Il Faro. Cielo, Mare, Terra
Di Marta Sannia
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Anteprima del libro
Il Faro. Cielo, Mare, Terra - Marta Sannia
MARTA SANNIA
IL FARO
Cielo Mare Terra
I fatti e i personaggi descritti in questo libro esistono solo nella fantasia dell’autrice. Ogni riferimento a persone e fatti reali è puramente casuale.
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2016
ISBN: 978-88-6822-493-6
Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet:www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Un uomo e il suo lato oscuro
,
così come lui stesso chiama una parte di sé
che vive al di fuori della realtà quotidiana.
Una ricerca continua, inconsapevole
di una luce che lo illumini.
Introduzione
Un giorno, uno scoglio ha accolto un uomo che ha navigato in molti mari.
I segni di burrasche, bonacce e tempeste nelle sue mani, nella sua voce, nel disincanto pieno di speranza, mentre i suoi occhi, guardando l’orizzonte, sono dentro gli occhi della donna che ha accanto.
Una donna che ha vissuto un unico sogno, con le mani piene di doni respinti, ora guarda assieme a lui verso l’orizzonte, dove da cielo e mare nascono nuvole per sognare.
Insieme fanno vivere i loro sogni in una realtà inattesa, dolce e piena di vita e di amore.
Libertà è scritto sul vessillo del loro veliero.
E liberi, ogni alba, scelgono come fare incontrare le loro speranze, le loro emozioni, le loro gioie, le loro voglie ed i loro desideri.
Fiamma
IL FARO
LUI
Si guardava le mani; come per non alzare la testa verso l’orizzonte, ora che era finalmente solo. Osservava le grosse pietre degli scogli; anche se poco frequentato, sul molo qualcuno poteva passare e non voleva mostrarsi così. Non era vero, degli estranei non gliene era mai fregato niente, non voleva mostrarsi così a se stesso.
Si era trasferito suo malgrado in quella città ostile. Ancora doveva vedere se la trovava così per una sua caratteristica o per lo stato d’animo che lo aveva portato a viverci. Prima di partire era stato sulla sua spiaggia, dove per tanto tempo aveva passeggiato credendo di avere compreso veramente cosa voleva.
Sul fondo dell’insenatura un gruppo di pietre che stavano insieme, come per caso; le loro forme facevano temere che crollassero da un momento all’altro, e subito era salito rapido fino alla più alta, da dove poteva scrutare meglio il punto indefinibile e lontano dove il mare diventa cielo.
Il mare. Alla fine non aveva pensato più a niente, non aveva più opposto resistenza, al telefono. Leggeva le mail senza rispondere, usciva e i passi lo portavano lì, a pensare, pensare con lo sguardo avanti per dover cercare dentro di sé qualcosa da dire che non fosse quello che si aspettavano da lui per continuare, come se niente fosse.
Fino a quella volta che aveva chiesto come era il mare di quella parte della costa, figurandosi il sorriso di soddisfazione dall’altra parte.
Senza attendere risposta, generoso, aveva solo detto: parto.
E poi si erano lasciati vivere per un po’ di tempo; e lui lo aveva trascorso esplorando quella strana città di mare che avrebbe dovuto sostituire la sua, non sapeva per quanto.
Scendeva di casa e si lasciava portare, vivendo quel momento di vuoto come la leggerezza che invece avrebbe preferito; vagabondava attraverso strade sconosciute, incrociava passanti dai visi chiusi in un riserbo feroce che in alcuni era diffidenza e in altri addirittura ostilità.
E delle donne lo aveva colpito lo sguardo rasente il terreno, come se solo guardare un uomo potesse essere un invito o una promessa; una cortina impenetrabile che lo aveva spinto verso il mare.
Non provava risentimento per una simile accoglienza, anzi, lui stesso si chiedeva se non si trattasse poi di un riflesso del suo umore, al quale dovesse invece essere grato.
Quella gente taciturna che lo scrutava imperturbabile, schietta nel non mostrarsi subito disponibile aveva avvertito il suo stato d’animo, un’atavica abitudine a comprendere affidandosi all’istinto.
Si era trovato sospinto verso quel punto di un molo; un gruppo di rocce, qualche pescatore aveva appena alzato il mento verso di lui come riconoscendolo.
Immediatamente tornati quasi immobili, quei pochi uomini lo avevano fatto sentire meno intruso.
LEI
Dopo la fila dei capannoni industriali la strada si mozzava di colpo di fronte alla serie di antiche case; una via senza nome, tratto di pennarello nero per non confondere vecchio e nuovo.
A quel punto il fiato è rotto, corro più forte prima di arrivare a fronteggiare la salita a gomito tra le alte pareti della vecchia via, le pietre una sull’altra, arcaico disegno di remote mani, si troncano scendendo in mucchi scomposti a segnare confini ormai inutili.
Da qui, penso meno intensamente, concentrata sulla fatica delle gambe, sul respiro da tenere sotto controllo, la schiena diritta, spalle aperte, i muscoli della pancia in tensione imprimono forza alle gambe ed ai piedi che si battono contro la ripida curva della strada.
Ecco! Il primo spiazzo, intravedo il mare attraverso i rami d’ulivo, il respiro torna regolare, vorrei fermarmi ascoltare il silenzio ma non c’è tempo, mi perderei e non voglio.
Capita che mi fermo sul prato, con le mani sui fianchi e il respiro che non vuole tornare normale; mi faccio strada tra l’irregolarità dei tronchi, la schiena leggermente curva, alzo gli occhi e vedo il mare ne riesco a distinguere la superficie mossa o placida, mi alzo di nuovo diritta e fermo lo sguardo sull’orizzonte.
Ci siamo io, il mare e il cielo; i pensieri si sciolgono e nella loro assenza ritrovo altri pensieri attraverso una canzone che viene in mente improvvisa, un vestito che avevo tagliato e cucito in un solo giorno per mettermi quella sera che… non era poi successo niente, ma veramente niente di diverso di nuovo e io invece ci speravo tanto! E l’avevo messo sempre quel vestito, quell’estate, dandogli possibilità.
La sera che pioveva a dirotto ed ero tornata a casa da sola, con la bambina per mano, la pioggia che colava dai capelli, non parlavamo neanche, la sua manina stretta alla mia.
E avevamo fatto il bagno caldo ma senza ridere, guardandoci serie senza più piangere; si era addormentata dentro il mio accappatoio bianco ed io stretta a lei.
Che ora stava in un punto oltre l’orizzonte, dal quale provenivano la felicità, la speranza che le avevo dato.
Chiudo gli occhi e prendo respiro, allargando le braccia, gettando indietro la testa. Torno a correre.
GABRIELE: tock… tock… c’è permesso… bentrovata su F.B.
FIAMMA: Benvenuto nelle mia home, Gabriele!!!!
LUI
NOVEMBRE
Insonne dalla notte precedente.
Si alzava, i vetri gli mostravano la piazza deserta, la fontana rotonda col monumento equestre. Così si sentiva ancora peggio gli sembrava di essere solo in un teatro, unico spettatore di una commedia alla quale nessuno, nessuno aveva voluto assistere, un passaparola dal quale era rimasto tagliato fuori. Ostinato era rimasto a guardare la scena vuota.
Non riusciva a staccarsi dalle immagini che aveva in mente, personaggi che agivano muti ripetendo gli stessi gesti, rassicurante normalità che lo turbava.
Ma di quale pace, quale serenità parlavano? Che avessero il coraggio di darle il nome giusto: abitudine. E quanto era bella, e quanto rassicurante, ma chi credevano di prendere in giro? Non certo lui. Si ripetevano all’infinito questo concetto, come dei ciucci facendo sì con la testa. E lui si voltava, scappava proprio! Mille volte solo, non mi avrete mai.
Ormai, innamorati di questa parola la ficcavano in ogni discorso; e sì che lui cercava di intervenire per dissentire, ma lo guardavano furbetti, secondo loro, da scemi con quegli occhi sbarrati, invece, ma non si vedevano?
Atteggiamenti; niente di vero, spontaneo.
Mosse copiate a caso o per assuefazione, e comunque lo fanno tutti, si giustificavano.
Stava fermo, ora con le mani in tasca, in mezzo al tappeto del soggiorno; appoggiata a lato della libreria, la chitarra.
Suonava grato alla sua passione più grande. Battisti, Paoli, fluivano nell’aria e intanto pensava che no, non era la sua unica passione: il cibo, prepararlo, ed era bravo, gli dicevano, e le donne.
Tutto andava bene per un periodo di tempo, una volta perfino cinque anni. Cosa succedeva poi? Tutto finiva. Per ricominciare con un’altra. Attrazione fisica, o quella volta che si era perso, ci era stato male ma non era andato oltre.
Concentrato sugli accordi la mente lo invitava a riflettere, per poi ritirarsi l’attimo prima di andare a fondo. Un sorriso al pensiero di… lasciamo perdere!
Affrontare discussioni sul lavoro, sviscerare argomenti riguardanti i suoi interessi facevano parte del suo lato razionale; quel lato che teneva distante quando cercava di capirsi in quello che chiamava il suo lato oscuro.
Martedì, le quattro e mezza. Andarsene da lì. La scusa quale poteva essere? La chitarra andava rimessa la suo posto, il tempo per riflettere.
Nella custodia il foglio con gli orari di quei corsi ai quali s’era iscritto, così, tanto per avere vie d’uscita; alle diciassette, nell’Oratorio a pochi minuti da casa sua, il corso di letteratura.
Il tempo di infilare il cappotto ed è fuori.
LEI
NOVEMBRE
Adesso che fa freddo non mi fermo tra gli ulivi. Corro tra gli alberi. La loro forma mi ricorda la strada degli hobbit nel Signore degli Anelli; i muri a secco degli uliveti, certe novelle di Pirandello; la strada ripida, stretta con le case bianche ai lati, silenziosa e drammatica ricorda le atmosfere di Lorca nella Casa di Bernarda Alba
: passo correndo e dietro al muro intravedo un patio, potrebbe essere quello dove Adele aspettava Pepe il Romano.
La professoressa Ciarlo aveva detto che leggere è salvezza. Nella vita potrete passare momenti neri, spero mai, ragazzi ma capitano a tutti: leggete. La mente si libera, e i pensieri diventano meno pesanti; se siete fortunati trovate qualcosa, in un libro, che vi presenta quello che starete vivendo in una luce nuova inaspettata e qualcosa dentro di voi cambierà. E andrete avanti, un po’ meglio.
Andare avanti.
Comincio con la ripida salita, arrivo ansante alla cima, non mi guardo indietro ma so di averla superata; e così via, corro e mi lascio indietro il fiato corto, la fatica nelle gambe, ma anche fiori, alberi di fichi e corbezzoli, cespugli di more.
Sono ora tornata sullo stradone che attraversa il quartiere di case popolari. I colori: blu manto della Madonna
. Rosso mattone anni settanta. Indefinibile, tristissimo, nocciola? A voler essere ottimisti. Ai giardini le ragazze coi cani. Sono in decompressione e mentre mi fermo a tendere i muscoli sul muretto, parlo insieme a loro. Abbiamo cominciato con Ciao!
Che non conoscendoci affatto, in questa città è come l’invito a casa alla cena di Natale. Apprezzamenti sui cani, banalità sul miglior amico dell’uomo e gli manca la parola, tanto per studiarci.
Non ricordo chi per prima ha parlato veramente la prima volta, ma poi non abbiamo mai smesso. Su tutto e di tutto mai degli altri, delle conoscenze comuni.
Ci lasciamo sempre così: Vieni a bere un caffè a casa mia la prossima volta, parliamo al caldo!
se fa freddo. Oppure Ma perché non venite da me che ho il gelato nel freezer?
senza mai farlo. Sempre in mezzo ai giardini, quasi avendo paura che violare quei confini per entrare più in intimità rovinasse quello scambio di parole libere.
Il rientro a casa. Un dado da brodo di cinquantotto metri quadrati. Ho buttato giù tutti i muri per avere luce appena spalanco la porta. I pochi mobili sono chiari, è sui muri che ho liberato la fantasia di colori.
Il primo mese senza lavoro. Penso troppo alla casa. Non mi piace. Mi spoglio veloce, sotto il getto dell’acqua calda penso.
Uscire ancora ma per andare dove?
Non ho nessuna voglia di leggere, di dipingere, e non voglio fare niente anche se volendo qualcosa troverei.
Voglio incontrare qualcuno che non conosco, vedere che succede; mi asciugo attaccata alla stufa e sulla libreria il foglio con gli orari dei corsi ai quali mi ero iscritta, senza poi frequentarli.
Mi sapevano di ultima spiaggia non potevo credere di essere… e chi se ne frega!
Fammi leggere: oggi è martedì, all’Oratorio dall’altra parte della città il corso di letteratura. Guardo la pendola sul muro: se mi sbrigo faccio in tempo ad arrivarci, comincia alle cinque.
LEI
1999/2000
I passi sulle scale sono i suoi. Sono pronta, in silenzio aspetto. Entra.
– Chiuso. Finito. Stop.
Seduto in cucina con la testa appoggiata al muro senza guardarmi. Non trovo nulla da dire.
Qualsiasi suono risulta stridente contro questo finale d’opera che irrompe in casa invadendone il poco spazio, toglie l’aria per respirare è meglio non parlare per conservare l’ossigeno.
Non provo neanche a toccarlo, adesso noi due non contiamo, e certo non c’è bisogno della simultanea aggressività con la quale sempre risponde alle mie domande in tempi normali.
Continuo a fare quello che sto facendo. Tutto il suo essere dice non voglio che ci provi, e so quanto ho provato ad entrare sbagliando sempre porta, momento, gesti, tempi. Che stronza vero? Adesso ha bisogno di me ed io penso a come lui è con me. Colpa mia, sua?
Quanto vorrei che sentisse il mio modo di amarlo, invece di averne paura, di vergognarsene quasi; non arginare l’onda d’amore come se volessi spegnerla, falla vivere con me.
Ti prego non rimanere spettatore proprio adesso! Ancora una volta voglio provare, ancora una volta spero penso che qualcosa al di fuori di noi possa unirci e mi avvicino.
Possiamo perdere tutto ma ti prego non noi, prova con me proviamo insieme!
– Ascolta – lui mi fissa e vorrei andarmene. – Lo sai che sono vicina a te qualsiasi cosa succeda; se vuoi possiamo viverlo insieme come un nuovo inizio. Più di tutto siamo noi due; su di me puoi contare… – non riesco a finire.
– Sai tutto, sai già cosa fare, ma brava! Sei la più brava di tutte! Non so se stai capendo quello che dico, non ho più un lavoro e tu parli di noi due, di ricominciare, che cosa poi? Il tuo lavoro non basterà, ed io non so cosa fare e guarda tu di cosa parli…
– D’amore.
PRIMA
L’Emilia d’estate è un forno acceso, con l’aria calda che gira immobile e plotoni di zanzare: sconfitto uno ne arriva subito un altro.
Se non sei lì per lavorare ma a trovare parenti, nel primo pomeriggio dormi.
Uscire? Per camminare rasente ai muri inseguendo la striscia d’ombra, per arrivare comunque fradicio di sudore ovunque sei diretto.
Meglio a letto. Alle due del pomeriggio. La bambina si è appena addormentata e lui dorme accanto a me, ma distante.
Non ho sonno; lo sto guardando voltata su un fianco con la testa appoggiata alla mano.
Il collo e la nuca sotto la massa dei capelli sono madidi, ma è una sensazione che accantono per seguire quella più urgente per me.
Allungo una mano a sfiorarlo, a lungo, la lascio andare libera e qualcosa comincia a succedere. Adesso è lui che mi guarda.
Prima di cena mia cugina passa ad invitarci ad una delle sagre in mezzo alla campagna, rane lumache, tutta roba schifosa, ma ho un vestito nuovo. Voglio metterlo per uscire.
– Chi viene? – chiede lui.
Adele fa due o tre nomi che non conosco; altri cugini lontani, e sono curiosa di incontrarli. Arriviamo che i tavoli sono già tutti occupati, il palco dove si balla è affollato e non c’è un posto a sedere manco a morire. Adele mi presenta i cugini.
Nel stringermi la mano uno di loro mi invita a ballare ma fiuto il pericolo e dico che no, fa troppo caldo.
– E perché non balleresti con mio cugino, sentiamo?
– No, non ne ho voglia – lo guardo negli occhi, invano come sempre. Il messaggio non passa e lui insiste.
NON VOGLIO BALLARE è scritto a lettere maiuscole nell’aria ma non è letto così.
– Lo sai che io non ballo, a te piace tanto vale che balli con mio cugino.
– Ci penso.
Se ne va, nel bar poco distante c’è un biliardo che lo sta aspettando; la bambina vuole il gelato e credo così di avere via d’uscita.
Ma il cugino non desiste, sembra che farmi ballare sia la sua missione. Non mi piace come mi guarda, non mi piace lui, non voglio che mi tocchi. Forse esagero. Lascio la piccola con Adele e ballo con lui.
Ecco, lo sapevo. Le mani non stanno ferme, mi stringe troppo. Rimango gelida e finita la musica torno a sedermi.
Arrivano tutti, il biliardo è occupato e bisogna aspettare. Cominciamo con l’ordinare da bere e ci sediamo attorno ad un tavolo finalmente libero.
E si va di cazzeggio, un po’ in italiano, un po’ in dialetto, qualcosa afferro qualcosa no, così finisce che rispondo stonata proprio al cugino ballerino.
Che avrebbe voluto ballare ancora. E non ha preso bene il mio rifiuto.
Dice qualcosa tra i denti in dialetto stretto, guardandomi ed io commetto l’errore di rispondergli. Lo schiaffo mi arriva forte a mano aperta sul viso. Tutti tacciono di colpo.
Non piango, non faccio niente per lo stupore; sento che lo schiaffo non è per la battuta ma per il rifiuto a ballare.
Mi giro verso Vincenzo aspettando convinta una sua reazione. Che non viene.
– Andiamo via.
Vincenzo mi afferra per un braccio e mi fa alzare; la bambina comincia a piangere, cerca la mia mano.
Le sue cugine lo guardano stupite, più di me, il cugino non voglio più guardarlo in faccia; si spostano le sedie, Vincenzo cammina veloce, vuole la mia mano ma non voglio dargliela, ho un groppo alla gola che non mi fa neanche piangere, c’è già la bambina che grida e Adele cerca di prenderla in braccio.
– Shh! Shh! Però, un bello slordone glielo potevi dare! Chi si crede di essere!? – Adele, a Vincenzo. Che si ferma sulla strada sterrata fra i canali di scolo dell’acqua, i grilli e le cicale fanno un casino assordante.
Adele ed io arretriamo di un passo.
Vincenzo indossa una maglietta bianca aderente come mi piaceva vestito così… parlo già al passato? Sì, perché so già cosa