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L'unicorno rosso
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E-book273 pagine3 ore

L'unicorno rosso

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Info su questo ebook

Raphael, uno scienziato nel settore della robotica, decide di lasciare il suo lavoro per inseguire un processo di crescita personale e spirituale in Messico. Questo primo libro narra l’inizio del viaggio che gli cambierà la vita, in seguito ad una cerimonia di ayahuasca, pianta allucinogena considerata sacra in molti Paesi del centro e del sud America.

In seguito a questa esperienza spirituale Raphael verrà convinto dagli shamani dei suoi naturali e finora inespressi poteri come guaritore di anime. Gli shamani stessi si prodigheranno per aiutarlo nel percorso di crescita ascoltandolo e dirigendolo nelle visioni fantastiche e psichedeliche delle cerimonie, in modo da rinforzare il potere dell’unicorno rosso, ovvero del guerriero che è in lui. Grazie all’amore incondizionato e agli insegnamenti che riceverà dai suoi maestri, troverà il suo posto nel mondo, che si materializzerà davanti a lui senza neppure cercarlo.

L’unicorno rosso è un libro in cui fantasia e realtà si mescolano, ma nel quale l’autore si pone domande importanti sul significato della vita trasponendole in una novella dove i personaggi strani non mancano e le sorprese neppure
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2020
ISBN9788831670166
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    Anteprima del libro

    L'unicorno rosso - Marzio Candus

    Sinossi

    Ra­phael, uno scien­zia­to nel set­to­re del­la ro­bo­ti­ca, de­ci­de di la­scia­re il suo la­vo­ro per in­se­gui­re un pro­ces­so di cre­sci­ta per­so­na­le e spi­ri­tua­le in Mes­si­co. Que­sto pri­mo li­bro nar­ra il viag­gio che gli cam­bie­rà ra­di­cal­men­te la vi­ta e lo fa­rà di­ven­ta­re de­fi­ni­ti­va­men­te un gua­ri­to­re di ani­me, un uo­mo vir­tuo­so che nel­le vi­sio­ni fan­ta­sti­che del­le ce­ri­mo­nie tra­di­zio­na­li cen­tro sud ame­ri­ca­ne tro­ve­rà il suo po­sto nel mon­do, che gli ver­rà ri­ve­la­to ma­no a ma­no in un viag­gio fan­ta­sti­co da co­lo­ro che lo for­me­ran­no al­le an­ti­che ar­ti scia­ma­ni­che, fi­no a far­lo di­ven­ta­re un uni­cor­no ros­so, ros­so co­me un guer­rie­ro in­ten­to a dif­fon­de­re va­lo­ri cor­ret­ti e pa­ci­fi­ci che si scon­tra­no con la dis­so­lu­tez­za e il me­ne­fre­ghi­smo del­la so­cie­tà at­tua­le.

    L’uni­cor­no ros­so è un li­bro in cui fan­ta­sia e real­tà si me­sco­la­no per­ché l’au­to­re è un so­gna­to­re e si po­ne do­man­de im­por­tan­ti sul si­gni­fi­ca­to del­la vi­ta tra­spo­nen­do­le in una no­vel­la do­ve i per­so­nag­gi stra­ni non man­ca­no e le sor­pre­se nep­pu­re.

    Ogni ri­fe­ri­men­to a per­so­ne o fat­ti ac­ca­du­ti real­men­te è pu­ra­men­te ca­sua­le

    Prefazione dell’autore

    Chi mi co­no­sce sa be­ne che è da al­me­no die­ci an­ni che di­co de­vo scri­ve­re un li­bro

    Ec­co, fi­nal­men­te l’ho fat­to ed an­che in po­chi gior­ni.

    C’è tan­to me stes­so in que­sta ope­ra co­me cre­do sia nor­ma­le per qua­lun­que ar­ti­sta. C’è tan­to che avrei vo­lu­to spie­ga­re a chi ha pas­sa­to del tem­po a sen­tir­mi rac­con­ta­re le mie av­ven­tu­re, a chi è di­ven­ta­to mio ami­co, a chi è sta­to un mio let­to­re da quan­do ero più gio­va­ne, sui miei va­ri blog che non so nean­che do­ve sia­no fi­ni­ti nel ma­ra­sma di in­ter­net.

    Per fa­ci­li­ta­re la let­tu­ra del li­bro, che è den­so di per­so­nag­gi, ho in­clu­so un’ap­pen­di­ce Per­so­nag­gi e ter­mi­ni al­la fi­ne del li­bro per far ca­pi­re fi­no in fon­do il sen­so del li­bro.

    Vi esor­to a non an­da­re a leg­ger­la per pri­ma per­ché non ca­pi­re­ste nien­te co­mun­que ma ad usar­la se vi per­de­ste nell’in­trec­cio del­la sto­ria

    Spe­ro che que­sto mio nar­ra­re sia lie­ve e pro­fon­do al­lo stes­so tem­po, che ab­bia un rit­mo ca­den­za­to, che rie­sca a toc­ca­re qual­che cor­da nel vo­stro cuo­re, che ri­suo­ni nel vo­stro co­me ri­suo­na nel mio.

    Buo­na let­tu­ra

    Mar­zio

    PS: il li­bro par­la in ma­nie­ra mol­to pa­le­se di so­stan­ze psi­co­tro­pe che esi­sto­no ve­ra­men­te e ven­go­no usa­te nei ri­tua­li in ogni par­te del mon­do an­che da per­so­ne in­ca­pa­ci e da buf­fo­ni. Sia ben chia­ro che con que­sto li­bro NON sto in­co­rag­gian­do nes­su­no a pro­var­le.

    Incipit

    Quel gior­no di di­cem­bre del 2012 ave­vo 32 an­ni ed un gran bel la­vo­ro in una mul­ti­na­zio­na­le tra le più gran­di del mon­do. Ma ero pro­fon­da­men­te in­fe­li­ce. Co­sì tri­ste da non riu­sci­re a guar­dar­mi al­lo spec­chio la mat­ti­na pri­ma di an­da­re al la­vo­ro sen­za far­mi schi­fo. Ri­brez­zo. Odio mi­sto al ran­co­re per la man­can­za di co­rag­gio che mi im­pe­di­va di an­dar­me­ne da lì, no­no­stan­te il buo­no usci­ta che avrei po­tu­to chie­de­re e le fi­nan­ze ca­sa­lin­ghe a po­sto e da ge­sti­re più at­ten­ta­men­te.

    Odia­vo ciò che fa­ce­vo e co­me lo fa­ce­vo in REC­MA, la più gran­de mul­ti­na­zio­na­le di ro­bo­ti­ca e ri­cer­ca del mon­do. Ero re­spon­sa­bi­le di una buo­na par­te dei pro­get­ti di ri­cer­ca e svi­lup­po e al con­tem­po mal sop­por­ta­vo il lais­se fai­re e il di­sin­te­res­se con cui le per­so­ne con le qua­li la­vo­ra­vo e che co­man­da­vo, non ca­pi­va­no che quel­lo che fa­ce­va­mo là den­tro non era so­lo il lo­ro do­ve­re, da bra­vi sol­da­ti­ni, ma an­che un at­to di di­stru­zio­ne nei con­fron­ti del pia­ne­ta Ter­ra.

    Men­tre ci fa­ce­va­mo pren­de­re in gi­ro dal­la po­li­cy azien­da­le che re­ci­ta­va la ri­cer­ca di og­gi for­me­rà lo splen­di­do fu­tu­ro di un mon­do mi­glio­re in cui ro­bot e uo­mi­ni sa­ran­no in equi­li­brio col pia­ne­ta

    Ri­leg­ge­vo spes­so quel­le ri­ghe per­ché, guar­dan­do­mi at­tor­no, ve­de­vo so­lo gen­te in­ten­ta a por­tar­si a ca­sa lo sti­pen­dio e a fot­ter­se­ne del fu­tu­ro mi­glio­re per i lo­ro fi­gli e ni­po­ti. Che schi­fo mi fa­ce­va­no. Che schi­fo mi fan­no an­co­ra.

    Da quel gior­no del di­cem­bre 2012 ci mi­si in se­gui­to qua­si tre me­si per con­vin­cer­mi che la­scia­re quel po­sto si­cu­ro, quel la­vo­ro che un gior­no mi avreb­be re­so un pen­sio­na­to fe­li­ce, quell’uf­fi­cio open spa­ce che odia­vo, sa­reb­be sta­ta la più gran­de scom­mes­sa e la più gran­de scel­ta del­la mia vi­ta. Il più gran­de sal­to nel vuo­to ma al con­tem­po la mi­glio­re del­le scel­te. Me lo sen­ti­vo den­tro, era una sen­sa­zio­ne in­spie­ga­bi­le ma al con­tem­po era quel­la stes­sa sen­sa­zio­ne che pro­va­vo e che mi ren­de­va dif­fi­ci­le ac­cet­ta­re di com­pie­re il pas­so de­fi­ni­ti­vo, quel­lo di ave­re il co­rag­gio di vo­ler da­re le di­mis­sio­ni sul se­rio

    Di­met­ter­mi. Sen­za un pia­no B già pron­to, ma so­lo per la rab­bia che non avrei avu­to un pia­no B nem­me­no all’in­ter­no di REC­MA.

    Quel­la mat­ti­na, da­van­ti al­lo spec­chio, ca­pii che c’era­no due pos­si­bi­li­tà con cui po­ter­mi con­fron­ta­re; la pri­ma è che nes­su­na del­le espe­rien­ze di vi­ta mes­se in­sie­me fi­no­ra, tra cui un’in­fi­ni­tà di viag­gi in po­sti me­ra­vi­glio­si, mi de­fi­ni­va­no ma al­lo stes­so tem­po, si­cu­ra­men­te, ave­va­no cam­bia­to qual­co­sa in me; la se­con­da era che ave­vo fat­to un poit pouir­ri di espe­rien­ze in un las­so co­sì bre­ve di vi­ta e non ave­vo avu­to mo­do di as­si­mi­lar­le tut­te, per man­can­za di una ri­fles­sio­ne pro­fon­da sul sen­so stes­so del­la mia vi­ta an­che a cau­sa del­la mia gio­va­ne età. In­som­ma mi sem­bra­va di non aver an­co­ra ca­pi­to mol­to do­ve vo­les­si an­da­re, co­sa vo­les­si fa­re e so­prat­tut­to chi vo­les­si es­se­re.

    Quel mat­ti­no di fi­ne feb­bra­io 2013 mi de­ci­si a par­ti­re per cam­mi­na­re lun­go il sen­tie­ro non sem­pli­ce del­la sco­per­ta di sé stes­si.

    Fi­no a quel gior­no mi ero fat­to tra­sci­na­re da un vor­ti­ce di emo­zio­ni ed even­ti più gros­so di me, co­sì gros­so da ri­schia­re di far­mi di­ven­ta­re la per­so­na che avrei odia­to per tut­ta la mia vi­ta, un mor­to che cam­mi­na, uno zom­bie ra­dio­co­man­da­to, un pos­si­bi­le sui­ci­da.

    All’op­po­sto in­ve­ce, sa­rei po­tu­to di­ven­ta­re un esplo­ra­to­re di me stes­so, un cam­mi­nan­te del mon­do, un pe­do­ne in­ge­nuo in un mon­do di per­so­ne mos­se da­gli istin­ti e dai so­gni più va­rie­ga­ti e stra­va­gan­ti pos­si­bi­le, co­me ave­vo sco­per­to gra­zie ai miei viag­gi in so­li­ta­ria in gi­ro per il mon­do.

    Ero spin­to dal de­si­de­rio di di­ven­ta­re un esplo­ra­to­re co­scien­te del mon­do e di ri­fles­so di me stes­so, un uo­mo so­li­ta­rio ma for­te che at­tra­ver­so il con­fron­to con gli al­tri si rin­for­za­va an­co­ra di più per­ché più le per­so­ne mi fa­ce­va­no do­man­de sul­le qua­li ri­flet­te­vo, più la mia men­te ela­bo­ra­va ri­spo­ste che mai mi era­no pas­sa­te per la te­sta. Al tem­po ero an­co­ra con­vin­to che vi fos­se­ro so­lo del­le ri­spo­ste pre­con­cet­te al co­sa vuoi fa­re da gran­de o al chi sa­rai un gior­no in que­sta so­cie­tà glo­ba­le; o peg­gio an­co­ra quan­do ac­ca­de­va di do­ver ri­spon­de­re al­la clas­si­ca do­man­da da re­spon­sa­bi­le del­le ri­sor­se uma­ne: do­ve ti ve­di da qui a 5 an­ni?

    Che ne sa­pe­vo del­la vi­ta e del­le sue va­rie tap­pe? A 10 an­ni, quan­do gli adul­ti mi chie­de­va­no co­sa avrei vo­lu­to fa­re da gran­de, ri­spon­de­vo che avrei vo­lu­to es­se­re pom­pie­re o astro­nau­ta.

    A 20 an­ni quan­do la ma­tu­ri­tà mi die­de la pos­si­bi­li­tà di sce­glie­re dis­si fa­rò l’in­ge­gne­re, per­ché era una ma­te­ria dif­fi­ci­le per la qua­le pe­rò ero por­ta­to ma an­che per­ché ga­ran­ti­va un la­vo­ro si­cu­ro e per­ché, sen­za sa­per­ne mol­to di che fa­ces­se­ro gli in­ge­gne­ri nel­lo spe­ci­fi­co, es­sen­do ap­pe­na usci­to dal li­ceo, mi era sem­bra­to che po­tes­se­ro fa­re un po’ di tut­to e fos­se­ro del­le per­so­ne mol­to col­te, quin­di da am­mi­ra­re. E pro­prio gra­zie al­la men­ta­li­tà e al me­to­do da in­ge­gne­re ri­por­ta­to al­la vi­ta rea­le e non so­lo ai pro­get­ti di la­vo­ro, avrei avu­to la pos­si­bi­li­tà di vi­ve­re al me­glio la mia esi­sten­za.

    Stu­diai in­ge­gne­ria con gu­sto, ma an­che con quel piz­zi­co di fur­bi­zia che mi ca­rat­te­riz­za, sce­glien­do la fa­col­tà che più è pro­na a ca­pi­re il mon­do: l’in­ge­gne­ria chi­mi­ca, l’in­ge­gne­ria dei pro­ces­si, del­le cau­se e de­gli ef­fet­ti. Quel­la che può fa­re tut­to ma che al­la fi­ne può an­che an­da­re a fa­re i soft­ware, che so­no pro­ces­si al­go­rit­mi­ci che ci ga­ran­ti­sco­no un fu­tu­ro più com­ples­so per le mac­chi­ne ma più fa­ci­le per gli uo­mi­ni.

    A vent’an­ni non ca­pi­vo nul­la del mon­do co­me ne ca­pi­sco ora a 32, do­po il cam­mi­no fat­to e ciò che mi è suc­ces­so in REC­MA fi­no al gior­no in cui ho de­ci­so di da­re le di­mis­sio­ni dal re­par­to ri­cer­ca e svi­lup­po dell’azien­da.

    E ora mi tro­vo a scri­ve­re per schia­rir­mi le idee e per fi­lo­so­feg­gia­re sull’esi­sten­za, per­ché mi sen­to so­lo e per­ché, in fin dei con­ti, è una co­sa che mi di­ver­te. Sia scri­ve­re che far­mi leg­ge­re da quei po­chi o mol­ti che sia­no, non im­por­ta. Ho so­lo vo­glia di tra­smet­te­re il mio mes­sag­gio at­tra­ver­so la scrit­tu­ra che è la for­ma d’ar­te che amo di più.

    Co­lo­ro che han­no la for­tu­na di chie­der­si qual­co­sa sul sen­so del­la vi­ta e sul va­lo­re del­la fe­li­ci­tà di so­li­to di­ven­ta­no miei gran­di esti­ma­to­ri e poi an­che let­to­ri.

    Que­sto è so­lo l’in­ci­pit di un li­bro di pu­ra fan­ta­sia in cui ognu­no di voi, so­no cer­to, pro­ve­rà ad in­ter­pre­ta­re le mie pa­ro­le nel mo­do in cui gli ar­ri­ve­ran­no al cuo­re.

    Ho vo­glia di ren­der­vi par­te­ci­pi di que­sto viag­gio pro­prio gra­zie al­le in­ter­pre­ta­zio­ni che voi da­re­te al­le mie pa­ro­le, sen­ten­do qua­li emo­zio­ni pro­va­te nel leg­ge­re cer­te co­se che di­co.

    È una sto­ria di fan­ta­sia ma è mol­to più rea­le di quan­to cre­dia­te. Mi au­gu­ro vi piac­cia.

    Il licenziamento

    Ti­mo­thy, il ca­po di tut­ta la ri­cer­ca e svi­lup­po di REC­MA, era un ca­po mol­to po­co au­to­ri­ta­rio. Mi ci era vo­lu­to po­co per sca­val­car­lo ed an­da­re a par­la­re di­ret­ta­men­te con Ste­fan, l’am­mi­ni­stra­to­re de­le­ga­to e il ve­ro ca­po del di­par­ti­men­to di Ri­cer­ca e Svi­lup­po.

    Ap­pe­na mi pre­sen­tai con la let­te­ra di di­mis­sio­ni in­fat­ti, Ti­mo­thy, in ma­nie­ra po­co ac­cor­ta, vi ap­po­se su­bi­to la fir­ma, do­po una mia bre­vis­si­ma giu­sti­fi­ca­zio­ne che ad­du­ce­va ge­ne­ri­ci pro­ble­mi di fa­mi­glia e di sa­lu­te dei miei fa­mi­lia­ri in ge­ne­ra­le.

    Ap­pe­na Ste­fan ven­ne a sa­pe­re del­la man­ca­ta ac­cor­tez­za di Ti­mo­thy, mi chia­mò nel suo uf­fi­cio per par­lar­ne. Con­ta­va su di me, vo­le­va far­mi fa­re car­rie­ra, ero uno dei po­chi là den­tro che cer­ca­va ve­ra­men­te di tro­va­re i pro­ble­mi e che ten­ta­va di ri­sol­ver­li co­me un buon ma­na­ger do­vreb­be fa­re, or­ga­niz­zan­do riu­nio­ni nel suo uf­fi­cio per far sì che ci si ren­des­se con­to di co­me bi­so­gna­va la­vo­ra­re me­glio e che c’era­no un sac­co di in­ge­gne­ri che non riu­sci­va­no a far­lo.

    La fru­stra­zio­ne ve­ni­va dal ve­de­re per­so­ne che ri­de­va­no a sen­ti­re le mie idee or­ga­niz­za­te e che di­ven­ta­va­no ben pre­sto, non so­lo da­van­ti a me ma an­che da­van­ti a Ste­fan, dei pro­ject ma­na­ger mol­to me­no gra­das­si, sic­co­me si ren­de­va­no con­to che non sa­pe­va­no nean­che co­sa fos­se un plan­ning ben fat­to o peg­gio an­co­ra non ave­va­no nem­me­no idea di co­me scri­ve­re un pro­get­to, non po­nen­do obiet­ti­vi e fi­na­li­tà da rag­giun­ge­re o al­me­no da pro­va­re a rag­giun­ge­re. Di­rei che a li­vel­lo la­vo­ra­ti­vo era a dir po­co uno scan­da­lo e Ste­fan ne era pie­na­men­te al cor­ren­te e ne di­scu­te­va spes­so con me per mi­glio­ra­re la si­tua­zio­ne.

    Io mi ero in­fu­ria­to co­sì tan­to nei me­si pas­sa­ti che non ave­vo nean­che avu­to tem­po di smal­ti­re la rab­bia e la fru­stra­zio­ne per le si­tua­zio­ni da ri­sol­ve­re che quo­ti­dia­na­men­te mi si ri­ver­sa­va­no ad­dos­so, nean­che fos­se­ro olio bol­len­te but­ta­to giù dai mu­ri dei ca­stel­li me­die­va­li. In REC­MA non com­bat­te­va­mo in­sie­me una bat­ta­glia, uni­ti per il be­ne del­la so­cie­tà e per il pro­gres­so, ma ognu­no di noi, pro­prie­ta­rio del suo pic­co­lo pro­get­ti­no mal scrit­to e con po­che spe­ran­ze di es­se­re mai rea­liz­za­to, te­ne­va ben stret­to il suo te­so­ret­to e non fa­ce­va al­tro che sca­te­na­re il pu­ti­fe­rio ap­pe­na gli si fa­ce­va­no no­ta­re le man­can­ze, so­prat­tut­to ri­guar­do al­le no­zio­ni di ba­se.

    Ste­fan ave­va ten­ta­to in tut­ti i mo­di di coin­vol­ger­mi nel­le riu­nio­ni di al­to li­vel­lo che si te­ne­va­no con tut­ti i ca­pi dei va­ri di­par­ti­men­ti, ma il suo far­lo ave­va avu­to il ri­sul­ta­to in­ver­so di al­lon­ta­nar­mi dal vo­ler sa­li­re di li­vel­lo piut­to­sto che il con­tra­rio. Non vo­le­vo es­se­re co­me lo­ro, per­so­ne estre­ma­men­te in­tel­li­gen­ti che fa­ce­va­no ba­ruf­fe su ar­go­men­ti igno­ti e a vol­te pu­re idio­ti. E che de­ci­de­va­no sen­za sa­pe­re di chi fi­dar­si per chie­de­re un pa­re­re, vi­sto che tut­ti ave­va­no la co­da di pa­glia e nes­su­no osa­va sca­glia­re la pri­ma pie­tra per di­chia­rar­si pec­ca­to­re.

    Ave­vo iro­ni­ca­men­te chia­ma­to la REC­MA con un no­mi­gno­lo che le cal­za­va a pen­nel­lo: per me REC­MA era il mon­do al con­tra­rio in cui tut­te le co­se op­po­ste al­la lo­gi­ca po­te­va­no suc­ce­de­re; co­me un mo­der­no mon­do del so­gno al­lu­ci­no­ge­no di Ali­ce nel pae­se del­le me­ra­vi­glie, pie­no di per­so­nag­gi me­ra­vi­glio­si ma sen­za nes­su­na lo­gi­ca né fre­no.

    Là den­tro, in 7 an­ni, da Ali­ce mi ero tra­sfor­ma­to in una sor­ta di stre­gat­to, quel per­so­nag­gio che sug­ge­ri­sce agli al­tri co­sa fa­re in mo­do sor­nio­ne ed enig­ma­ti­co, iro­ni­co ed eva­ne­scen­te. So­lo co­sì ero sta­to ca­pa­ce di so­prav­vi­ve­re fi­no a quel mo­men­to e a fa­re car­rie­ra nel mon­do al con­tra­rio. Di­cen­do le ov­vie­tà e le ve­ri­tà che pa­le­se­men­te ve­ni­va­no na­sco­ste, nor­mal­men­te per co­dar­dia ma so­prat­tut­to da chi non ave­va le pal­le per di­re che le co­se an­da­va­no cam­bia­te, ed an­che in fret­ta. Co­dar­dia mi­sta a pau­ra di per­de­re il po­sto, per­ché per di­re le co­se bi­so­gna non so­lo ave­re le pal­le ma an­che tan­ta fi­du­cia e sti­ma in sé stes­si per sa­pe­re che le pros­si­me mos­se da fa­re sa­ran­no giu­ste e por­te­ran­no a ri­sul­ta­ti.

    A tut­te que­ste co­se ave­vo pen­sa­to quan­do mi ero se­du­to nell’uf­fi­cio di Ste­fan per co­mu­ni­car­gli che me ne sa­rei an­da­to da REC­MA, e che la mia de­ci­sio­ne era ir­re­mo­vi­bi­le. Ste­fan mi pro­po­se qua­lun­que co­sa, qua­lun­que po­si­zio­ne pur­ché ri­ma­nes­si con lo­ro; nel frat­tem­po io guar­da­vo fuo­ri dal­la fi­ne­stra e fan­ta­sti­ca­vo che mon­do e che av­ven­tu­re mi stes­se­ro aspet­tan­do là fuo­ri. Ste­fan ce­det­te ai miei si­len­zi, co­me fe­ce­ro i re­spon­sa­bi­li del­le ri­sor­se uma­ne ed al­tri che vo­le­va­no con­vin­cer­mi a re­sta­re.

    Quan­do fi­nal­men­te re­sti­tuii il mio bad­ge, non tor­nai più nean­che per sa­lu­ta­re le per­so­ne. Tan­ti di­pen­den­ti di REC­MA mi vo­le­va­no be­ne per­ché ave­vo avu­to il co­rag­gio di far­li sve­glia­re dal lo­ro son­no in cui il mon­do al con­tra­rio sem­bra­va aver­li por­ta­ti, fa­cen­do lo­ro pen­sa­re che quel mo­dus ope­ran­di fos­se nor­ma­le. A po­chi ra­gaz­zi vo­le­vo be­ne in quei pa­laz­zi. Quei ra­gaz­zi in gam­ba li ve­de­vo tri­ste­men­te im­pi­glia­ti co­me mo­sche sul­la ra­gna­te­la del ra­gno di quel mon­do e che, ca­pen­do­lo per­ché stu­pi­di non era­no, si era­no mes­si di buo­na le­na per tro­va­re un lo­ro spa­zio da Ali­ce smar­ri­ta in quel mon­do di con­ti­nue ma­ra­ton­de ed in­fi­ni­ti non com­plean­ni. Al­cu­ni lo fa­ce­va­no per man­can­za di scel­te al­ter­na­ti­ve, al­tri per man­can­za di espe­rien­za e di co­rag­gio.

    Di­met­ter­mi non fu una de­ci­sio­ne fa­ci­le ma la sen­sa­zio­ne di li­ber­tà e l’odo­re dell’aria aper­ta do­po aver vol­ta­to de­fi­ni­ti­va­men­te le spal­le a REC­MA era­no sen­sa­zio­ni me­ra­vi­glio­se, mai pro­va­te pri­ma e che non di­men­ti­che­rò mai.

    Thailandia e Clara

    Ho vis­su­to in pa­rec­chi luo­ghi del mon­do, ma la pa­ce che si tro­va in Thai­lan­dia non si tro­va da nes­su­na par­te. La pri­ma co­sa che fe­ci do­po aver fir­ma­to le di­mis­sio­ni, fu pren­de­re un bi­gliet­to ae­reo per Ban­g­kok per una va­can­za di re­lax e spi­ri­tua­li­tà in Thai­lan­dia, a Koh Phan­gan.

    Lì mi aspet­ta­vo di in­con­tra­re Duc­cio, un al­tro che al­la mia età ave­va de­ci­so di mol­la­re tut­to per co­strui­re un re­sort su quell’iso­la. Un mio mi­to, al tem­po, in­tro­dot­to­mi da Be­ne­det­ta, la mia or­mai ex mo­ro­sa.

    Eh sì, per­ché quan­do dò un ta­glio net­to con il pas­sa­to, lo fac­cio con il ma­che­te e quin­di ero par­ti­to li­be­ro e sen­za me­ta, a par­te an­da­re a tro­va­re Duc­cio in Ma­le­sia e in Thai­lan­dia.

    Non è de­scri­vi­bi­le la ma­gia di cam­mi­na­re scal­zi su una spiag­gia co­ral­li­na in una not­te di lu­na pie­na in cui si ve­de tut­to co­me fos­se il­lu­mi­na­to dai lam­pio­ni e fan­ta­sti­ca­re al con­tem­po sul­la mia vi­ta fu­tu­ra.

    All’epo­ca sull’iso­la di Phan­gan pro­vai di tut­to, da una set­ti­ma­na di pu­li­zia del co­lon con an­nes­so di­giu­no, ai mas­sag­gi thai sui let­ti­ni di fron­te al ma­re, al­le sau­ne, al­lo yo­ga, al thai chi, al dor­mi­re da so­lo sot­to una pal­ma do­po aver at­tra­ver­sa­to mez­za iso­la su un mo­to­ri­no.

    Fa­ce­vo tut­to ciò che mi ren­de­va fe­li­ce e evi­den­te­men­te, ema­na­vo que­sta au­ra di fe­li­ci­tà per­ché ave­vo mo­do di co­no­sce­re per­so­ne e di in­stau­ra­re dei bei rap­por­ti di ami­ci­zia con lo­ro.

    Mi ri­cor­do an­co­ra i com­po­nen­ti di Si­rio Sur­vi­vors, il grup­po Fa­ce­book che ave­va­mo crea­to per ri­cor­dar­ci quan­to fos­se sta­to du­ro il di­giu­no al cen­tro Si­rio e quan­to il non man­gia­re co­sì a lun­go ci ave­va uni­ti nel­le dif­fi­col­tà. Si­rio è il no­me del luo­go dei di­giu­ni do­ve co­nob­bi tut­ti i par­te­ci­pan­ti al grup­po e con cui or­ga­niz­zai la no­stra gi­ta in bar­ca al­la vol­ta di bot­tle bea­ch, let­te­ral­men­te il pa­ra­di­so sul­la ter­ra, un lem­bo di spiag­gia co­ral­li­na con die­tro una fo­re­sta di man­gro­vie, un ri­sto­ran­te in cui la pri­ma co­sa che ti mo­stra­va­no era il lo­ro sor­ri­so e il lo­ro re­lax per es­se­re lì tut­to il gior­no a met­te­re a po­sto le po­che co­se che i tu­ri­sti la­scia­va­no do­po aver man­gia­to. Più che al­tro le no­ci di coc­co che tut­ti noi be­ve­va­mo con avi­di­tà e di cui man­gia­va­mo l’in­ter­no co­me fos­se yo­gurt.

    Era­va­mo in 7, il mio nu­me­ro pre­di­let­to. Io fa­ce­vo da ca­po gi­ta, co­me al so­li­to mi ca­pi­ta, gli uo­mi­ni era­no in in­fe­rio­ri­tà nu­me­ri­ca ed era­va­mo ac­com­pa­gna­ti da del­le bel­le don­ne olan­de­si, una rus­sa e una ma­gni­fi­ca in­gle­se per cui ave­vo let­te­ral­men­te per­so la te­sta per­ché ave­vo sco­per­to es­se­re don­na so­gna­tri­ce e ani­ma pu­ra co­me la mia.

    Amo chiac­chie­ra­re, so­prat­tut­to con le don­ne, che lo ama­no fa­re di na­tu­ra. So­no sem­pre sta­to un uo­mo ati­pi­co, ho am­mi­ra­to la ca­pa­ci­tà di aper­tu­ra emo­ti­va del­le don­ne, an­che con gli sco­no­sciu­ti o qua­si, co­me so­no io per lo­ro do­po qual­che gior­no di va­can­za. Poi il chiac­chie­ra­re aiu­ta a ca­pir­si e crea quel le­ga­me che i si­len­zi in­ve­ce non crea­no.

    Mi ri­tro­vo, sen­za sa­pe­re co­me sia suc­ces­so, a par­la­re di vi­ta con una ra­gaz­za, Lot­te, che di la­vo­ro fa la trai­ner psi­co­lo­gi­ca per i po­li­ziot­ti olan­de­si, met­ten­do­li al­la pro­va nel­le con­di­zio­ni più dif­fi­ci­li. A ve­der­la co­sì, sem­bra una ra­gaz­za tran­quil­la e a mo­do men­tre sco­pro che è pra­ti­ca­men­te nel­le ta­sk for­ce olan­de­si. Que­ste so­no le ami­ci­zie che amo in­tes­se­re nei viag­gi in so­li­ta­ria.

    Sa­rah, la ra­gaz­za in­gle­se, cer­ca di evi­tar­mi il più pos­si­bi­le per­ché è fi­dan­za­ta e ha ca­pi­to che va­do mat­to per lei, ma rie­sco a con­qui­star­la scri­ven­do­le una let­te­ra in cui non è pos­si­bi­le che non ca­pi­sca la mia in­fa­tua­zio­ne. Una se­ra vie­ne a fa­re un gi­ro con me in mo­to­ri­no, si con­ce­de un po’, mi scal­da un po’ il cuo­re, quel che ba­sta per sen­tir­mi ama­to ma nei li­mi­ti del pos­si­bi­le.

    Il grup­po dei Si­rio Sur­vi­vors è mo­vi­men­ta­to e pie­no di bel­le per­so­ne che tra l’al­tro si so­no da po­co de­pu­ra­te da tos­si­ne e so­stan­za no­ci­ve che han­no la­scia­to spa­zio a cel­lu­le nuo­ve ma an­che a pen­sie­ri mi­glio­ri e me­no ne­ga­ti­vi.

    Non es­sen­do un fa­na­ti­co del­lo sport, non ho mai pen­sa­to a quan­te tos­si­ne eli­mi­ni il no­stro cor­po gra­zie al mo­vi­men­to e an­che a pu­li­zie co­sì in­ten­se co­me il di­giu­no e i la­vag­gi in­te­sti­na­li.

    Mi sen­to nuo­vo, ri­na­to, con la ca­ri­ca di un ven­ten­ne. E al­lo­ra tor­no a di­ver­tir­mi con i Si­rio Sur­vi­vors per rim­pos­ses­sar­mi di un po’ di ado­le­scen­za e spen­sie­ra­tez­za, tut­te as­sie­me e ac­com­pa­gna­te da un gran re­lax. L’im­por­tan­za dell’in­te­sa e del­la coe­sio­ne di un grup­po la im­pa­ro là e non, co­me mi era suc­ces­so di

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