Poco più che d'estate
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Anteprima del libro
Poco più che d'estate - Luisa Di Maso
© Utterson s.r.l., Viterbo, 2021
Marchio Editoriale: Dialoghi
Collana: Intrecci
I edizione difitale: febbraio 2021
ISBN 978-88-9279-075-9
Progetto grafico: Stefano Frateiacci
Questa è un’opera di fantasia. Alcuni nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.
www.edizionidialoghi.it
Prefazione
Le storie di famiglia sono state da sempre i primi racconti che abbiamo ascoltato ancora bambini.
Più spesso venivano svelate come dei veri segreti, come qualcosa che non si sarebbe dovuto confessare. Rivelazioni che saltavano una generazione, quella dei nostri padri e delle nostre madri, ed erano invece patrimonio dei nonni. Poi col tempo arrivavano anche le versioni dei genitori, ma solo dopo anni, quando diventavano vecchi anche loro. Era l’età avanzata che in qualche modo li legittimava a scoprire i segreti di famiglia. Vecchie zie incattivite da fidanzamenti spezzati, bisnonni finiti in bancarotta trovati impiccati dal figlio più giovane che da quel giorno aveva perso la parola, vite spezzate, amori proibiti e via dicendo.
Insomma quella normalità che era sembrata per anni anche un po’ noiosa e senza sorprese veniva finalmente sconfessata per una verità ben più affascinante. E dev’essere questa credo la ragione di tanti romanzi, come questo di Luisa Di Maso, che hanno scelto una storia di una famiglia per attraversare un’epoca, per raccontare personaggi magari di pura fantasia, ma immaginati in carne e ossa, credibili.
In questo romanzo breve, una vacanza che prende inizio sul battello che porterà un ragazzo di quattordici anni e sua madre a Ventotene, diventerà per entrambi l’inizio di una nuova vita e la scoperta di verità insospettabili.
Scritto con intenzione di restituire le emozioni di un adolescente che si trova per la prima volta faccia a faccia con l’amore e non sa come comportarsi, il racconto scorre veloce e seducente. Attraverso le parole dell’autrice risentiamo quel senso di inadeguatezza che abbiamo avuto tutti a quell’età, quando i sentimenti, le sensazioni sono dolorosamente più grandi di noi, ma nessuno sembra rendersene conto. Anzi, no, forse qualcuno è sempre stato più sensibile di altri con la saggezza di una lunga storia alle spalle e la sensibilità di chi riesce a guardare dentro le persone ed era quasi sempre un nonno.
Anche in questa storia si narra di un legame speciale del ragazzo con un uomo anziano che vede nel nipote il giusto depositario del più grande segreto di famiglia. Qualcosa che dovrà essere la prova della sua maturità, il giro di boa per farlo diventare adulto.
E come nelle favole, accade tutto in una straordinaria sequenza di coincidenze, di incontri, di rapporti. In una estate assolata e languida che sarà solo l’inizio di una nuova vita, i personaggi della Di Maso prenderanno corpo e poetica consistenza.
Quel segreto tenuto nascosto per così tanto tempo diventa la ragione, la forza di sentimenti mai prima provati e lo sprone per tracciare una nuova strada da seguire.
Dacia Maraini
Ai miei genitori Livia e Mimmo per l’amore,
alle mie sorelle Andreina, Laura e Mariella, che non c’è più,
per le tante estati insieme
a giocare e a inventare storie.
Prologo
Ecco, ci siamo.
Non sarebbe lo stesso se abbandonassi questo spazio sulla scogliera.
Non lo farò.
Sparpaglio a terra le fotografie e ci ritrovo le immagini di allora. Delfini, facciate di case colorate, tegole, portoni, radici di oleandri, un’agave carnosa. E poi profili e primi piani, occhi stretti, per la luce intensa, occhi stupiti.
Il sole sta tuffandosi nel mare, ed è bellissimo da qui osservarne i contorni, i riflessi in acqua. Tra poco sarà notte, una notte senza luna. La migliore delle notti per ascoltare il richiamo, il suono lamentoso delle berte.
Tante volte ho atteso qui, in questo punto preciso, che si pronunciassero, che si chiamassero tra loro e mi coinvolgessero nei loro dialoghi, come quella prima volta.
Allora metto via questo numero infinito di scatti e aspetto.
Con le ginocchia piegate, mi abbandono al ricordo di quella che fu l’estate dei miei quattordici anni e lo farò utilizzando la mia stessa voce, quella voce di allora che iniziava a cambiare, ricorrendo a quel linguaggio semplice che mi caratterizzava.
Non ero un gran parlatore, forse non lo sono neanche adesso, ma avevo forte il desiderio di scoprire il mondo camminandoci sopra, con le mie sole gambe.
1.
Sono sbarcato sull’isola per la prima volta in una calda ma ventilata giornata di giugno. La scuola era finita da poco. Avevo salutato i miei compagni delle medie con la promessa di incontrarci di nuovo dopo l’estate, per assicurarci, nonostante avessimo scelto tutti scuole diverse, del tempo insieme. Il giorno in cui arrivai a Ventotene era da poco passato il mio compleanno e, poco meno di un mese prima, mia madre mi aveva preannunciato che avremmo festeggiato in un luogo insolito.
L’ultima volta che aveva voluto farmi una sorpresa, portandomi in un posto fuori dal comune
, così aveva detto, eravamo andati a Magliano Sabina, nel casale semidiroccato di un certo Dimitri, basso abbastanza da rendere visibile la lunga linea viola che gli spaccava a metà il cranio calvo. Dimitri riteneva che anche noi bambini dovessimo partecipare a un rituale che, nonostante la mia giovane età, percepivo piuttosto stravagante. Ogni mattina, seduti in cerchio a terra, nel salone della meditazione, dopo il saluto, che consisteva nel ripetere un ciao
emesso come uno sbadiglio, la principale occupazione dell’intero gruppo era quella di eseguire esercizi durante i quali era vietato ridere. La pena, in caso di errore, consisteva nel rifare tutto davanti a uno specchio.
Insomma, lo slogan recitato sull’insegna scalcinata all’ingresso, "Ridi con te stesso e con gli altri", veniva rinnegato senza una specifica motivazione.
Per cui, quando mia madre mi prospettò un normalissimo viaggio, ne fui felice ma soprattutto sollevato. Avevo sgranato gli occhi, esultato: «Che bello, in vacanza su un’isola» ma lei subito frenò ogni mia divagazione.
«Non proprio in vacanza».
Ecco, c’era il trabocchetto. E mi agitai.
«Ho trovato un lavoro stagionale, ma avrò del tempo libero e vedrai, Ventotene ti piacerà».
Mi spiegò che il proprietario della libreria, che l’assumeva come commessa, ci avrebbe messo a disposizione un monolocale con una splendida vista sul mare.
Ci pensai. Tutto sommato la prospettiva di trascorrere un’intera estate su un’isola non mi dispiaceva per niente. Allora, più prudente nel dimostrare l’euforia, chiesi di nonno, davo per scontato che sarebbe venuto con noi, ma lei determinata rispose:
«Nonno rimarrà qui».
Si era espressa in modo categorico, mentre spingeva con movimenti bruschi il ferro da stiro sulle lenzuola, rischiando di ustionarsi le dita e io fui vile. Nemmeno ci provai a controbattere.
Così il giorno della partenza, il 21 giugno 2003, nonno mi chiamò dalla cucina:
«Avvicinati, nipote, e batti il cinque!».
Questo modo di dire lo faceva sentire giovane più dei jeans che indossava. Mi picchiettò l’indice sullo sterno e mi disse di sedermi, per fare colazione con lui.
La scatola dei cereali aveva una strana sigillatura. Me ne accorsi, anche se ero ancora insonnolito. Sollevai lo scotch e scostai il lembo di cartone che premeva sul lato alto della confezione. La aprii. Dentro c’era un pacchetto rettangolare. Ridacchiò con quel suo modo unico, rauco, cui seguiva sempre un colpetto di tosse.
Sorpreso, maneggiai l’incarto pensando di avere un libro tra le mani, oppure no, la consistenza era quella di una scatola robusta.
Nonno non mi svelò il contenuto, anzi mi disse:
«Ovviamente è per te, ma non aprirlo ora. Lo farai solo quando sarai arrivato a Ventotene».
Provai a oppormi ma non ci fu verso.
L’abbracciai gli dissi che mi dispiaceva lasciarlo solo per tutta l’estate. Finse di sentirsi offeso. Mi rispose che sarei dovuto andare tranquillo perché lui avrebbe finalmente goduto di un poco di libertà.
«Vigilata!» scherzai, perché da lì a poco sarebbe arrivata da Milano zia Olga, soprannominata in famiglia il militare
, con lei presente non sarebbe stato facile spassarsela!
Non ci fu neanche il tempo di incrociarla, zia Olga. Noi di corsa sul binario, verso il vagone assegnato, mentre lei era in volo. Mi dispiaceva non poterla riabbracciare, ma l’avrei ritrovata al ritorno, così mi aveva assicurato nonno.
2.
Viaggiammo io e mia madre, carichi di bagagli, su un treno da Roma fino a Formia, poi a piedi, sotto il sole cocente, per raggiungere il porto, infine ci imbarcammo e fu proprio sulla nave che conobbi Eva Luna.
Probabilmente la mascella cadde sul torace quando lei si accostò.
Ero sul ponte. Avevo tra le mani la macchinetta fotografica. Desideravo catturare in uno scatto il momento preciso in cui i delfini avrebbero scavallato le onde, precedendo la nave e, dopo numerosi tentativi, finalmente ci riuscii.
Con gli occhiali in testa tenuti come un cerchietto e facendosi ombra con una mano, Eva Luna mi parlò. Disse che quella era una fotocamera da professionisti e che non erano in molti a possederla. L’ascoltavo imbambolato, mi sembrò bellissima, la sua voce il suono di un flauto magico. Avrei fotografato anche lei se avessi avuto il coraggio di chiederle il permesso. Mi domandò quanti anni avessi e io risposi senza esitazione di avere sedici anni. Azzardai perché l’aspetto fisico non mi tradiva. Tutti mi credevano più grande.
«Comunque io sono Eva Luna. C’è un libro che s’intitola così, ma quando sono nata io il libro non era ancora stato pubblicato».
Sollevai le sopracciglia e annuii un poco, tanto per mascherare la mia scarsa conoscenza letteraria.
«Io invece Luca» mi presentai, senza avere libri da enunciare.
Mia madre, che fino ad allora era rimasta al chiuso, sbucò fuori e si avvicinò a noi.
Si aggrovigliò come un’edera addosso, mi schioccò anche un bacio sulla guancia. Sarei voluto sprofondare.
Mi irrigidii e iniziai ad arrossire ancora prima che facesse o dicesse qualcosa.
Una breve conversazione di circostanza con lei, poi spifferò proprio quello che non avrei voluto sentire:
«Il mio ometto ha compiuto quattordici anni pochi giorni fa!».
Mi aggrappai al corrimano. Ero nauseato.
Mia madre, che si era accorta del