Morire e rinascere
Di Angelo Dolci
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Anteprima del libro
Morire e rinascere - Angelo Dolci
14-12)
Chi sono?
Mi chiamo Frank Pumoni, ma non è il mio vero nome; non ne faccio una questione di privacy, non ho nulla da nascondere. Il motivo vero per cui non lo voglio svelare è semplice, anche se potrebbe sembrarvi strano: al momento non so chi sono veramente.
Quando, circa un anno, fa lasciai il St. Peter Hospital di Crouchytown, mi assicurarono che ero completamente guarito, che le mie ossessioni mi avevano abbandonato. Nel frattempo, però, la ditta per cui lavoravo mi aveva licenziato. Il rientro nella mia casa di Prinshoot mi causò disagio e delusione. I miei vicini mi trattavano con evidente imbarazzo, gli amici di un tempo, dopo una prima visita di cortesia, non si fecero più vivi. Insomma un matto, in questa società, resta marchiato a vita, almeno tra i suoi conoscenti. Ma mi sbagliavo: il motivo del loro comportamento era un altro e l’avrei scoperto per caso, molto tempo dopo.
In ogni caso, questo loro atteggiamento mi fece molto male, però mi resi anche conto che in passato il rapporto instaurato con quelle persone era stato sporadico e superficiale, limitato al trovarsi in birreria, parlare di sport e di automobili, frequentare discoteche per rimorchiare ragazze. Preferivo di gran lunga starmene da solo a progettare nuovi software, ad approfondire le mie conoscenze informatiche, in breve, conducevo una vita da eremita con qualche isolato episodio di vita sociale forse vissuto più per distrazione che per reale interesse.
Era stata forse quella la causa del mio cedimento? Ricordo ben poco del ricovero; del resto la schizofrenia è una malattia subdola che confonde i sogni con la realtà e viceversa.
Sulla mia vita precedente ho un ricordo annebbiato, simile a un album di fotografie ingiallite dal tempo.
Ho avuto un’infanzia felice, come può averla un figlio unico desiderato a lungo e finalmente giunto a destinazione. Genitori sempre molto vicini, con gli occhi puntati su di me, forse anche troppo. Me la cavavo molto bene negli studi, e a soli ventiquattro anni ottenni una laurea in ingegneria informatica con un bel 110 e lode che mi valse qualche anno dopo l’inserimento nel settore ricerche dell’Indycome, un colosso dell’informatica. Nel frattempo, però, l’improvvisa morte di mio padre e poco dopo quella di mia madre, mi buttarono nello sconforto.
Mi trovai isolato, senza parenti; i miei genitori avevano attraversato l’oceano, convinti che questo fosse il posto più adatto per realizzare i miei sogni. Erano loro che pensavano a tutto, io ero impegnato negli studi e nel tempo libero, salvo rare eccezioni , me ne stavo a casa ad approfondire il linguaggio informatico. Improvvisamente dovetti arrangiarmi e le cose intorno a me cominciarono a precipitare. La casa stava cadendo a pezzi, come la mia vita solitaria. Contribuirono allo sfacelo anche le precarie condizioni economiche in cui vissi per mesi. Tiravo a campare svolgendo attività saltuarie, pagando a malapena i pasti frugali, il mutuo che avevo ereditato dai miei genitori, le bollette, i rari ricambi nell’abbigliamento, qualche serata con gli amici e cosi via. Sono un tipo testardo e le difficoltà non mi scoraggiavano. Consapevole della mia preparazione in informatica, continuavo a spedire curriculum, insieme ai risultati delle mie ricerche, alle numerose software house che in quel momento spuntavano come funghi. Fu proprio una di queste, l’Indycome, appunto, che, visto il risultato brillante che avevo conseguito all’università, ma soprattutto per aver trovato di grande interesse
la mia tesi di laurea sulla programmazione dei supercalcolatori di nuova generazione, mi salvò da un declino senza speranza, inserendomi nel suo settore ricerche con uno stipendio niente male.
Non mi sarei mai aspettato di diventare schizofrenico solo un paio d’anni dopo. Gli ultimi ricordi prima del vuoto assoluto sono l’immagine di un incidente: due disgraziati finiti contro un albero. Poi più nulla fino al risveglio nel letto dell’ospedale psichiatrico. Nessuno mi ha raccontato quello che avvenne dopo quell’incidente, né io insistetti per saperlo. Mi bastava esserne uscito e aver ripreso, almeno in parte, la mia vita.
Sì, perché, al mio rientro a casa, trovai una raccomandata dell’Indycome che m’informava, in forma garbata, come nel settore così vitale della ricerca, la Società non poteva permettersi periodi di assenza troppo prolungati e che pertanto erano stati costretti a sostituirmi. Allegavano una lettera di ben servito che mi sarebbe tornata utile per inserirmi facilmente in un’altra realtà e m’informava di avermi accreditato sul conto una somma cospicua, come risarcimento per il mio inevitabile licenziamento, con tanti auguri... eccetera eccetera. Insomma mi davano un bel calcio nel culo e molte grazie.
La cosa non mi fece molto dispiacere: dopo l’esperienza vissuta al mio rientro, volevo dimenticare tutto, andarmene da Prinshoot per rifarmi una vita. Vendetti la mia casa e con i soldi dell’Indycome ne acquistai un’altra al quartiere Blindmaze di Crouchytown: un quartiere elegante, di solito deserto perché abitato da famiglie giovani perlopiù composte da manager di grosse industrie, pubblicitari, architetti; insomma, da una fauna umana con uno scopo comune: quello del successo, dei soldi e della carriera a ogni costo e aggiungerei con qualsiasi mezzo. Il benservito dell’Indycome mi fu d’aiuto per trovare abbastanza presto un impiego presso una ditta concorrente ben felice di ospitare chi aveva lavorato per la concorrenza e che mi mise a libro paga con uno stipendio invidiabile.
Comunque continuo a condurre la mia vita solitaria senza grandi ambizioni se non nel campo del mio lavoro.
Non ho altre passioni, non possiedo l’ultimo modello di fuoristrada, né passo i miei fine settimana nei campi da golf o cimentandomi in sport dove più che lo spirito agonistico prevale soprattutto l’ostentazione di abbigliamenti griffati e attrezzature prodotte da marche prestigiose. Organizzo il mio tempo libero in modo vario: leggendo, navigando in internet, passeggiando per qualche sentiero di campagna o raggiungendo la costa per una nuotata.
Mi sono fatto nuovi amici, tutti sposati con figli, e, tra i miei impegni e i loro, capita raramente che ci si ritrovi a giocare, a vedere l’ultimo film, a parlare del più e del meno.
Un paio di volte mi è capitato di intrecciare con l’altro sesso una relazione che ha avuto durata breve per motivi che non sempre riesco a capire.
Insomma un discreto e poco movimentato tran-tran, almeno fino al giorno in cui ricevetti dall’ospedale un pacco contenente un faldone nero, chiuso con due bottoni automatici, accompagnato da una lettera dell’amministrazione ospedaliera che m’informava di averlo casualmente trovato nell’armadietto dove era stata custodita la mia roba e che per errore non mi era stato restituito all’atto delle mie dimissioni.
Rimasi sorpreso perché non mi ricordavo di aver posseduto quel faldone. Lo aprii, dentro c’era un pacco di fogli scritti al computer. Sul primo foglio in alto e in centro alla pagina lessi Memorie di Matthew Cornwell
, pensai che si trattasse di un errore dell’ospedale. Telefonai subito all’amministrazione per informarli, ma mi assicurarono che non si erano sbagliati: il faldone giaceva sul fondo del mio armadietto ed essendo nero probabilmente non era stato notato dall’inserviente quando aveva recuperato le mie cose.
A sostegno delle loro affermazioni m’informarono inoltre che nessun paziente con quel nome si era o era stato ricoverato nella loro clinica. Non insistetti, di lì a poco avrei dovuto uscire per una visita a un cliente, ma era tale la curiosità di scoprirne il contenuto che mi sedetti sul divano e iniziai subito a leggere le prime pagine.
MEMORIE di Matthew Cornwell
Domenica 5 Marzo 2006 ore 8.32 Manicomio Criminale di Greenspot
Mi chiamo Matthew Cornwell e ho trentatre anni, li compirò esattamente tra venti giorni. Lo posso dire con certezza dopo essere stato rinchiuso in questa cella di sicurezza del Manicomio Criminale di Greenspot per oltre quattro anni senza conoscere né la data, né il giorno, né l’ora. Tra una settimana verrò sottoposto a un intervento particolare che dovrebbe sistemarmi il cervello, dicono. Vogliono farmi capire in che modo devo interpretare le cose, per non commettere gli stessi atti terribili che sostengono abbia commesso. Ma ti assicuro che non è vero, si è trattato di una fatalità, di una tragica fatalità. Sono molto agitato e quel piccolo sadico burocrate del direttore ha voluto, proprio come si fa con i condannati a morte, che esprimessi un desiderio prima di sottomettermi all’intervento. Così ho chiesto di conoscere la data e che ora fosse. Il magnanimo
Direttore, dopo avermele rivelate, si è affrettato a puntualizzare che quello non era un vero desiderio, che potevo esprimerne un altro; così, ho chiesto di poter scrivere le mie memorie. E ora eccomi qua, nella mia cella, seduto a un tavolino davanti a un PC mentre mi accingo a raccontare come sono andate veramente le cose, controllato a vista da un infermiere pronto a intervenire se cercassi in qualche modo di farmi male. Non sono pazzo e te lo dimostrerò raccontando la mia storia, che in parte è anche la tua, ed è talmente straordinaria e fuori dal comune che spero non dubiterai della mia sanità mentale. Ma devi credermi, è importante, ne va del bene nostro e dell’umanità intera.
È necessario che scriva queste memorie perché, dopo l’intervento, non sono sicuro se potrò ricordare come si sono svolti i fatti e del dono straordinario che potremo condividere e grazie al quale sono convinto mi perdonerai per quello ti ho fatto. Cercherò di farti vivere questi avvenimenti come se io li vivessi per la prima volta così che, piano, piano, tu possa assimilarli e spero accettarli, pur nella loro stranezza e incredibilità. Ma ora è bene che cominci, andando indietro nel tempo al momento del mio suicidio. Ricordo data, giorno e persino l’ora di quando è avvenuto, anche se ciò è abbastanza normale trattandosi di un avvenimento, diciamo così, estremo.
Riporterò con la massima cura, proprio come si trattasse di un diario, le date degli avvenimenti, specificando persino l’ora in cui sono avvenuti. Tutti elementi che dopo tanti anni non posso ricordare con precisione, ma sono necessari per dare un ordine temporale alle vicende che ti sto per narrare.
Sabato 12 Maggio 2001 ore 8.15
Sto per suicidarmi e ho scelto un coltello a lama larga, in cucina. Sarà un’esperienza terribile ma necessaria. Devo assolutamente riconquistare l’amore di Jane, e quello che sto per fare è forse l’unico modo per recuperarlo. Lei si era innamorata di me, come io lo ero di lei, ma sono state la strenua resistenza di Mark e la mia scarsa esperienza le cause del mio fallimento. Avrei dovuto cercare meglio, allenarmi di più, non lasciarmi coinvolgere sentimentalmente. Ma come potevo farlo con una donna come Jane, così dolce, intelligente, così... deliziosamente graziosa. E pensare che eravamo vicinissimi al risultato. Lei era l’ultima tessera del puzzle, poi tutto si sarebbe concluso.
Scusami se scrivo cose che per ora ti possono sembrare prive di senso, ma ho tra le mani questo coltello e sto per affondarlo nelle mie viscere e puoi capire come, in un momento tanto estremo, desideri essere solo con me stesso e i miei ricordi.
Domenica 5 Marzo 2006 ore 8.34 Manicomio Criminale di Greenspot
Ti starai chiedendo come possa aver scritto questo resoconto, se mi sono suicidato. Domanda legittima e so già che non crederai a ciò che ti dirò, probabilmente ti metterai a sogghignare, cestinerai questi fogli pensando che ciò che vi è scritto sia la dimostrazione della mia follia. Ma ti prego di credermi: il mio suicidio è avvenuto veramente e ne mantengo ancora vivo il ricordo. Non ho dimenticato il dolore atroce procurato dal freddo metallo del coltellaccio da cucina mentre perforava le mie viscere, il sangue che, colando copioso dalla ferita, raggiungeva i genitali, le cosce e attraverso i pantaloni, il pavimento della cucina, dove si è allargato in una chiazza rosso scuro nella quale, poco dopo, sono scivolato, anzi sarebbe meglio dire il mio involucro è scivolato a terra privo di vita. Continui a non capire vero? Tutta questa faccenda ti sembrerà complicata, ma, dopo che ti avrò svelato i retroscena, diventerà limpida come acqua di sorgente, ma, non per questo, meno straordinaria e terribile.
Per capire la mia storia te ne devo raccontare un’altra cominciata circa sei mesi dopo il mio suicidio, in un drive-in alla periferia di Crouchytown. In questa storia si parla di Ron Hupperly e di sua moglie Betty. Quale tipo di rapporto ci sia tra Ron e me lo potrai capire solo seguendo da vicino la sua lenta ma costante, presa di coscienza sulla sua vera identità.
Perdona i miei velleitari slanci poetici o le fioriture tipiche di uno scrittore dilettante, ma ho sempre amato raccontare e scrivere storie e, anche se sto narrando fatti assolutamente veri, mi piace arricchirli con elementi tipici del romanzo d’appendice con il solo scopo di calamitare l’attenzione del lettore e portarlo possibilmente fino alla fine di questa inverosimile ma straordinaria vicenda.
Domenica 30 dicembre 2001 sera
Puzzle colorato di metallo, carne, pensieri, voci, solitudini e risate. Buio intorno e luce sul grande schermo che invia spezzoni di fantasia e vita reale. Chiusi nella loro auto, Ron e Betty sono rapiti dalle immagini e dalla storia. Talvolta le mani si stringono e le teste s’inclinano a toccarsi. Per attimi più o meno lunghi, un bacio ruba la loro attenzione dalla storia che si sta proiettando.
-Dai Ron, adesso piantala, fammi vedere il finale... dai smettila!
-Va beeene... ho capito: questo film t’interessa troppo. Ho fatto male a consigliartelo. Ora me ne resto qui buono.
Ron, imitando il comportamento di un ragazzino, comincia a sgranocchiare rumorosamente popcorn, inclina il busto in avanti, spalanca gli occhi dimostrando un esagerato interesse per la storia che scorre sullo schermo.
Betty sorride: -Come sei scemo!- tuffa le mani nel cespuglio dei suoi capelli cercando di arruffarli ma senza riuscirci perché, dopo la passata, il cespuglio di ricci riprende la forma originaria. Poi si stringe a lui e gli molla un pizzicotto.
-Ehi, che fai!- Il pizzicotto gli ha sollecitato parti molto sensibili, facendolo sobbalzare. Il maxi bicchiere di popcorn, che tiene appoggiato sul sedile, stretto tra le cosce, si rovescia e una leggera cascata di bianchi corpuscoli simili a polistirolo, ma molto più unti e salati, inonda il tappetino dell’auto.
-Cavolo! Guarda cos’hai combinato!- esclama piagnucolando Ron, ormai immedesimatosi nella parte del ragazzino un po’ tonto. -Rivoglio il mio popcorn, rivoglio il mio popcorn- frigna stupidamente.
-Oh, poverino, come mi spiace. Ma guarda, guarda quanto popcorn c’è qui sotto.- Betty ne raccoglie una manciata e lo lascia cadere sulla capigliatura ricciuta di Ron che, conciato in quel modo, assume l’aspetto di un pupazzo di clown appena estratto dal polistirolo.
Un accenno di lotta tra i due termina con un abbraccio e un altro bacio, mentre una musica martellante accompagna i titoli di coda. Poi improvvisamente lo schermo si spegne come la musica. Di colpo.
-Ecco, hai visto, il film è finito e ci siamo persi il finale- piagnucola Betty. -Guarda, quando fai così ti... strozzerei.- Nello spazio riempito dai tre puntini, il viso di Betty simula un accesso di rabbia: contrae il viso, serra i denti e solleva i pugni stretti, pronti a colpire.
Ron le afferra i polsi, cerca di darle un altro bacio, ma lei piega il viso di lato e ride. Un colpo di clacson li riporta alla realtà: qualcuno che chiede strada. Ron si ricompone e, rivolto al proprietario della Honda che sta dietro, alza una mano in un gesto conciliante. Poi, calpestando mucchietti di popcorn, ingrana la marcia e parte diretto all’uscita.
Ron e Betty sono sposati da quasi due anni e il loro amore non ha perso lo slancio e le ingenuità di una giovane coppia d’innamorati. Lui lavora come impiegato al Guinny’s Store: tiene in ordine qualche scartoffia, registra le entrate e le uscite del magazzino utilizzando un vecchio IBM 386 con lo schermo a fosfori verdi. Quando non è impegnato in ufficio, controlla che nel supermercato tutto fili liscio, per questo è sempre l’ultimo a uscire e, quando il capo non c’è, spetta a lui chiudere. Nonostante il viso da ragazzino, sembra che riesca a tenere un certo ordine e a farsi rispettare. Guinny, il capo, è contento di lui.
Betty fa la parrucchiera. Il negozio non è suo ma, prima o poi, spera di poter subentrare a Silvie, la proprietaria: una sfigata che sta sempre a sbuffare, sempre a lagnarsi dicendo che vuole smettere, tanto è stufa marcia di fare permanenti. La fervida immaginazione di Betty si sofferma ogni tanto a visualizzare se stessa in un negozio tutto suo. Il posto sarebbe molto diverso, più allegro di quel buco grigio, immerso in atmosfera di nervosismo e depressione.
Insomma Ron e Betty sono una coppia felice, tutto va per il meglio, senza scossoni.
Stanno risalendo in ascensore nel formicaio che si trova alla periferia sud di Crouchytown. L’occasione è buona per scambiarsi qualche bacio in piena privacy. Le loro immagini si riflettono nello specchio sempre sudicio che riveste una parete. La massa di capelli neri e ricciuti di Ron nasconde il viso dai lineamenti fini di Betty, i cui lunghi capelli biondi ricadono a cascata sulla maglietta verde di lui.
Il loro appartamento, quinto piano, quindicesimo a destra, è composto da tre stanze arredate con gusto; il soggiorno ha qualche poster alle pareti, un tavolino, due divani e un piccolo acquario con pesci rossi in un angolo. Non c’è televisore: preferiscono uscire e incontrare gli amici oppure andarsene al cinema.
-Prendiamo qualcosa prima di andare a dormire?- chiede Betty, accoccolata vicino a lui sul divano, riuscendo a far sorridere i suoi occhi di un bel color nocciola.
-Ti va del gelato?- Ron è già in piedi, diretto alla cucina.
-Sì, grazie. Portamene un poco alla fragola.
Mentre si avvia, Ron avverte una sensazione di freddo accompagnata da un capogiro; per un attimo l’ambiente, che dovrebbe essergli familiare, gli risulta del tutto estraneo. Proprio una brutta esperienza. Si ricorda che una cosa simile gli è capitata qualche giorno prima quando ha incontrato Charlie, uscendo da Guinny. Non si preoccupa più di tanto: sarà la stanchezza, pensa, troppe sere a rincasare tardi, il lavoro, qualche scopata di troppo...
Più tardi a letto non riesce a prendere sonno. Quel dannato gelato mischiato al popcorn è rimasto lì a sonnecchiare nello stomaco. Il respiro leggero e regolare di Betty, distesa accanto a lui, accompagna i suoi pensieri scoordinati che nel dormiveglia vagano senza senso come il buio. Dà un’occhiata all’orologio: l’una! Solo sei ore al risveglio! Deve cercare di dormire. Rimane un poco a fissare le fessure illuminate della tapparella. Qualcuno in strada sta parcheggiando. Si sente lo scarico del cesso di un vicino. E poi il nulla senza sogni.
Lunedì 31 dicembre 2001 mattino
-Buongiorno.- Ron ha infilato la testa nell’ufficio del capo.
-Ciao Ron.- Il capo è già seduto alla scrivania. Probabilmente ci ha passato la notte: lo si capisce dalla voce catarrosa e impastata, i radi capelli spettinati, la camicia con due ampie chiazze di sudore sotto le ascelle, le borse sotto gli occhi a malapena nascoste dagli spessi occhiali dalla vistosa montatura nera vecchio stile, l’odore di fumo e alcuni bicchierini di plastica macchiati di caffè.
-Questo maledetto bilancio mi fa impazzire. Non mi tornano 25 dollari ed è già la decima volta