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La stella di Nathalie
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E-book264 pagine3 ore

La stella di Nathalie

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Info su questo ebook

Cristina, donna sposata e madre di un bimbo di sei anni, vive un'esistenza fatta di monotonia e solitudine. Quando Lorenzo, il marito, le confessa un tradimento, a Cristina crolla tutto addosso: le certezze e gli equilibri faticosamente raggiunti vengono rapidamente spazzati via come da un soffio di vento. La gestione della dolorosa separazione e la diagnosi al figlio di una sindrome di tipo autistico, non riusciranno però a piegare Cristina, che cercherà dentro se stessa la forza per reagire e raddrizzare la propria vita. Nathalie, una misteriosa senza tetto che porta con sé un pesante fardello dal passato, e Simona, l'amante del marito paradossalmente in cerca del suo aiuto, ingarbuglieranno ancor di più i fili del destino di Cristina.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2014
ISBN9788867930982
La stella di Nathalie

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    Anteprima del libro

    La stella di Nathalie - Mariaadelaide Galimberti

    http://creoebook.blogspot.com

    MARIAADELAIDE e ANNA GALIMBERTI

    LA STELLA DI NATHALIE

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione delle autrici e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    Un particolare ringraziamento a Roberto Kustermann per le preziose informazioni sulla struttura e il funzionamento della barca a vela.

    1

    La sveglia, che disegna il tempo in un angolo del comodino, proietta le piccole cifre luminose sulla parete di fronte al letto. Sei e dieci. Un altro mattino che arriva troppo in fretta. Inesorabile! Il primo pensiero di Cristina è questo, pungente come una spina, ad annunciare un ennesimo, doloroso, risveglio.

    Una nuova giornata da affrontare, col suo carico di difficoltà, ansia, tormento. Da qualche tempo si sente così: sfiduciata, preoccupata. Depressa.

    Lorenzo dorme al suo fianco, il bel volto nascosto dal cuscino.

    Il respiro regolare, tipico di chi è ancora in una fase profonda del sonno. Lo osserva per un istante, invidia la sua incolpevole serenità e prova un’impercettibile fitta al cuore.

    Scosta piano il lenzuolo, scende dal letto in punta di piedi, apre con cautela la porta della camera e la richiude, trattenendo il respiro. Non vuole svegliarlo, non ancora. Scende al piano di sotto, dove si trova la cucina, muovendosi furtivamente, come se si dovesse nascondere, come se occhi invisibili la spiassero.

    Brook, la sua dolce whippet, scivola stiracchiandosi fuori dalla cuccia e le corre incontro, con uno scodinzolio frenetico e gioioso.

    Il nodo alla gola non si allenta. Rimane alcuni attimi davanti alla finestra, osservando la luce che corre veloce verso il mondo, in quell’alba intessuta di rosa e grigio di primo novembre. Si siede al tavolo, ciondolando, incapace di iniziare veramente la giornata, con tutta quella serie di gesti meccanici, immutati da anni, quasi rituali, come accendere la macchina del caffè. Sei e trenta. C’è ancora un po’ di tempo prima di svegliare Gianluca, un bimbo serio e ombroso di sei anni. Prende la borsa della spesa, quella grande, e ci infila rapidamente delle provviste: scatolette di vario tipo, bibite, pane e formaggio. Scende in garage, preleva da un armadio una bottiglia di acqua e ripone tutto nel bagagliaio della sua auto.

    Risale in cucina, dove ora la luce si è fatta prepotente ed evidenzia residui della cena precedente in un angolo del fornello. Non se ne cura. Bruna penserà a rimuoverli.

    Per precauzione abbassa un po’ la tapparella, affinché la luce meno invadente eviti di rivelare altri odiosi particolari, sollecitando così il disappunto del marito, maniaco dell’ordine e della pulizia e, ultimamente, più irritabile e pedante del solito. Versa il caffè in due tazzine bianche con le iniziali dei loro nomi in oro, dipinte e regalate per le nozze da Martina, la sua migliore amica e testimone, quando si dilettava a decorare la ceramica.

    Lorenzo si materializza in cucina con i capelli ancora umidi dopo la doccia ma già perfettamente vestito. La bacia meccanicamente sulla guancia e allunga una mano per prendere il suo caffè. Lo sguardo rivolto alla tazzina e l’orecchio alla radio, che trasmette il notiziario del mattino.

    Poi, già sulla porta, l’avvisa con noncuranza: Stasera non torno a cena, non aspettarmi.

    In un attimo è già scivolato fuori. Lei muove un passo per richiamarlo, affrontarlo, gridargli che lo ama e che ha un disperato bisogno di lui. Che sta male! Il suo corpo sembra sospinto verso il marito dalla sola forza del desiderio di raggiungerlo e stringerlo forte. Ma entrambe le azioni restano cristallizzate nel vuoto doloroso della sua mente e qualcosa si frantuma dentro. Sente in bocca il sapore metallico del suo fallimento e ricaccia in gola le lacrime.

    Non ora, avrò tutta la giornata per piangere − si impone. − Adesso devo svegliare Gianluca, prepararlo e portarlo a scuola.

    Il mondo va avanti. La vita va avanti. Per un istante, invece, vorrebbe che tutto si fermasse.

    Tenta di trovare la forza in qualche angolo remoto della mente ma un vortice opaco è annidato dentro di lei e rende difficoltosa la ricerca.

    È una madre coscienziosa e amorevole e, per indole, altruista e generosa. I suoi bisogni, le sue urgenze non sono mai prioritari. È sempre stato così.

    Cristina ferma l’auto davanti a un basso e moderno edificio, che ospita la scuola elementare di Gianluca. Le vie di Milano sono ogni giorno più trafficate e, arrivare in orario, è una quotidiana sfida.

    Consegna il bimbo alla maestra con le solite affettuose e accorate raccomandazioni. Staccarsi da lui è sempre un momento delicato.

    Aspetta che tutti gli scolari siano entrati e il suono della seconda campanella, prima di tornare all’auto. Il distacco dal figlio, il piazzale della scuola che pian piano si svuota, le voci dei bimbi che si smorzano la fanno sentire sola, sperduta e, in questa cupa mattina invernale, sente in modo particolare tutta la sua incapacità nell’affrontare anche le più piccole azioni quotidiane.

    Sale in macchina e riparte in direzione di Via Pergolesi. Lì, all’angolo con via Soperga, sa che si trova un parcheggio coperto.

    Mentre cerca un posto libero, è pervasa da un’ansia inspiegabile, una specie di frenesia, come se le potesse venire a mancare quello che, nell’ultima settimana, è diventato uno degli scopi principali della sua esistenza.

    Esce correndo sulla via e, finalmente, la vede.

    La donna sta seduta per terra, accanto al salone di un parrucchiere, appoggiata a uno zaino sudicio. Accanto, Briciola, il suo grazioso barboncino dal musino simpatico e gli occhi dolci, si lecca una zampetta. Il pelo, dal riccio e disordinato colore ambrato, gli dona un aspetto simpatico.

    Lei è una persona che chiede l’elemosina, ma Cristina pensa che la parola clochard o barbona non siano adatte a definirla.

    La povera donna è indifferente, lo sguardo perso nel vuoto. Potrebbe avere una cinquantina d’anni e le si leggono in viso i resti di una bellezza non completamente sfiorita. Porta i capelli cortissimi, un giaccone verde di tre taglie più grande e i pantaloni di una tinta nerastra, informi e sfilacciati. Terminata la pulizia, la cagnetta appoggia teneramente il musino sulla gamba della padrona e rimane tranquilla a osservare la moltitudine di passanti frenetici e cinicamente disinteressati.

    Briciola, vieni qua. Cristina la accarezza cautamente e versa una scatoletta di carne e verdure nella sua ciotola malconcia.

    Mangia, piccolina. Tranquilla. Tranquilla.

    Un particolare stonato, che ha già notato altre volte, attira la sua attenzione. Intorno al collo del cane un collare assai vezzoso, di pelle color fucsia, decorato da fiorellini di metallo argentato con al centro un brillantino, stride vistosamente con la povertà e lo squallore del resto dell’equipaggiamento.

    Cristina ha già depositato, accanto allo zaino, il sacchetto della spesa che si è portata da casa e appoggia una banconota da venti euro in un contenitore di plastica, lercio e consumato, ai piedi della donna. Poi si ricorda che è venerdì. Sabato e domenica non potrà venire a trovarla, perché Lorenzo è a casa dal lavoro e deve dedicarsi a lui. Quindi aggiunge altri venti euro.

    La donna ringrazia con un timido cenno del capo. Non chiede niente. Aspetta paziente un gesto di umanità, con lo sguardo perso nel nulla, o nel punto di confine fra realtà e passato, lasciando affiorare sul volto un rapido sorriso quando intende ringraziare.

    Cristina, a volte, la immagina curata e ben vestita, pensando a come la sua bellezza potrebbe attrarre lo sguardo degli uomini, gli stessi che ora ostentano la propria indifferenza. Già altre volte ha considerato i modi gentili di lei; i movimenti composti del capo e delle belle mani affusolate, rosse e screpolate, ma piene di grazia. Non ha invece mai udito la sua voce, che però immagina soave. D’improvviso prova l’urgenza di sapere qualcosa di più su quella donna misteriosa e miseranda che, da qualche settimana, è entrata a far parte della sua vita.

    Tenta un approccio con la prima frase che le viene in mente. So che la cagnolina è Briciola. Ho sentito un signore chiamarla alcuni giorni fa. Mi piacerebbe sapere anche il suo nome le chiede nel tono più gentile e affabile che riesca a formulare.

    La sconosciuta si mette subito sulla difensiva e, per tutta risposta, raccoglie lo zaino e le sue poche cose e si allontana, con frettolosa diffidenza, lanciandole occhiate di rimprovero. Briciola la segue, saltellando. Cristina rimane allibita e mortificata. Come può averla offesa? In fondo le ha chiesto solo il nome!

    Pensa e ripensa a tutto ciò che ha fatto per quella poveretta negli ultimi giorni, e con quanto amore. Il cibo, i vestiti, il denaro. Proprio non riesce a capire quel comportamento irriconoscente e scostante e prova una fitta di delusione.

    Rimane lì, in piedi sul marciapiede, con mille pensieri che le frullano per la mente e lo sconforto che le serra la gola, quando sopraggiunge un altro malessere, questa volta familiare, fisico: sta per avere una crisi di mal di testa. Deve affrettarsi a tornare a casa, prendere un analgesico e sdraiarsi, altrimenti sarà fuori uso per il resto della giornata.

    Bruna è già arrivata e la casa è gelida: tutte le finestre sono state spalancate per arieggiare i locali. Il ronzio dell’aspirapolvere la costringe ad alzare il tono della voce. Bruna, sono a casa. Ho un forte mal di testa, vado a stendermi sul letto. Mi prepari una tazza di tè?

    Povera cara Bruna! È abituata a queste sue crisi di emicrania. Si prende cura di lei fin da quando era bambina. Prima al servizio dei suoi genitori, ora validissima collaboratrice domestica e meravigliosa tata del piccolo Gianluca.

    Cristina entra in camera, chiude la finestra e abbassa la tapparella. La penombra le è amica, ottunde le percezioni. Si sdraia sul letto. Il mal di testa intanto è aumentato. Non è mai stata così male. Il dolore forte e pulsante, che avverte al capo, non è nulla in confronto a quello lacerante e profondo che sente al petto. Ha un disperato bisogno di piangere ma anche questo è diventato un lusso e si ritrova con un pugno di lacrime strette in una mano. Un abisso di sofferenza la sta inghiottendo, non è rimasto neanche un brandello di felicità cui aggrapparsi. Anche la casa, caldo nido nel quale aveva riposto la sua anima, il futuro, la sua vita stessa, è diventata una triste e opprimente prigione e, invece di darle conforto, la fa sentire intrappolata in una gabbia di dolore. Deve chiedere aiuto a qualcuno, per non soccombere. Pensa di telefonare a Lorenzo, sfogarsi con lui, chiarire le incomprensioni, aprirgli il suo cuore. Ma detesta chiamarlo sul lavoro, teme che si possa irritare.

    Si posa una mano sulla fronte, come se il calore del suo palmo potesse procurare un lieve sollievo a tutta la sua sofferenza.

    Suo padre! Certo lui avrebbe sistemato ogni cosa. Non l’aveva mai delusa, con la sua abilità nel risolvere tutti i problemi; con il suo saldo, enorme affetto. Ma non vuole preoccuparlo, perché ultimamente ha avuto dei problemi di salute.

    Alla fine, come al solito, decide di rivolgersi a Martina.

    Allora, Cri, che succede? Cosa c’è che non va? le chiede l’amica, accorsa prontamente alla richiesta d’aiuto.

    Strizzata in un cappottino rosso, non riesce a impedire che l’apparente vivacità della sua voce tradisca una sincera preoccupazione.

    Stai male per colpa di Lorenzo, è successo qualcosa tra di voi? Adesso mi racconti tutto, ti sfoghi e vedrai che starai meglio.

    Sì… no… c’entra anche Lorenzo certo. Le riesce difficile affrontare l’argomento, anche perché non ha ben chiara la situazione nemmeno a se stessa. Il nostro rapporto… ormai siamo come due estranei e io… io non riesco a dire niente, a fare nulla. Me ne sto lì come un vegetale, a guardare quest’unione che si disintegra. E poi sto malissimo… Ormai è come un fiume in piena. Aspetto il mattino come una condanna, vivo tutto con angoscia, con questo grande strazio che mi travolge. Non sono più felice, Martina, vorrei solo dormire. Dormire e non pensare. Persino con Gianluca non sto bene, e tu sai com’ero. Stavo con lui tutto il giorno e non mi stancavo mai. Ora invece è tutto così faticoso, doloroso. Ormai ha rotto anche gli argini e arrivano le lacrime, liberatorie.

    Aiutami. Martina, sto sprofondando!

    Povera Cri, da quanto tempo sei ridotta così? La voce di Martina ha l’effetto tranquillizzante di una ninnananna cantata con voce soave.

    Questi sono sintomi inequivocabili di una depressione. Devi curarti. Andremo insieme da un medico; lunedì fisseremo un appuntamento. Un bell’antidepressivo e, in pochi mesi, ti rimetteremo in sesto.

    Cristina ormai non ha più freni. Singhiozza convulsamente e si soffia ripetutamente il naso. Brook salta sul letto e comincia a leccarle via le lacrime. L’amica ha completamente preso in mano la situazione, efficiente e pratica come sempre.

    Ora riposati un po’. Alle quattro andrò io a prendere Gianluca e poi mi fermerò fino a che non tornerà Lorenzo. Rilassati, tesoro, vedrai che tutto andrà bene.

    Sprofondata tra i morbidi cuscini di piuma, Cristina si lascia confortare da quelle parole pronunciate con affettuosa incisività e, un poco alla volta, la crisi si placa. Rovistando fra i ricordi di Martina, si sofferma sulla festa del suo ventunesimo compleanno e la rivede con l’abito di chiffon verde acqua, bellissima ed elegante, come sempre. Si destreggiava tra gli invitati con assoluta naturalezza, nonostante le scarpe dal tacco vertiginoso; si fermava a conversare con tutti, attenta alle esigenze di ciascuno dei presenti. Ricorda che, in mezzo alla moltitudine degli invitati, era riuscita a malapena a salutarla e le sembra ancora di avvertire il disagio e l’inadeguatezza che aveva provato, per il semplice vestito che indossava e le poco appariscenti ballerine di pelle. Vedendo tutta quella sfilata di abiti vistosi pensò di essere vestita in modo troppo semplice per la festa organizzata dalla sua carissima amica, senza rendersi conto che la sua eleganza e la sua classe, unite all’innato riserbo, la circondavano di una sfera di ineguagliabile originalità. Lorenzo era fra gli invitati. La notò, mentre stava parlando, sorridendo, con un ragazzo olandese. Si avvicinò e si trovarono fianco a fianco, davanti al tavolo del buffet, con un piatto da riempire. Gli occhi scuri incollati nei suoi.

    Vino bianco, fermo o mosso? chiese, ostentando sicurezza. La voce calda, morbida, di quel bellissimo uomo, con la velocità di un lampo, colpì con un sussulto Cristina, che si sentì avvampare.

    Bevo solo champagne rispose e subito si vergognò di quella frase idiota. Le parole le erano sfuggite senza premeditazione e, spesso, quando veniva colta alla sprovvista dall’imbarazzo, non rifletteva su ciò che stava per dire. Allora aveva delle uscite poco felici, come se i pensieri si congiungessero a parole che non erano in grado di esprimerli e ne uscivano così frasi che si rammaricava di aver pronunciato. Qui non ne vedo, se vuoi vado a comprarne una bottiglia. Sembrava alquanto divertito.

    Ottima idea rispose lei, nella speranza di creargli qualche difficoltà mentre cercava di districarsi dal suo impacciato e visibile turbamento. Incrociò il suo splendido sorriso e in un attimo pensò che, nei suoi sogni sospesi nella luce del primo mattino e nel buio della notte, l’uomo dei suoi sogni era sempre stato così. Desiderava un compagno esattamente come questo ragazzo. Nel momento in cui inseguiva il suo pensiero, scegliendo una tartina al salmone, lui scomparve. Si ritrovò, frastornata, a continuare il discorso con l’olandese e a cercare con urgenza quei riccioli neri fra le varie teste degli invitati. Dopo una ventina di minuti, stanca di frugare con gli occhi la stanza, uscì in giardino a prendere una boccata e d’aria. E fu allora che, come in un film, Lorenzo spuntò da dietro la siepe di lauroceraso con una bottiglia di champagne. Per te. Cristina sorrise divertita e corse a prendere due flute. Per noi lo corresse. Alla nostra amicizia.

    Rimasero in giardino a raccontarsi la loro vita, chiusi nei contorni di una favola.

    Alle tre di quella calda notte una luna piena dal colore ambrato rischiarava i loro volti, evidenziando i loro occhi raggianti e la bottiglia di champagne ormai vuota. Le loro mani intrecciate stavano tessendo un programma per il futuro e sembrava si conoscessero da sempre. Lorenzo la lasciò alle cinque della mattina davanti al portone di casa, con la promessa di richiamarla la sera stessa.

    Seguendo il filo dei ricordi, riassapora l’entusiasmante euforia di quei giorni e la sorpresa della proposta di matrimonio, avvenuta solo dieci mesi dopo quella fatidica sera.

    Poi era arrivato Gianluca a completare una situazione idilliaca e la gioia era stata totale, appagante. Il suo sogno era divenuto realtà. Si godeva quello stato di grazia, come se fosse potuto durare per sempre; come se le fosse stato assegnato dal cielo e, per una legge superiore, nessuno e niente al mondo avrebbe potuto portaglielo via. Non sapeva, allora, che la fortuna è breve, non aveva memorizzato che la felicità non è una condizione duratura di questa vita, non aveva considerato che bisogna essere pronti alla delusione, alla sconfitta, al dolore.

    La voce rassicurante di Martina le arriva a tratti, da un’ovattata distanza, come una dolce filastrocca che la coccola con la sua musicalità.

    Adesso è al sicuro. Si raggomitola nel letto, sfiora il cuscino e, finalmente, si addormenta.

    2

    Allora, gliel’hai detto?

    Il corpo teso, la voce ringhiosa, l’annuncio di nuove ostilità.

    La segretaria lo affronta proprio sulla porta dell’ufficio, con malcelata urgenza. Lorenzo è colto di sorpresa, ha i nervi a fior di pelle.

    Ha passato la notte quasi completamente in bianco, a causa del malessere del figlio, che ha pianto spesso, convulsamente.

    È lunedì mattina e la settimana incomincia malissimo.

    Simona rimane con la mano appoggiata sulla maniglia, lo fissa negli occhi aspettando la risposta.

    Ma Simona, lasciami almeno entrare, non aggredirmi nel corridoio! La trascina dentro prendendola per un gomito e si affretta a chiudere la porta, per evitare che qualche collega possa captare l’eco di quella sgradevole discussione. Sa che, per quanto siano cauti e dissimulatori nel comportamento, qualche voce comincia già a circolare, nell’ambiente lavorativo, sulla loro storia. Vieni qua, amore, parliamone… le dice con voce premurosa, cercando infidamente di calmare la delusione che la tormenta da giorni. Ma lei è caparbia e torna inesorabilmente all’attacco: Hai promesso che avresti parlato a tua moglie. Quando ti decidi a dirle di noi due? Hai forse paura? Se vuoi posso farlo io.

    Questa storia va avanti ormai da giorni e Lorenzo arriva tutte le mattine al lavoro irritato, sapendo di dover affrontare nuove schermaglie ed escogitare bugie sempre diverse. Ma quella mattina si sente stanco, sfinito. Gianluca non ha dormito. Sembrava in preda a un incubo ma in realtà era sveglio e vigile. Sudava e sbatteva le braccia, ripeteva velocemente parole incomprensibili. Non aveva nemmeno una linea di febbre, forse si era stancato troppo a scuola. La maestra aveva deciso di costruire un presepe di carta e tutti i bambini avevano dovuto collaborare portando carte colorate, colla, forbici, paglia, piccoli sassolini bianchi e del sale grosso. Il bimbo si era impegnato con eccessiva diligenza in questo compito.

    Lui e Cristina, dopo il breve scambio di idee sul lavoro svolto a scuola, avevano cercato di calmarlo, di fargli bere una tisana di biancospino e melissa. Ma Gianluca continuava a essere agitato. Si era addormentato alle cinque, dopo essere rimasto con lo sguardo fisso, per lungo tempo, sul modellino del veliero in legno. L’avevano costruito insieme il Natale dell’anno precedente.

    Lì, vicino al modellino,

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