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Il respiro dell'alba: Un caso per Vassallo e Martines
Il respiro dell'alba: Un caso per Vassallo e Martines
Il respiro dell'alba: Un caso per Vassallo e Martines
E-book356 pagine4 ore

Il respiro dell'alba: Un caso per Vassallo e Martines

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Info su questo ebook

In una livida alba d’ottobre un corpo galleggia alla deriva nelle grigie acque della baia di Vernazzola. Tirato a riva, il commissario Vassallo e i suoi uomini si accorgono che si tratta del cadavere di una suora. Nello stesso istante qualcuno bussa alla porta di Luigi Martines, il poeta, che si risveglia da un sonno agitato da molti fantasmi. Ha ancora tra le mani una vecchia foto trovata la sera prima nella cassetta della posta. Sul retro una data e un oscuro messaggio: Ciò che eri può ucciderti più di ciò che sei? Che cosa lega il cadavere di una suora e una vecchia fotografia? Indagando tra un passato dimenticato e un presente oscuro, Vassallo e Martines si ritroveranno invischiati in una ragnatela intessuta d’ambiguità e omissioni, falsità e ricatti, che finiranno per mettere in pericolo la carriera del primo e la vita del secondo. Un’indagine che si rivelerà dura, piena di trappole, sconcertanti dubbi e agghiaccianti rivelazioni, nella ricerca di una verità che a nessuno interessa, che nessuno vuole vedere. Una verità che ha molte facce e che mai è la stessa per tutti.

Antonella Grandicelli nata a Genova, ha studiato lingue straniere e si è laureata in Lettere Moderne. Del 2016 è il romanzo d’esordio, il noir Le ali dell’angelo (Robin Edizioni). Ha scritto racconti per varie antologie tra cui Genovesi per sempre (Edizioni della Sera, 2019), Tutti i sapori del noir (Fratelli Frilli Editori, 2019), I luoghi del noir (Fratelli Frilli Editori, 2020), Natale a Genova (Neos Edizioni, 2019 e 2020), La Liguria sorride (Lo Studiolo, 2020). Ha fatto parte del comitato artistico del Festival Incipit Genova 2019. È co-founder e redattrice insieme ad Arianna Destito del blog TheMeltinPop.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2021
ISBN9788869435164
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    Anteprima del libro

    Il respiro dell'alba - Antonella Grandicelli

    30 luglio

    Anche stasera non ho mangiato. Dal giardino arriva forte l’odore penetrante dell’erba tagliata, quasi mi stordisce. Vorrei che lo facesse, che mi liberasse di questa vita mutilata, vorrei che quegli aghi secchi d’erbe s’infilassero nelle mie vene, mi trasformassero in un uccello impagliato, un mansueto uccello dalle piume nere. Così lei mi vuole e così mi avrà infine.

    Devo solo aspettare una notte senza luna.

    PRIMO

    Alba

    I

    Galleggia, sussultando appena alla carezza lieve delle onde, allargato, molle.

    Una ninfea in uno stagno.

    Una rosa dai petali sfatti, adagiata sull’acqua, cullata in un ultimo viaggio da correnti lontane, sfiorata da gridi improvvisi di gabbiani, dal tocco impercettibile di piccole creature marine.

    Ma non è così.

    È un corpo. Il corpo di una donna.

    L’alba ce la restituisce come si fa con la realtà al termine del sogno.

    E mentre guardo l’impassibile oscillare di quel corpo, mentre intercetto il ritmo calmo e osceno dei suoi lievi sussulti, mi scopro a pensare a quanto le giornate scorrano sempre lente per me, mi scopro a pensare che la luce non arriva mai a toccare il fondo della mia anima. Forse perché nel mio mestiere è spesso risucchiata via, tolta e mai resa. E mi rendo conto che io, con una caparbietà ai limiti dell’indecenza, continuo a volercela portare.

    Mi alzo, quando ancora la realtà non ha contorni, muovo i miei gesti rituali – la doccia, il caffè, lo sguardo oltre la finestra a indovinare che tempo farà – e poi mi metto in cammino.

    Di nuovo, verso quella luce che so già non troverà il fondo della mia anima.

    II

    Ero uscito di casa presto, come sempre, la notte ancora viva sopra le spalle delle case, il cono di luce del portone a violarne l’integrità. Un bambino era seduto sul gradino della mattonata a pochi metri da casa mia, lo sguardo fisso sulla strada vuota. Era piccolo, forse sei, sette anni. Era presto per la scuola, presto per lasciare il sonno. Mi domandavo cosa facesse lì, da solo. Volevo chiederglielo, ma i bambini mi mettono a disagio. C’era un tale granitico, imperscrutabile silenzio dentro quei piccoli occhi che incrinarlo mi sembrava sacrilego. Sicuramente stava aspettando la mamma. Gli ero sfilato davanti e mi ero diretto verso la mia giornata. Chissà perché tracce di quel disagio mi erano rimaste addosso, echi di quel silenzio nelle orecchie.

    Commissario Vassallo, abbiamo appena ricevuto una segnalazione, due pescatori hanno avvistato un corpo che galleggia tra gli scogli di Vernazzola.

    Arrivato in ufficio da poco, il cielo si stava appena colorando d’alba, la stanza era ancora immersa nel buio, a parte il chiarore diffuso dalla lampada che illuminava la pila di rapporti che avevo davanti. Decine di fogli da leggere e da firmare, una tazza di caffè da cominciare.

    E un corpo che galleggiava tra gli scogli di Vernazzola.

    Avevo guardato fuori dalla finestra, il giorno stentava ad agguantare la luce, una solida coperta di nubi lo ricopriva di grigio fino all’orizzonte; il coperchio di una tomba. Vedevo l’alternarsi dei tetti emergere a poco a poco, lucenti di umidità e consunzione, iridescenti come scaglie di pesci morti che galleggiano in tristi stagni. La giornata non avrebbe offerto altro.

    In ottobre il cielo di Genova può essere un lago di montagna, azzurro fino all’ insopportabile, o una palude putrida e maleodorante, con il vento debole e tiepido che ne solleva i lembi marci, scoprendone le ferite, e ne appesta le strette vene dei vicoli, trascinando con sé gli odori forti del piscio, della rumenta rancida, della noncuranza putrefatta. Vassallo stai diventando acido come il latte andato a male, avevo pensato.

    Mi ero massaggiato gli occhi e le tempie con gli indici, nella speranza di uccidere sul nascere quel dolore soffuso che si stava insinuando nella mia testa. Quella nausea sottile che avrei potuto scambiare per amarezza, se non avessi saputo che altro non era se non l’inizio di un altro giorno che si sarebbe aspettato da me risposte che io non avevo, certezze che non possedevo, precisi confini che avrei dovuto tracciare tra un male e un bene così simili tra loro, così vigliaccamente avvinti e travestiti da tirare su una commedia dal finale sempre e comunque inadeguato. Avevo riaperto gli occhi, nulla era cambiato.

    Nemmeno il mio amore per questa città che non fa nulla per farsi amare.

    Nemmeno il fatto che il giorno ci regalava una morte e con quella avremmo dovuto trattare.

    Nella notte aveva piovuto, le strade bagnate erano ancora vuote. A sirene spente percorremmo corso Italia, a quell’ora praticamente deserto, solo un paio di persone a fare jogging. Sull’asfalto bagnato luccichii strappati dalla luce dei lampioni, quasi fuochi fatui ingannevoli, beffardi, apparenze da luna park che l’avanzare del giorno avrebbe spento. Il mare alla nostra destra si muoveva in onde basse e ritmiche, avvelenato dallo stesso inconsistente e tetro colore del cielo.

    Passammo Boccadasse, dirigendoci verso piazza Sturla, qui piegammo a destra. Secondo quanto segnalato, il cadavere era stato scoperto da due pescatori che tornavano a riva con il loro gozzo. Attraverso vie strette e tortuose arrivammo al mare.

    In quel punto il profilo frastagliato della costa delinea un piccolo semicerchio, una baia su cui si affaccia una spiaggetta pietrosa. Tutt’intorno vecchie abitazioni rimesse a nuovo, che solo professionisti benestanti possono permettersi. Una zona residenziale, a pochi passi dal mare.

    Sulla spiaggia barche capovolte e tirate in secca, qualche vecchio secchio, funi corrose dal sale, per il resto silenzio.

    Due figure stavano lavorando a gesti lenti intorno ad una piccola imbarcazione. Al nostro arrivo interruppero la loro attività e rimasero rigidi, un po’ a disagio, in attesa di essere raggiunti. Alzando lo sguardo, vidi che la motovedetta della Capitaneria stava già avvicinando la piccola baia dal lato a ponente.

    Buongiorno, sono il commissario Vassallo.

    Mi strinsero la mano. Erano due pensionati, appassionati di pesca, che spesso uscivano nelle prime ore della notte con un vecchio gozzo rimesso a nuovo per trascorrere qualche ora tranquilla. Stavamo rientrando, teniamo la barca qui a Vernazzola. Era ancora abbastanza buio ma a un certo punto ci siamo accorti che c’era qualcosa che galleggiava portato dalla corrente, sbatteva sugli scogli e si allontanava. Era qualcosa di grosso, ingombrante, non so come spiegarmi... Anche se sembrava ancora un uomo forte e abituato alle notti insonni, mi parve stanco e sudato, come per uno sforzo eccessivo. Lo incoraggiai a continuare.

    Ci siamo avvicinati e abbiamo subito capito che si trattava di un cadavere, un annegato insomma.

    Il braccio in direzione dell’acqua, mi indicò il punto preciso. Non molto lontano scorsi ciò che mi mostrava: da lì non appariva che una grossa massa scura che sbatacchiava appena, mossa da piccole e corte onde. L’uomo estrasse un fazzoletto e si asciugò il sudore che gli bagnava la fronte, visibilmente scosso. Era ancora buio, non si vedeva bene, sembrava avesse un mantello con il cappuccio o qualcosa del genere.

    Che cosa avete fatto in seguito?

    I due si guardarono come per decidere chi dovesse continuare il racconto, l’altro gli fece segno di procedere. A quel punto abbiamo pensato fosse meglio dare l’allarme, senza toccare niente.

    Bene, e poi? Mi guardò stupito, come se non capisse il senso della mia domanda.

    Abbiamo tirato la barca a riva e abbiamo aspettato.

    Feci loro un cenno di assenso per tranquillizzarli. Bravi, avete fatto tutto correttamente. Non avete toccato proprio nulla?

    Dal loro sguardo d’orrore, capii subito che, non appena inteso di cosa si trattasse, si erano allontanati rapidamente senza cercare ulteriori conferme, né la curiosità li aveva spinti a verificare più di quello che appariva a un primo sguardo.

    Il giorno, pur avaro di luce, pareva aver ormai preso possesso di ogni ombra, l’orizzonte lontano immerso in veli di brume. Vi chiedo la pazienza di attendermi qualche minuto, ho ancora qualche domanda da porvi. Li delusi, speravano forse di aver compiuto del tutto il loro dovere e di potersene andare, tornando a casa a raccontare la loro avventura. Vi prometto che sarà una cosa breve.

    Li lasciai sulla spiaggia e mi mossi verso gli scogli seguito da Greco e Pugliese. In realtà si trattava di pietre di riporto, sistemate in modo da proteggere Vernazzola dalla furia dei marosi durante le mareggiate frequenti. Le scalammo senza difficoltà, portandoci verso l’esterno della baia. Poco lontano scorgemmo quell’ammasso rigonfio che oscillava al ritmo blando delle onde.

    Greco e Pugliese mi guardarono e nessuno di noi ebbe dubbi.

    Si stava avvicinando alle rocce e il rischio che le colpisse e vi sfregasse ancora contro era alto. La motovedetta si era fermata poco più al largo e si vedevano già i sommozzatori dei Vigili del Fuoco pronti per il recupero. Non potevamo fare nulla, quindi tornammo indietro sulla spiaggia. Nel frattempo erano giunti anche gli uomini della Scientifica, che stavano preparandosi per fare i loro rilevamenti una volta che il cadavere fosse giunto sulla riva. Con loro anche il medico legale, che conoscevo e che salutai con un cenno. Verna mi aspettava sulla riva e questo mi procurò un senso di sollievo che non seppi giustificarmi, ma che mi gustai come il bicchiere d’acqua quando si ha sete.

    I due pensionati stavano in attesa; appoggiati alla barca, osservavano le operazioni di recupero. Mi avvicinai nuovamente. Chiesi loro se avessero notato nulla di strano lì intorno, sulla spiaggia o sugli scogli. Si guardarono come per consultarsi, poi scrollarono la testa. Era ancora buio quando siamo arrivati, ma potrei giurare che non ci fosse nessuno.

    Com’era il mare stanotte?

    Ieri sera c’era sciroccata, abbastanza debole. Al largo forse qualche onda più grossa, ma sotto costa non troppo mosso. Ora c’è solo un po’ di increspatura e niente vento.

    Secondo voi da dove può provenire il corpo?

    Con il vento di stanotte e le correnti, direi sicuramente da est.

    E quanta strada può aver fatto, così a occhio e croce, secondo la vostra esperienza?

    Si guardarono nuovamente. Questa volta intervenne l’altro, che fino a quel momento era stato in silenzio, lasciando all’amico l’onere del racconto.

    Vuole sapere dove può essere caduto in mare? Scrollò nuovamente la testa. Ah, difficile dirlo, potrebbe anche arrivare da lontano. Ma se è in mare da poco, sicuramente non ha fatto tanta strada, le correnti non erano forti stanotte, il vento abbastanza debole, con qualche rinforzo forse nelle primissime ore della notte. Noi siamo usciti intorno alle due, già piovigginava, lo scirocco spingeva verso terra, poi si è indebolito, alle cinque circa non pioveva più.

    I sommozzatori erano intanto giunti sulla spiaggia trasportando con delicatezza il corpo. Lo posarono supino sulle pietre.

    D’istinto ci avvicinammo tutti.

    13 agosto

    Oggi pomeriggio ha piovuto. Odio questa pioggia d’estate, così impetuosa e potente e breve. Dal giardino vengono su odori forti di terra, pastosi, pungenti, mi sembra di sentire le ortensie che si aprono, grondanti d’acqua, turgide, tutta questa vita che irrompe, così piena e prepotente mi uccide, non la posso sopportare. Perché vorrei essere così, vivermi fino allo spasimo, sentirmi parte di questo tutto. Ma lei a cena non ha alzato lo sguardo una sola volta su di me, non una.

    SECONDO

    Alba

    I

    Nulla è più luminoso delle stelle. Lo diceva Lucia mentre stavamo sdraiati sull’erba, con la faccia rivolta al cielo e il futuro rivolto verso di noi.

    Io ribattevo: Le parole lo sono.

    Lucia rideva e mandava in frantumi il silenzio.

    Gippi sospirava e chiudeva gli occhi: Eppure entrambe sono già morte nell’istante stesso in cui arrivano a noi.

    Bussavano piano. Tre colpi di nocche leggeri, silenzio d’attesa, ancora tre colpi.

    No, non volevo svegliarmi, non del tutto almeno.

    Non volevo ricucire i miei sensi a quella realtà che fuori dalla porta mi cercava.

    Avevo dormito male quell’ultima notte. Molti sogni avevano invaso il mio sonno, confusi, sbiaditi, inquieti. Sentivo voci lontane, risa, rivedevo erbe spinose, ginocchia graffiate, lunghe giornate di sole racchiuse nel vano stretto di una porta che mi chiudeva fuori, levandomi l’aria e la luce, lasciandomi in un buio umido e freddo. La testa mi doleva, mi pulsava forte, non tutte le voci si erano dileguate con il sonno. Alcune persistevano, si sovrapponevano, senza più volto ormai, solo un sibilo ottuso, un mugugno di tuono lontano, privo di colore.

    Poi la sera prima riemerse.

    Sentii la foto, ancora stretta nelle mie mani.

    Ricordai.

    II

    Ore passate, sputate via come noccioli senza sapore. Questo era stato il pomeriggio del giorno prima, così come tutti i pomeriggi.

    La bottiglia ai piedi del letto a sfidarmi, dilatando sempre di più il suo collo fino a farne una porta, un enorme varco invitante, per offrirmi il solito balsamo, la solita dolce lussuria, una strada breve.

    Ne avevo accarezzato il collo liscio, con la voglia intensa che mi premeva sulle mani.

    Anche oggi la battaglia è persa Martines.

    Arrenditi Martines.

    Il sapore del vino mi arrivava in gola prima ancora che la bottiglia alla bocca. Deglutivo quel nulla infuocato. Arrenditi, arrenditi.

    Con un gesto secco avevo ucciso un’altra pagina bianca ed ero uscito.

    L’aria fuori era fresca, nonostante Genova regali a volte in ottobre brevi illusioni di calore. Alzando lo sguardo, il cielo appariva ancora velato di luce, ma i vicoli stretti erano già immersi nell’oscurità violacea del crepuscolo, le persiane chiuse, qualche lampadina accesa, poche ombre rapide che risalivano verso casa nel profilarsi di una sera senza attrattive.

    Come sempre, avevo incrociato passi frettolosi, sguardi stanchi, sigarette accese.

    Un ragazzo di colore con il suo fardello di oggetti falsi chiuso ai quattro lati.

    Una vecchia che trascinava un carrello per la spesa cigolante.

    Un gruppo di ragazzini vocianti dai capelli imbizzarriti in rigide spine.

    Una suora dai passi silenziosi.

    Un paio di zingare con i piedi sporchi e le unghie laccate.

    Un vecchio pensionato con lo sguardo appannato dalla cataratta e dalla solitudine.

    Passanti senza nome, che scivolavano via in quell’ombra liquida che li inghiottiva eliminandone le tracce. Io osservavo, senza alzare gli occhi.

    Non mi era più possibile camminare senza l’impercettibile sensazione di essere scrutato, senza pensare che dal fondo oscuro di un vicolo una mano avrebbe potuto ghermirmi, impastarmi con la notte e non restituirmi più. Vassallo me lo aveva detto bello chiaro, quella è gente che raramente lascia le cose a metà. I lividi scuri di quei giorni in cui la mia vita era diventata banchetto per avvoltoi segnavano ancora i miei radi sonni. La mia pelle reagiva ogni volta che captava un suono nella lingua dei fratelli di Sciarif l’albanese. Ma da qualche tempo non deviavo più il mio sguardo, non frantumavo il mio respiro, non frenavo i miei passi. A poco a poco mi stavo abituando, stavo ricominciando a sentirmi invisibile in un mondo di vite invisibili. Ma la paura è un’ulcera aperta che suppura e rende marcia anche l’aria che ti circonda.

    Ero sceso verso il mare, alzando il bavero della giacca perché l’umido del selciato mi risaliva su dalla schiena fino al collo lasciandomi brividi leggeri. Il primo momento di quella giornata in cui avevo sentito il mio corpo come una cosa viva. E in fondo ne avevo goduto, con sfida.

    A Caricamento, le luci dei lampioni si stavano accendendo, ma c’era ancora un’eco di crepuscolo che ritagliava sagome tra me e il porto. La sopraelevata sovrastava la piazza, un lungo e disordinato corteo di automobili la percorreva, segnando con le intermittenze dei fari il traffico del rientro serale.

    Mi ero seduto su una delle panchine circolari del Porto Antico, guardando l’orizzonte cupo di nuvole.

    Avevo ascoltato lo sciabordio impercettibile del mare, la schiena appoggiata alla panchina, osservando un gruppo di gabbiani scheggiare l’acqua in voli radenti, in rapidissime picchiate e altrettanto rapide risalite, un singhiozzo trepido, psicotico, angosciato. Pezzi fradici di focaccia galleggiavano oleosi sotto di loro, li facevano stremare di desiderio, gridare di frenesia, ma nessuno di loro giungeva mai a toccarli, a saziarsi, a portare a compimento il gesto.

    Avrei voluto che il buio sopravanzasse così denso da inghiottirci tutti. Un inchiostro scuro, una marea nera, per lasciare un po’ di tregua a questo mondo. Per regalarci qualche ora di oblio cosmico. Per non essere più niente almeno per qualche istante. Per dar riposo a quest’eternità che ci trascina, a questa maledetta fame di vivere che non ci dà pace.

    Poi i gabbiani avevano interrotto la loro dannazione.

    "Bonsoir mes amis. Nu ghè de lûnn-a. A l’è na brutta seiann-a."¹

    Il cappello era quello di Cristoforo Colombo; il vecchio impermeabile lo faceva sembrare un uccello strambo e magro, un albatro fuori rotta; ai piedi scarpe sportive sudice e consumate. Avanzava dando da mangiare briciole ai piccioni, che gli ronzavano intorno sporchi come mosche.

    Non avevo risposto al suo saluto, era Babele e non si aspettava risposta. Per lo più ti rivolgeva la parola nella speranza che gli dessi qualcosa. Era sempre sobrio, ma sempre più chiuso nel suo mondo impastato di sogni imperscrutabili e imperscrutabili parole.

    Cosa te ne fai della luna Babele? A che ti serve?

    Aveva scoperto quello che restava dei suoi denti marci nel sorriso più bello.

    "Pur fer l’amur."

    Rideva con una gioia inspiegabile e per questo meravigliosa.

    E incredibilmente avevo riso anch’io.

    Non so perché, non so se per l’ingenuità, la sfrontatezza, l’assurda presenza della parola amore nel dialogo tra un poeta morto e un uomo vivo ai lati della vita. Avevo riso e mi aveva persino fatto male la faccia, mi aveva fatto salire le lacrime agli occhi, questo dolore dell’essere leggeri e nudi per un attimo.

    Babele mi aveva guardato come se capisse, osservandomi anzi, con uno sguardo privo di foschia, nitido, pulito. La luce sbieca e aranciata di un lampione mi mostrava solchi sulla sua faccia, li ingigantiva, alti come onde, profondi come abissi. Era vecchio, impossibile dire quanti anni, forse mille. La pelle era come un cuoio stinto, peli ispidi di barba bianca a macchiarla.

    Avevamo diviso così, uno a fianco all’altro, la sera, in fondo di quella ce n’è sempre per tutti in abbondanza. Avevamo lasciato che ci ammorbidisse l’anima con la sua umidità, che ci ricoprisse. Mi sentivo a mio agio con lui, non gli dovevo niente, lui non doveva niente a me. Guardavamo in silenzio nella stessa direzione, la notte ormai scesa, il cielo indistinguibile, l’acqua striata di brevi luci cangianti.

    Poi si era voltato e aveva fatto per andarsene.

    "T’amian."²

    Subito non avevo capito. Lui non si era voltato, né aveva alterato la voce.

    "T’amian. Lo aveva ripetuto ancora. Lo avevo osservato cercando di comprendere dove la sua mente lo stesse portando, nel tentativo di seguirlo, magari per un po’, tanto per fargli compagnia. Chi è che ci guarda?"

    Aveva spostato lo sguardo su di me.

    "Amian ti. No mi."³

    Un irragionevole, improvviso gelo.

    Se la mia testa aveva imparato a gestire la paura, il mio istinto sicuramente no. Sapevo che per i miei nemici il nostro conto si sarebbe chiuso solo con la mia morte. E li capivo benissimo. Non potevo sapere quale angolo buio contenesse il mio destino, in quale piega oscura si nascondesse. Non potevo sapere che faccia avrebbe avuto, tra le mille che si incontrano tutti i giorni.

    Mi ero voltato di scatto.

    Dietro a noi gli innumerevoli anfratti bui sotto i piloni della sopraelevata, rifugio di figure invisibili, fatte d’ombra, a tratti il luccichio di denti bianchi, braci intermittenti di sigaretta.

    Al di là, piazza Caricamento, la facciata di Palazzo San Giorgio, gente alle fermate dell’autobus, pendolari di ritorno dal lavoro, i bar di Sottoripa con gli avventori alla ricerca di un bicchiere prima di tornare a casa. Nulla sembrava diverso dal solito, nulla sembrava sospetto.

    Hai visto qualcuno Babele?

    Mi ero guardato in giro, l’inquietudine, velenosa, che si insinuava come una serpe tra me e la mia pelle. Il vento da sud mi leccava la faccia, facendomi rabbrividire appena. Hai visto qualcuno Babele?

    Lui mi aveva sorriso, si era alzato e si era allontanato, senza spiegazioni, senza salutare, con il suo cappello da grande navigatore, le tasche svuotate di briciole, la sera dentro agli occhi.

    Mi ero alzato, camminando veloce, una sottile paura a sospingermi ed ero andato a cercarmi un bicchiere, dando la colpa a lei, la paura, ancora una volta.

    Più tardi, la saracinesca del bar si era chiusa sulla mia faccia. Ero sceso per i caruggi senza fretta. Le persiane già chiuse lasciavano trasparire poca luce, nessun rumore le varcava. Scalpiccii di passi accompagnavano il silenzio, poi sparivano. Mi ero voltato più volte, aspettandomi di vedere qualcuno dietro di me, ma non c’era nessuno. Forse qualche ratto che raspava negli angoli.

    L’aria più fresca aveva alleggerito la mia sbronza e, quasi a tradimento, aveva condotto il mio pensiero in luoghi che non avrei voluto ricordare: quel porto generoso che erano state le tette di Maria, la sua risata grassa, il movimento accogliente della sua vestaglia a fiori.

    Cazzo, Martines, questo è peggio che leccare l’ultima goccia dal collo della bottiglia.

    La solitudine mi avvolgeva con il suo fiato umido, una solitudine cruda che mi graffiava la pelle. Dopo la storia di Maria e la morte di Sonia non avevo cercato più braccia. Ero il greto di un rivo secco su cui il vento passa e fa rotolare la polvere. Non lo volevo l’amore e forse in quel momento non mi interessava nemmeno una scopata. Tawfiq me lo rinfacciava e aveva ragione, ma sapevo d’averla anch’io.

    Avevo voglia di rientrare a casa, chiudere gli occhi e morire al giorno.

    Mentre mi avvicinavo, continuavo a sentire strani rumori, voci, sussurri, ma la sera era vuota ed era negli angoli della mia testa che si nascondevano ombre. Svoltando da un angolo, da lontano, avevo visto in fondo al caruggio una figura che usciva rapida dal mio portone.

    Era rimasta qualche istante ferma, come paralizzata nell’oscurità, come un gatto guardingo. Sembrava mi guardasse, mi aspettasse. In un attimo la paura aveva di nuovo sfregiato il mio sguardo, allagato le mie pupille. Alcuni metri ci dividevano e l’alcol mi rendeva la vista opaca. Mi era sembrato che avesse un lungo cappotto, forse un mantello.

    Non volevo essere un uomo coraggioso, non era mai stato nelle mie ambizioni. Ero dunque arretrato appena, pronto a deviare se necessario, a tornare indietro. La figura si era mossa, però, dileguandosi nel buio come un pipistrello.

    Mi ero allora precipitato verso il portone, nella luce fioca dell’unica lampadina che illuminava a stento i primi gradini della scala deserta. Volevo entrare in casa, volevo chiudere la porta, sgretolare quella paura, farne polvere. Le gambe mi tremavano nell’imboccare la scala, facendomi impuntare sul primo gradino. Per non cadere, avevo compiuto una torsione su me stesso che mi aveva costretto a con il culo sul freddo del marmo consunto.

    In quel momento l’occhio l’aveva colta.

    Una macchia, un flash improvviso.

    Una busta bianca, infilata di traverso nella mia cassetta.

    Ero rimasto qualche istante immobile ad osservare quel pezzo di carta che pendeva dalla fessura della vecchia cassetta di legno.

    Mi ero alzato, l’avevo raggiunta. Una normale busta da lettere, sopra non c’era scritto nulla, né mittente né indirizzo. Nello stesso istante un movimento, un guizzo fuori nel buio. Mi ero voltato di scatto e avevo creduto di distinguere qualcuno che mi osservava.

    Adesso basta giocare al gatto e al topo.

    Nonostante la tensione, la frustrazione mi aveva fatto uscire dal portone, osservando rapidamente i due lati della via. Non c’era nessuno. All’improvviso, mi era sembrato di notare un movimento in fondo al vicolo. Avevo allungato il passo fino a renderlo una corsa, svoltato ancora e ancora, ma nessuno mi precedeva. Il silenzio era totale, quasi irreale, quasi troppo da sopportare. Lo scatto mi aveva lasciato ansimante, piegato in avanti, con le mani sulle ginocchia e il fiato corto.

    Ero tornato indietro verso casa. Lo sforzo mi annebbiava la vista. O forse era la paura. Forse mi ero lasciato suggestionare, nella penombra della notte tutto sembrava immobile e pronto a prendere vita, non ero nemmeno più tanto sicuro di aver realmente visto qualcuno uscire dal portone. Forse era un gatto o forse la mia mente mi aveva giocato un brutto scherzo sfruttando l’esile inquietudine che l’affermazione di Babele mi aveva iniettato dentro. Ma in mano avevo ancora la busta bianca.

    Ero entrato in casa, avevo acceso la luce e avevo aperto la busta.

    All’interno solo una foto.

    Una foto e un passato che da molto tempo non era più mio.

    TERZO

    Mattina

    Una donna, abbastanza giovane, la testa semicoperta da un velo, addosso un vestito lungo e pesante, spesse calze nere, ai piedi scarpe coi lacci, basse e grigie, anonime.

    Una

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