienza. Un atto d’amore necessario e sofferto per Lidia, doloroso.  
Nell’incontro tra Cristina e Lidia, quello tra medico e paziente, e nel tentativo di salvare una vita, si intrecciano due vite e due sguardi sulle cose che reggono il mondo  Lidia si troverà a essere per Cristina una finestra aperta su di sé, attraverso la quale osservare la bambina che era, la donna che è, quella che rischia di diventare.
L'autrice, Francesca Spanu, nasce a San Gavino Monreale, centro del Medio Campidano, il nove marzo del 1976. Di professione avvocato, la sua vita si divide tra il paese natale, Cagliari e Sinnai dove vive.
LinguaItaliano
Data di uscita7 set 2020
ISBN9788835892939
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    Anteprima del libro

    Dentro la borsa - Francesca Spanu

    donna

    Prefazione

    di Mariella Pia

    Conosco Francesca da trent’anni, da quando frequentavamo le medie. Le nostre strade si sono allontanate, per riunirsi circa dieci anni fa ed è stato come se non ci fossimo mai separate.

    Lei è quel genere di amica che non si risparmia mai. Il problema è che lo fa con tutti, per questo la rimprovero di continuo. Empatica, ironica, forte, lontana da ogni omologazione. Francesca ha capito, molto prima di me, che la vita è più facile affrontarla con un sorriso stampato sul viso. Risate tanto sguaiate da farci lacrimare gli occhi ci hanno fatto diventare ogni giorno più amiche. L’aver vissuto entrambe un dolore atroce ha reso le nostre anime ancora più vicine, per legarci come fossimo sorelle. Perché l’amicizia è soprattutto questo, sentire i battiti l’una dell’altra, rallentare, riprendere fiato e ripartire insieme.

    Cristina e Lidia, i personaggi principali del suo romanzo, sono donne, all’apparenza, molto diverse. Provengono da società differenti, i loro caratteri sono agli antipodi e i trascorsi tanto lontani da sembrare inconciliabili. Eppure, un bel giorno, le loro strade si sono unite. Quasi che il destino si fosse accanito per farle incontrare, ed è accaduto nel momento esatto nel quale ne avevano più bisogno. Perché nella notte, anche in quella più buia, occorre comunque avanzare e loro lo hanno fatto, insieme, un passo dopo l’altro, un po’ com’è successo anche per noi.

    Mariella Pia

    Uno

    A bordo della sua Cinquecento di un curioso bianco floreale, Cristina raggiunse il piazzale del Policlinico Universitario. Scese dall’auto, con lo sguardo nascosto dietro un paio di occhiali da sole, aprì lo sportello posteriore e dal sedile prese la borsa e una sacca con il cambio. Un controllo al parcheggio, perfetto, le suscitò un sorriso appena accennato. Le macchine in sosta poche, ma erano appena le sette e un quarto, nel giro di un’ora non ci sarebbe stato un posto libero. Un click alla chiusura centralizzata e si avviò a passo svelto verso l’ospedale, nonostante mancassero ancora quarantacinque minuti all’inizio del turno. Un moscerino, insolente , le entrò nell’occhio facendola lacrimare. Fu costretta a fermarsi qualche secondo per toglierlo e verificare in uno specchietto da borsetta che il trucco non si fosse sbavato e riprese il cammino.

    Nell’ampio atrio dell’ingresso, Cristina rallentò in maniera impercettibile. Il suo olfatto venne accarezzato dall’aroma del caffè e dal profumo dei croissant appena sfornati. Il bar era ancora vuoto, la tentazione di assecondare il desiderio fu forte, ma la sola idea delle briciole sulla giacca, del rossetto da ripassare e di quell’odioso zucchero a velo capace di posarsi dappertutto come i pollini liberati dalle piante in primavera, la frenò. Quando sollevò lo sguardo verso il banco del bar, gli occhi di Luca erano lì a fissarla. Non di un semplice azzurro, ma avevano le sfumature del mare sardo, chiarissimi all’esterno e blu zaffiro vicino all’iride. Quello sguardo l’aveva sempre turbata e intrigata al tempo stesso, fin da quando l’aveva incrociato nel suo primo giorno da specializzanda. Era entrata al bar per ordinare una camomilla, che nei suoi desideri avrebbe dovuto placare l’ansia da prestazione per l’inizio della carriera da medico. L’aveva servita un tipo prestante, capelli corti, un tribale che sbucava dalla camicia con le maniche rimboccate, e occhiali da vista con la montatura da intellettuale. Un contrasto curioso.

    «Ecco la migliore camomilla, fatta per te coi fiori più pregiati. Dopo quello che è qui davanti a me, naturalmente. Sono Luca», aveva detto posando con maliziosa delicatezza la tazza davanti a lei.

    Lei era arrossita, indecisa se replicare o meno e soprattutto come. Una risata e una voce baritonale avevano infranto il silenzio.

    «Non gli dia retta, Cristina, Luca segue lo stesso copione con tutte le belle ragazze», Michele Riccio, nefrologo, amico del padre di Cristina, si era avvicinato al bancone del bar.

    «Dottor Riccio, ma che pubblicità mi fa! Il solito?», il tono del barista era divertito.

    L’imbarazzo aveva fatto tremare un poco Cristina mentre si portava la tazza alla bocca, e una goccia di camomilla bollente era caduta sulla mano, aumentando il suo disagio. Lei, con un sorriso di circostanza, aveva risposto alle domande del medico, rassicurandolo sullo stato di salute dei genitori. Quando però il barista aveva posato davanti al dottor Riccio il caffè e il croissant, lei ne aveva approfittato per congedarsi. Da loro e da quel senso di imbarazzo che, senza avvertimento, si era ricamato sul suo viso, proprio tra la fronte e le gote. Mentre si allontanava, aveva sentito il barista iniziare una conversazione su una legge in via di approvazione.

    «L’omicidio stradale? Non è altro che una mistificazione giuridica senza alcuna finalità preventiva»

    «E allora per cosa si stanno affannando?»

    «Per placare la sete di giustizia del popolino, il solito gregge di pecore che di diritto non capisce un cazzo.»

    Da allora, più di una volta l’aveva sentito parlare di argomenti giuridici , e ogni volta si era stupita perché non immaginava che un semplice barista si potesse interessare di temi di quel genere. I suoi modi da tombeur de femmes la innervosivano , quasi quanto l’abbigliamento casual sdrucito e l’aspetto da seduttore in grado di calamitare il suo sguardo, inducendola a rimuginare tra sé e sé su tutte le possibili risposte che non aveva mai avuto il coraggio di opporgli. Come si permetteva, quell’egocentrico, di fare il piacione con lei? Con quale faccia tosta poteva pensare di sedurla con frasi che almeno altre mille prima di lei si erano sentite ripetere?

    Ma ciò che la disturbava di più era il piacere che, suo malgrado, le suscitavano i suoi sguardi, e le sue piccole attenzioni. Non aveva niente in comune con il barista, era l’esatto contrario del prototipo del fidanzato perfetto, quello che aveva già, tra l’altro. Ed era sufficiente quel pensiero per farle accelerare il passo senza voltarsi e dirigersi verso gli ascensori. Uno stava per chiudersi, se non fosse stato per quella mano femminile, con le unghie lunghe, appuntite e glitterate.

    «Grazie», disse Cristina.

    La donna non rispose. Accanto a lei, un uomo sui quaranta le sorrise. Era alto, capelli brizzolati e indossava un elegante abito blu. Masticava con lentezza qualcosa. Emanava un lieve profumo di salvia. La sua attenzione era focalizzata sulla donna che accarezzava con fare lieve. Trasparivano tenerezza e apprensione. Lei era una donna appariscente, magra ma dal seno prosperoso, addosso aveva troppi colori, dal rame acceso dei capelli mossi al verde/azzurro del vestito, per passare dal porpora delle labbra al nero del trucco degli occhi. Guardava nel vuoto. Dondolava da un piede all’altro. Il dondolio continuo le fece cadere la borsa dalla spalla. Cristina si inchinò subito a raccoglierla. Dalla chiusura semi aperta sfuggì il cartellino, verde scuro, sul quale campeggiava in corsivo un nome, Chilivani. Non aveva mai sentito quella marca, e dire che lei era un’intenditrice di griffe! Anche dopo aver restituito la borsa alla donna, Cristina non riuscì a distogliere lo sguardo dall’accessorio. Era la prima volta che ne vedeva una così: sembrava un’opera d’arte, un insieme di velluto rosso, orbace, lana, pelle e broccato che, nei toni del nero con i ricami bianchi, ricordavano i tappeti sardi. Non era certo il suo stile. Lei indossava al massimo due colori insieme. Eppure, continuava ad ammirarla. Ancora incantata, quasi non si accorse che l’ascensore stava arrivando al sesto piano. Prima che le porte si fossero aperte, lanciò un’occhiata allo specchio, era netta la differenza tra il suo rossetto nude e quello più acceso della donna. Anche la coppia era diretta in ginecologia. Quello era un giorno di pre-ricoveri.

    Entrò in reparto e sorrise all’infermiera che stava sistemando il carrello dei medicinali. Non c’era nessun altro degli specializzandi. Non si sorprese, era sempre la prima ad arrivare.

    Seguendo un impulso, prese lo smartphone e digitò Borsa Chilivani. Come poteva un accessorio essere così vistoso, ma nello stesso tempo così bello? Non se lo spiegò. Si trattava di un prodotto artigianale, di una tale Michaela Vargiu, ispirato alle tradizioni dei tessuti e ai caldi colori dell’isola, ma la scoperta sembrò appagare solo in parte la sua curiosità.

    Indossò il camice e si diresse verso il nido. Le infondeva energia vedere i neonati attraverso il vetro. Era quasi un gesto scaramantico, prima di iniziare il lavoro in reparto. Erano solo cinque, tre femminucce e due maschietti. Dormivano tutti, tranne uno che urlava affamato, il faccino rosso era grinzoso. Lo guardò sorridendo per qualche istante e si diresse in corsia. L’ostetrica che era quasi a fine turno, le disse che era stata ricoverata una ragazza in attesa del primo figlio. Cristina entrò in sala travaglio per visitarla, era giovanissima e molto agitata. Controllò il tracciato a cui era collegata. Le contrazioni erano ancora molto distanti, il collo dell’utero era accorciato dell’ottanta per cento, la dilatazione era di due centimetri, le membrane erano integre. Le sorrise per cercare di infonderle calma.

    «Cerchi di rilassarsi, ci vorrà ancora un bel po’, ma tutto procede bene»

    La ragazza parlò a fatica.

    «Potrebbe entrare mia madre? È in sala d’attesa. Con lei mi sento più tranquilla»

    «Certo, la mando a chiamare».

    Cristina uscì piano dalla stanza e pensò che in un momento simile non avrebbe voluto sua madre accanto. Si sarebbe sentita limitata, caricata anche dell’ansia di non lasciarsi andare con lamenti che sarebbero potuti essere giudicati inopportuni e ineleganti dalla madre.

    Arrivarono le prime colleghe e la giornata cominciò a scivolare via, veloce, tra le mille incombenze, cartelle cliniche da compilare, visitare le pazienti ricoverate, controllare gli esiti degli esami del sangue.

    A metà mattina, decise di prendersi una pausa. Si avviò verso le macchinette automatiche per prendere un caffè. Una donna, piccola di statura, sulla mezza età, agitata, le si parò davanti.

    «Dottoressa mi aiuti, mia figlia sta male!»

    Era la madre della ragazza visitata di prima mattina. Cristina si diresse di corsa in sala travaglio.

    La paziente stava piangendo e si lamentava per i dolori, Cristina la visitò e mandò a chiamare il primario, che arrivò subito.

    «Professore, temo sia in atto un distacco intempestivo di placenta e c’è sofferenza fetale. L’ho visitata a inizio turno ed era tutto nella norma»

    «Dobbiamo procedere immediatamente con un cesareo. Ottima diagnosi, dottoressa Carlini. Senta, posso affidarle le visite delle pazienti in lista per il pre-ricovero? Temo che questa emergenza andrà per le lunghe»

    «Certamente Professore», quell’implicito riconoscimento di stima del suo superiore la fece gioire. Era la prima volta che il primario le affidava le pazienti senza supervisione. Da che ricordava non era mai successo con nessuno dei suoi colleghi.

    Due

    Il caposala le consegnò l’elenco con i nomi delle pazienti da visitare, erano tre. La prima, Gabriella, era una ragazzina di tredici anni. Cristina conosceva già il caso. Il primario l’aveva illustrato a tutti gli specializzandi. Aveva l’imene imperforato, una condizione clinica molto rara, che necessitava di un’imenectomia ¹ , un piccolo intervento chirurgico. L’adolescente era in evidente sovrappeso, soffriva di acne, strizzava di continuo gli occhi per un tic nervoso. Ad accompagnarla c’era la sorella maggiore, la madre non poteva perdere una giornata di lavoro. La visita durò lo spazio di pochi minuti. Dopo, Cristina le fece accomodare sulle sedie davanti alla scrivania, ma non poté non accorgersi di quell’olezzo dolciastro, a tratti nauseante, di profumo dozzinale mischiato all’odore di indumenti sintetici mal lavati. Con termini semplici si affrettò a spiegare in cosa sarebbe consistito l’intervento. Doveva sforzarsi di tenere un tono comprensivo. Il tic della ragazza e il digitare frenetico della sorella sul cellulare la innervosivano, ma non lo lasciò trapelare. Quando la sua pazienza stava arrivando

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