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L'informazione tra riforma e controriforma
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E-book262 pagine3 ore

L'informazione tra riforma e controriforma

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Paolo Murialdi giornalista professionista, redattore capo del quotidiano milanese Il Giorno, è stato presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana dal 1974 al 1981.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2020
ISBN9788899332655
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    L'informazione tra riforma e controriforma - Paolo Murialdi

    storia.

    L’INFORMAZIONE REGIONALE GARANZIA DI PLURALISMO

    Relazione al convegno L’Informazione e la costruzione dello Stato regionale Rimini, 17 settembre 1974

    Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo convegno con una relazione, alla televisione si stava concludendo il ciclo dei films di quel magistrale interprete dell’utopia democratica americana che fu Frank Capra. In uno dei film trasmessi, Mr. Smith va a Washington, del 1939, c’è un episodio che riguarda la libertà d’informazione e il pluralismo. Il film racconta la storia di un ingenuo ma indomito e onesto pivello della vita politica il quale, portato al senato dai boss del suo Stato, uno di quelli delle Montagne Rocciose, ne scopre i loschi traffici, non sta al gioco, si ribella e alla fine li sconfigge. Il capo della banda di affaristi, di corruttori e di corrotti è un tizio che controlla tutti i mezzi di informazione di quel lontano Stato; così, quando la battaglia ingaggiata al Senato dal baldo giovanotto comincia a fare notizia da prima pagina per i quotidiani di Washington, dà ordine ai giornali e alla stazione radio di quello Stato di non parlarne, o di dipingere Smith coi colori più foschi, attraverso una serie di falsi. Per spezzare questo silenzio, per controbattere questa propaganda, agli amici di Smith non resta che ricorrere ai boy-scouts, i quali stampano un’edizione speciale del loro giornalino e la diffondono di casa in casa facendo conoscere quel che realmente accade nella Capitale.

    L’episodio non ha punti di contatto con l’odierna situazione della stampa in Italia e con i problemi che la crisi dell’informazione – progredita con moto sempre più accelerato in questi ultimi tempi – ci impone; siamo lontani dall’America roosveltiana e da certe sue espressioni nobili e ingenue; inoltre, l’Italia è piccola in confronto agli Stati Uniti, possiede giornali che vengono letti in tutte le zone del Paese, e tanti altri, che oltrepassano i confini delle province e delle Regioni, facendo da contrappeso ad altri giornali. C’è chi afferma che qui da noi non si può impedire, non pubblicandola sul quotidiano locale, che una notizia circoli. È e sarà anche vero; tuttavia, quel potente affarista che impedisce ai concittadini di Smith di sapere che a Washington c’è chi denuncia le sue malefatte, non mi sembra né tanto remoto, né tanto lontano. Per cui mi pare che, anche con la sua elementarità, l’episodio raccontato da Capra possa servire da introduzione a un discorso sul pluralismo dell’informazione.

    In un Convegno come questo, che riunisce uomini politici, sindacalisti, giornalisti e altri lavoratori dell’informazione, è superfluo analizzare i termini della crisi della stampa quotidiana e i grossi recentissimi mutamenti della mappa delle concentrazioni, in cui è sempre più complesso l’intreccio fra il privato e il pubblico, con delimitazioni che restano per lo più segrete, o sono a conoscenza soltanto di alcuni detentori del potere politico ed economico; una mappa su cui è comparso, all’inizio di quest’anno, il nome del presidente della Montedison, Eugenio Cefis, che prima si è affiancato a quelli di Agnelli, di Monti, di Girotti e di Rovelli, e poi – a quanto si sa – li ha sopravanzati. Ed è altrettanto superfluo parlare della convinzione, ormai acquisita dalle forze politiche e sociali democratiche, da giornalisti e da poligrafici, che occorre cambiare strada attraverso una reale riforma dell’informazione, da quella radiotelevisiva a quella scritta. Mi sembra più utile cercare di indicare, come temi di dibattito, i punti su cui sviluppare la seconda fase del movimento per la riforma, e i modi di superare gli ostacoli e i bivi che ci troviamo davanti, partendo dalla situazione attuale della stampa quotidiana, dalle posizioni già raggiunte e da quelle che sono già in discussione a livello parlamentare.

    Per individuare come si possa realizzare un maggiore e diverso pluralismo delle voci, e il ruolo che le Regioni debbono svolgere, mi sembra utile esaminare la mappa della stampa quotidiana dal punto di vista regionale o interregionale, cioè di quelle zone di influenza e di vendita dei quotidiani più diffusi, la cui forte cristallizzazione occorre, come minimo, incrinare. Questa linea di indagine basata sui quotidiani capozona, cioè sugli oligopoli regionali dell’informazione, è stata proposta e sviluppata da Enzo Forcella al Convegno dell’Isle del dicembre scorso. Ai rilevamenti compiuti da Forcella, oggi si possono aggiungere altri dati, emersi dall’indagine promossa lo scorso anno in tutta la Penisola dalle società editrici di 34 quotidiani. Possiamo così avere un quadro più circostanziato nel quale, non solo troviamo la conferma delle note posizioni di predominio o di egemonia, ma le possiamo valutare anche in rapporto alla penetrazione di altri quotidiani che, arrivando da altre regioni o uscendo nella stessa città sono in concorrenza con capozona.

    I dati che citerò sono indici di lettori, non di acquirenti, e sono calcolati in percentuale sul numero dei lettori definiti ultimo periodo, cioè del giornale del giorno precedente rispetto alla popolazione adulta di ciascuna regione. Il parametro basato sulla popolazione al di sopra dei 15 anni è meno preciso di quello calcolato sulle copie globalmente vendute; ma, come sappiamo, l’editoria giornalistica è sempre stata molto gelosa sulla cifre, e quindi dobbiamo accontentarci di queste recenti valutazioni. Eccone alcune:

    in Lombardia, il Corriere della Sera ha una penetrazione del 22,7 per cento, Il Giorno dell’11,8 per cento; l’Unità del 4,2; La Stampa dell’1 per cento. Nel settore dei quotidiani del pomeriggio troviamo La Notte col 7,5 e il Corriere di Informazione con 5,7. Stampa Sera ha un indice di 0,1. Non è possibile, per ora, qualsiasi calcolo sul quotidiano Il Giornale Nuovo, uscito pochi mesi fa.

    In Piemonte, La Stampa raggiunge il 34,8 per cento, il Corriere e l’Unità l’1,9; Il Giorno lo 0,2. La Gazzetta del Popolo non ha partecipato all’indagine ma sappiamo che le copie che diffondeva l’anno scorso erano, all’incirca, un quinto di quelle diffuse dalla Stampa.

    In Liguria gli indici rilevati sono: Secolo XIX 26,3; La Stampa 9,3; La Nazione 5,5; Corriere della Sera 4,3 l’Unità 4; Il Giorno 1,3. Mancano i dati de Il Lavoro, che non ha partecipato all’indagine, e che è il secondo quotidiano della Liguria.

    Nel Veneto, dopo il 23,4 per cento del Gazzettino, troviamo il Corriere col 5; Il Giorno col 3,9; l’Unità col 2,3; La Stampa con l’1,4; il Resto del Carlino con l’1,3.

    Nell’Emilia-Romagna gli indici risultano questi: Resto del Carlino 25,7; l’Unità 9,6; il Corriere 3,6; Il Giorno 2,4; mentre in Toscana la Nazione ha il 29,1 per cento, l’Unità il 7,6 il Corriere l’8; Il Giorno l’1,1; La Stampa 0,4.

    Nel Lazio c’è in testa Il Messaggero col 24,4 seguito da Il Tempo 10,6; da l’Unità 3,3; dal Corriere della Sera 1,8; da La Stampa e Il Giorno 0,5. Paese Sera ha un indice di penetrazione del 9,7; mancano indicazioni sugli altri quotidiani del pomeriggio che escono nella capitale, ma essi sono certamente inferiori.

    In Campania: Il Mattino 15,4; Roma 7,1; l’Unità 2; Corriere 1,2; Il Tempo 0,8; Il Messaggero 0,4.

    In Sicilia: La Sicilia di Catania 12,9; il Giornale di Sicilia di Palermo 9,5; L’Ora 2,9; l’Unità 1; Corriere della Sera 0,7.

    Per la Sardegna mancano i dati dei due quotidiani appartenenti all’industriale Rovelli, che non hanno aderito all’indagine; ma si sa che le copie diffuse dall’Unione Sarda e dalla Nuova Sardegna sono, all’incirca, il 90 per cento di quelle in circolazione nell’Isola. In quanto ai giornali che arrivano dal continenti, l’indagine gli assegna questi indici di penetrazione: 1,6 per cento l’Unità ; 1,5 il Corriere; 0,8 Il Tempo. Gli altri sono a quote inferiori.

    Mi sono dilungato nell’elencazione di questi indici perché sono poco conosciuti e, nello stesso tempo, sono i circostanziati che possediamo. Le conclusioni da trarre sono ovvie:

    Nelle regioni citate il dominio dei quotidiani capozona è netto salvo che in Lombardia, in Liguria, nel Lazio, in Campania e in Sicilia dove esiste una spartizione relativa. Anche in queste regioni c’è, comunque, sempre la prevalenza del quotidiano capozona.

    La penetrazione del giornale nazionale più diffuso, il Corriere della Sera, è – come sottolineò Forcella – «di grande rilievo per la formazione di un’opinione pubblica di élite a dimensioni nazionali», ma non intacca l’egemonia dei capozona neppure nelle regioni confinanti con la Lombardia. La stessa considerazione vale, naturalmente, per gli altri quotidiani a diffusione nazionale.

    Questa situazione trova un ulteriore rafforzamento nello status e nelle posizioni politiche dei quotidiani provinciali, quasi tutti riconducibili a una omogenea matrice proprietaria (industriali singoli o associati) o, comunque, a una omogenea ispirazione politica. Non si dimentichi che le quattro nuove testate comparse dal dicembre 1973 a oggi, in un periodo di grandi difficoltà economiche non soltanto per l’editoria giornalistica, – Il Giornale a Varese, Brescia Oggi, Giornale Nuovo a Milano e Tutto Quotidiano a Cagliari – sono tutte espressione di gruppi industriali. Ma, soprattutto, si deve tener presente che, in seguito dei recenti passaggi di proprietà e ad altri fattori legati all’attuale crisi economica e politica, i maggiori quotidiani di informazione nei quali, in anni recenti, sono stati realizzati progressi nel modo di informare e in quello di gestire il lavoro redazionale, sono sottoposti a un’azione di omogeneizzazione del consenso, sia pure modello 1974 anziché modello Anni Cinquanta. Le novità avvenute nella mappa delle concentrazioni ci dicono che delle due spinte che potevano essere – come sostengono alcuni – alla base del processo delle concentrazioni stesse, quella economica, di razionalizzazione neocapitalistica, e quella politica che mira ad assicurare ai gruppi egemoni il controllo degli strumenti dell’informazione scritta, è quest’ultima che prevale nettamente in questa fase.

    L’ultima conclusione da trarre dal panorama della stampa visto dall’angolazione regionale è che, sul piano della contrapposizione delle idee, soltanto l’organo del Partito comunista riesce in ogni regione, sia pure con esiti diversi e con particolari diffusioni domenicali e in occasioni politiche, a contrastare i giornali capozona e quelli a diffusione nazionale.

    Nonostante che l’attuale pluralismo, con l’eccezione dei quotidiani di partito e di tendenza, abbia un denominatore comune proprietario o politico e sia ben lontano dal corrispondere al pluralismo sociale, politico e culturale che caratterizza il nostro Paese, desidero dire subito di essere d’accordo con tutti coloro che sostengono che esso vada salvaguardato per due ragioni che devono diventare delle condizioni: in primo luogo, perché si è visto che l’impegno e la lotta per realizzare una migliore informazione possono ottenere risultati parziali ma non trascurabili, tant’è vero che vengono contrastati dal potere, come dimostrano i casi del Messaggero e del Corriere; in secondo luogo, per la convinzione che, con la riforma, si possono creare strumenti per migliorare i giornali esistenti, rendendoli non soltanto più aperti ma più rispondenti alle reali e articolate esigenze informative di ciascuno di essi e dei lettori ai quali si rivolgono.

    Delineata la situazione odierna, siamo al che fare per arrivare a una reale libertà di espressione e a una più ampia circolazione delle idee.

    Gli obiettivi da raggiungere, a breve e medio termine, nel quadro della realtà politica e sociale di oggi, sono due:

    Un’informazione corretta, più aperta e completa, meno condizionata dal potere editoriale e da quello generale, più matura, come ha dimostrato di essere matura la società politica e civile.

    Creare le basi necessarie per raggiungere un pluralismo che dia voce anche alle componenti sociali fino a qui escluse. In breve, fare giornali più credibili, che sarà quindi più giusto sostenere, e far nascere voci nuove, che rispondano a effettive necessità della società politica e civile, mettendo gli uni e le altre al riparo da interferenze esterne attraverso una legislazione appropriata, una gestione democratica degli aiuti e facendo anche ogni sforzo per combattere i costi eccessivi, perché sappiamo che se l’attivo di un bilancio, di per sé stesso, non garantisce affatto una buona informazione, dobbiamo anche tenere presente che i passivi finiscono per avere un prezzo politico, a meno che il passivo sia sostenuto dalla partecipazione delle forze sociali di cui è espressione il giornale.

    Lo strumento è la riforma dell’informazione scritta e radio-teletrasmessa che la Federazione della stampa richiede da tempo e che, con la deliberazione del Consiglio nazionale del febbraio 1973, essa ha posto come cardine della propria azione. In quel deliberato, in cui si tracciavano i punti essenziali della riforma, venivano sottolineate «l’importanza della funzione che, per una sempre maggiore democratizzazione dell’informazione possono svolgere le Regioni» e la «fondamentale rilevanza» che assume la riforma democratica della Rai-Tv, due grandi problemi tra loro collegati, che giustamente questo convegno accomuna.

    La riforma si deve articolare su due direttrici concomitanti: provvedimenti a sostegno delle iniziative editoriali esistenti e per favorire la nascita di nuove iniziative; provvedimenti di riforma legislativa dell’informazione, imperniati sullo statuto dell’impresa giornalistica, ma che devono comprendere anche un completo rinnovamento delle norme dei codici, della legge di pubblica sicurezza che di quella sulla stampa, che appaiono ancora ispirate a principi di autoritarismo in contrasto con l’ordinamento sancito dalla costituzione; e un riesame radicale della legge che regola la professione giornalistica, eliminando i condizionamenti dall’attuale struttura e adeguando le norme al dettato costituzionale.

    Tutti ricordano la lunga indagine conoscitiva condotta dalla Commissione Interni della Camera tra la fine del 1973 e l’inizio di quest’anno, la presentazione da parte di un gruppo di deputati democristiani di una proposta di legge alla quale si affiancherà presto un progetto di legge socialista, la presenza al Senato di una mozione comunista, e la recentissima conferma che il Governo intende varare in autunno (un periodo che dovrà già essere inderogabilmente segnato dal varo della riforma della Rai-Tv) un proprio provvedimento di legge sulla stampa.

    Tutto fa quindi ritenere che ormai siamo arrivati al dunque, o che ci siamo vicini. Sarà la prima volta che il confronto sulla libertà di informazione e sul diritto all’informazione non è più limitato ai vertici politici o sindacali, ma un confronto globale al quale sono chiamate a partecipare tutte le forze politiche e sociali. Sarà un confronto duro, anche se, con la discesa in lizza dell’onorevole Piccoli, possiamo ritenere che il principio della riforma è ormai condiviso dalla maggioranza delle forze politiche; e non facile perché alcuni aspetti e obiettivi della riforma sono ancora da chiarire anche da parte di noi giornalisti, e perché l’opposizione sui punti più avanzati della riforma è netta.

    Gli editori – le cui responsabilità per l’attuale situazione della stampa sono superiori a quelle che pure ha avuto la categoria giornalistica per la sua condotta spesso ispirata a criteri corporativi – hanno saputo, nella prima fase, difendere con successo la struttura da monarchia assoluta dell’azienda giornalistica e, successivamente, contrastare e limitare la sua trasformazione in monarchia costituzionale. Ora che il problema minimo è quello di democratizzare questo assetto costituzionale, gli editori puntano i piedi e fanno previsioni apocalittiche.

    In sintesi, il nodo politico immediato è questo: si trattava di vedere se prevarranno le tesi di quelle forze che vogliono solamente adeguare le strutture e la legislazione dell’informazione ai tempi nuovi, senza mutare nulla di sostanziale, o se prevarranno le forze che vogliono cambiare strada, che ritengono necessario un vero e proprio salto di qualità per arrivare a quegli obiettivi su cui, realisticamente, possiamo e dobbiamo puntare, e che abbiamo già indicato.

    Vediamo prima lo statuto dell’impresa giornalistica che deve distinguere tra i diversi tipi di giornale (organi di partito, organi sindacali, cooperative, e giornali di informazione) ma che, con le sue innovazioni sul modo di gestire l’attività informativa, deve riguardare, a mio parere, tutte le imprese che operano nel settore e non soltanto quelle della stampa quotidiana.

    Su alcuni punti mi sembra che si sia ormai raggiunta una larga convergenza, come l’obbligo di rendere pubbliche la proprietà e le fonti di finanziamento dei giornali, e l’adozione di un bilancio tipo, con l’aggiunta dell’indicazione delle partecipazioni in altre società o attività sia dell’impresa giornalistica sia dei suoi soci, come suggerirono poco tempo fa i giuristi Barile, Cheli e Rodotà. Anche se non ci si devono fare eccessive illusioni su risultati di sufficiente trasparenza, si otterranno certamente effetti positivi: non per nulla la realizzazione di questa precisa indicazione dell’articolo 21 della Costituzione è stata sempre avversata con tenacia dagli editori e dai gruppi di potere.

    Non mi soffermo su altri punti di carattere giuridico, su cui penso che qualche giurista interverrà nel corso del dibattito, ma su quegli aspetti dello statuto che riguardano il lavoro all’interno dell’azienda, cioè tutte quelle operazioni che, con espressione stereotipata, siamo soliti chiamare «un nuovo modo di fare i giornali», e che devono coinvolgere, con diritti e con doveri chiaramente delineati, i giornalisti, i poligrafici e gli altri lavoratori dell’impresa.

    Il primo è la separazione fra l’attività economica dell’editore e la gestione dell’informazione. Nello statuto dovrà trovare – come dice la già citata deliberazione di Firenze – una soluzione giuridica, più completa e soddisfacente di quella derivante dal Contratto nazionale di lavoro, il problema della funzione e della responsabilità del corpo redazionale nei momenti fondamentali della vita dell’azienda, e dovrà trovare una disciplina definitiva il sistema dei rapporti fra direttore e corpo redazionale e fra direttore ed editore. I lavoratori dell’impresa giornalistica non puntano a corresponsabilità di gestione economica e direzionale; un’eventuale presenza di giornalisti, tipografi e impiegati amministrativi negli organi societari dovrebbe avere, come sostengono i sindacalisti e molti giuristi, unicamente finalità conoscitive; ma essi puntano a una partecipazione reale, di carattere conoscitivo e di discussione a certi livelli, e anche di carattere operativo ad altri

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