Come eravamo (C'era una volta la Pubblicità)
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ROMANZO.
«Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso in via Gluck, in una casa, fuori città, gente tranquilla che lavorava... Questo ragazzo della via Gluck... un giorno disse, vado in città...» così cantava Celentano a Sanremo ed era il 1966.
Ma questa è anche la storia di Mario Bruno, il ragazzo-protagonista insieme a tanti altri ragazzi di questo libro. Cambiano solo il nome della via di Milano, Mac Mahon, invece di via Gluck- e il punto d'arrivo in città: nel caso di Mario Bruno è fare il creativo in Pubblicità. Per il resto, i miti sono gli stessi: quelli dell'American Dream, il Sogno Americano, dal rock'roll a Hemingway.
Attraverso le avventure e disavventure di Mario Bruno, rivivono situazioni, vezzi e caratteri di quegli anni restati leggenda come gli Anni del Boom e culminanti nella Milano da Bere.
Guido Sperandio
Guido Sperandio was born and lives in Milan. A freelance writer for some thirty national newspapers and magazines, he later became a creative-copywriter in advertising.A writer for adults, he has also published for children and young people with major national publishers and in the USA.He has also written comics, including the legendary Topo Gigio and Tiramolla.After a life spent practising the most unbelievable genres of writing, he has recently replaced the cult of the Word with a passion for the Image. He has been seduced by Pop Art, starting with Andy Warhol & Co and is now working on and publishing a whole series of albums under the 'Guisp Collages' label.Any special notes?He has no mobile phone, no car or microwave oven, but he does have a very affectionate and intelligent cat called Tatablu.Guido Sperandio è nato e vive a Milano. Free-lance per una trentina di giornali e periodici nazionali, diventa in seguito creativo-copywriter in pubblicità.Scrittore per adulti, ha pubblicato anche per bambini e ragazzi con le principali case editrici nazionali e negli USA.Ha scritto anche fumetti, tra cui i mitici Topo Gigio e Tiramolla.Dopo una vita trascorsa a praticare i generi più improbabili di scrittura, ha recentemente sostituito il culto della Parola con la passione per l'Immagine. A sedurlo, la Pop Art, a cominciare da Andy Warhol & Co e così ora ha in corso l'elaborazione e la pubblicazione di tutta una serie di album con l'etichetta "Guisp Collages".Note particolari?Non ha cellulare, nè automobile o forno a microonde, ma ha una affettuosissima e intelligentissima gatta di nome Tatablu.
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Anteprima del libro
Come eravamo (C'era una volta la Pubblicità) - Guido Sperandio
Epilogo 1
Epilogo 2
Personaggi, fatti e luoghi come pure momenti, cronologie e situazioni sono autentici e reali, e somiglianze con persone viventi o nel frattempo decedute sono ravvisabili da chiunque queste persone abbia conosciute. L’autore, infatti, esclude ogni ricorso alla fantasia. Sia perché non c’era niente da inventare, i fatti di per sé bastando. Sia perché l’autore stesso ammette d’essere pigro e di scarsa immaginazione. Già caffè e fumo erano troppi. C’era anche il cardiologo dell’ASL a dissuadere da ogni velleità.
Come eravamo
Ciascuno aveva la sua storia. Tutti una gran voglia di arrivare. La generazione che aveva conosciuto la guerra è andata all’assalto della pace. Non più cannoni, ma il marketing. Non più bandiere, ma i logo.
1.
Il futuro sulla punta di una biro.
La mattina di quel primo di settembre mi batteva nel cuore il mondo. Mi ero rasato due volte, la prima per rasarmi, la seconda senza rendermi conto di fare la barba a una palla da biliardo.
Chiamiamola, emozione.
Ad avere l'automobile a quei tempi erano i piazzisti, i capitani d'industria e qualche fortunato vincitore di concorsi, così all'agenzia c’ero andato in tram. Col vestito della festa, come si va dal boia. Che gli si mostra la testa e, previo inchino, gli si dice: «Eccomi qua».
Non trovai nessuno a cui offrire la mia testa, conferma che non era come lavorare in una banca: lì, alla Carey Pearson & Valley, nessuno compariva prima delle dieci.
Tirai una Coca dal distributore.
La Coca a piccoli sorsi per farla durare e farmi sembrare l'attesa meno lunga. Andy Warhol avrebbe avuto tutto il tempo di ritrarla. Ma Andy Warhol stava a New York a copiare le soup della Campbell.
Presi gusto a succhiarmi la Coca, me la tirai anche la mattina dopo, e quella dopo ancora, al posto del cappuccio e brioche.
Diventò abitudine.
La bottiglietta sul tavolo vicino alla macchina da scrivere.
La Coca all'alba.
Mi aspettavo che tutti mi aspettassero. Invece.
Arrivò finalmente l'art col quale dovevo lavorare. L’art si piazzò al tavolone da disegno.
Se ne guardò bene dal concedermi un’occhiata. Avrebbe perso tempo.
Come nei marines, conta lo spirito di corpo, mi dissi.
L'art si pulì il tavolone. Lo passò e ripassò con una spazzola, poi con uno straccio.
E io contavo: un, due, tre… Sicuro che a cento, l’art si sarebbe scopato il tavolone.
Andai verso l’unico tavolo (oltre al tavolone da disegno). Sul piano di vetro erano visibili
il cappuccio di una biro (senza la biro), un foglio scarabocchiato e spiegazzato, due elastichini,
una macchia di birra ancora appiccicosa.
«La macchina da scrivere dov’è?» chiesi.
L'art lanciò un urlo: «Yahuuuuu!».
Poi: «Porca beccaccia» imprecò, strabuzzò gli occhi, mi fissò. «La macchina da scrivere?». Indugiò, scrollò le spalle: «Cosa ne so? Mica faccio il copy, io».
«Quello di prima, al mio posto, come cazzo scriveva?»
«Non scriveva. Diceva che era il copy più geniale e giovane d'Italia, ha litigato col capo, e se ne è andato».
La macchina da scrivere, la trovai. Insieme al telefono sotto cataste di bozzetti. Abbandonati alla
mortificazione dell’oblio nonostante il sangue sparso a concepirli.
(La settimana dopo, mi facevo la doccia. Ancora mi usciva polvere dall’ombelico.)
«Porca beccaccia!» l'art non smetteva di ululare mentre abbozzava schizzi su schizzi. Infaticabile.
Mi accesi una sigaretta, l'art s'infuriò: «Fumi?». Gettai la sigaretta.
Mi accesi un mezzo sigaro (erano ancora i tempi in cui giravo ben dotato). La stanza fu invasa da una nube spessa, azzurra.
2.
Non era stato facile arrivare lì, avevo dovuto superare una serie di barriere mica male. Le mie personali interne e infine quella esterna, decisiva.
Affrontarla, ci voleva un bel coraggio. Me ne rendo conto solo ora a distanza di un bel po’ di anni. E non finisco di meravigliarmi, mi viene da pensare che al posto mio ci fosse un altro.
Era andata press’ a poco in questo modo.
Inizio favolosi Anni Sessanta. Clima stimolante. Aspettative. I Beatles in procinto di assurgere a Coleotteri Epocali. Passo la soglia della CPV, Carey Pearson & Valley, Agenzia di Pubblicità e Marketing. Mi indirizzano da un signore col faccione rosso. Il rosso del faccione cambiava d’intensità ad ogni istante. Esauriva in un attimo l’intera gamma del Pantone.
Il faccione sogghigna: «E così lei, Bruno, vorrebbe fare il creativo?».
«Sì, io scrivo bene e ho fantasia» dico, piccato.
Alle spalle del faccione stava affisso un poster inglese: un elefante su una lavatrice cercava di sfondarla. Barriva in un fumetto «Per quanto il vostro bucato possa essere pesante…».
La Pubblicità è proprio un bel mestiere, rifletto e godo.
Il faccione prende spunto dal barrito e mi lancia su cultura varia e attualità. Io, pronto: «Bla-bla- bla».
Non mi sembrava vero che qualcuno si degnasse di ascoltarmi. Mentre il faccione rosso si limitava a mugolii ora di assenso ora perplessi. Ogni tanto alzava gli occhi al cielo. Quasi cercassero ispirazione in un’entità ultraterrena soltanto a lui nota.
«Bla, bla, bla…», io imperterrito, intanto.
«Starei attento… D’accordo… Starei attento… D’accordo... Starei attento…», lui il faccione.
*
«Come mai il cuore è simbolo ricorrente da sempre in ogni cultura e civiltà . E non, che so?, il pancreas», il faccione da rosa a rosso bordò.
Rifletto che il pancreas fa schifo solo a nominarlo mentre il cuore, fra tutti gli organi umani, è l’unico che si sente, è vivo, batte dentro.
*
«Cosa pensa del rapporto immagine/parola».
Mi butto: «Si usa dire che un’immagine vale mille parole. Io dico che una parola può uccidere più di mille spade».
*
Mi avevano colpito i suoi abiti da illusionista. Mi aspettavo di vederne uscire conigli o coppie di candide colombe. Mentre lui, ammirato, non smetteva di osservare le mie scarpe.
Ero uscito di caserma con un permesso falso. La leva stava per scadermi e il must: trovarmi assolutamente un lavoro, al più presto e che gradissi.
La divisa, i mesi se li portava impressi tutti. Lisa com’era, commuoveva. Faceva pensare a un reduce miracolato dal destino, Vietnam, se non l’ultima Seconda Guerra mondiale. E anche le scarpe calzavo dell’Esercito.
I miei commilitoni le disdegnavano. Se le portavano da casa. Mentre io da dio mi ci trovavo.
Erano da D-Day, sbarco di Normandia. Larghe. E piatte. Ci si poteva stare in tre per scarpa, tre per due, sei: mezzo plotone. Ed erano nere. Dark. Larghe e