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Morire e rinascere
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E-book287 pagine3 ore

Morire e rinascere

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Info su questo ebook

Frank Pumoni, reduce da un lungo ricovero in ospedale per schizofrenia, riceve per posta un plico che contiene le memorie di uno sconosciuto, un certo Matthew Cornwell. Le rivelazioni contenute nel lungo racconto lo faranno dubitare dei motivi del suo ricovero, prospettandogli alternative di comportamento che potrebbero avere conseguenze inimmaginabili non solo per la sua vita, ma per il destino dell'intera umanità.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2020
ISBN9788831667647
Morire e rinascere

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    Anteprima del libro

    Morire e rinascere - Angelo Dolci

    14-12)

    Chi sono?

    Mi chia­mo Frank Pu­mo­ni, ma non è il mio ve­ro no­me; non ne fac­cio una que­stio­ne di pri­va­cy, non ho nul­la da na­scon­de­re. Il mo­ti­vo ve­ro per cui non lo vo­glio sve­la­re è sem­pli­ce, an­che se po­treb­be sem­brar­vi stra­no: al mo­men­to non so chi so­no ve­ra­men­te.

    Quan­do, cir­ca un an­no, fa la­sciai il St. Pe­ter Ho­spi­tal di Crou­chy­to­wn, mi as­si­cu­ra­ro­no che ero com­ple­ta­men­te gua­ri­to, che le mie os­ses­sio­ni mi ave­va­no ab­ban­do­na­to. Nel frat­tem­po, pe­rò, la dit­ta per cui la­vo­ra­vo mi ave­va li­cen­zia­to. Il rien­tro nel­la mia ca­sa di Prin­shoot mi cau­sò di­sa­gio e de­lu­sio­ne. I miei vi­ci­ni mi trat­ta­va­no con evi­den­te im­ba­raz­zo, gli ami­ci di un tem­po, do­po una pri­ma vi­si­ta di cor­te­sia, non si fe­ce­ro più vi­vi. In­som­ma un mat­to, in que­sta so­cie­tà, re­sta mar­chia­to a vi­ta, al­me­no tra i suoi co­no­scen­ti. Ma mi sba­glia­vo: il mo­ti­vo del lo­ro com­por­ta­men­to era un al­tro e l’avrei sco­per­to per ca­so, mol­to tem­po do­po.

    In ogni ca­so, que­sto lo­ro at­teg­gia­men­to mi fe­ce mol­to ma­le, pe­rò mi re­si an­che con­to che in pas­sa­to il rap­por­to in­stau­ra­to con quel­le per­so­ne era sta­to spo­ra­di­co e su­per­fi­cia­le, li­mi­ta­to al tro­var­si in bir­re­ria, par­la­re di sport e di au­to­mo­bi­li, fre­quen­ta­re di­sco­te­che per ri­mor­chia­re ra­gaz­ze. Pre­fe­ri­vo di gran lun­ga star­me­ne da so­lo a pro­get­ta­re nuo­vi soft­ware, ad ap­pro­fon­di­re le mie co­no­scen­ze in­for­ma­ti­che, in bre­ve, con­du­ce­vo una vi­ta da ere­mi­ta con qual­che iso­la­to epi­so­dio di vi­ta so­cia­le for­se vis­su­to più per di­stra­zio­ne che per rea­le in­te­res­se.

    Era sta­ta for­se quel­la la cau­sa del mio ce­di­men­to? Ri­cor­do ben po­co del ri­co­ve­ro; del re­sto la schi­zo­fre­nia è una ma­lat­tia sub­do­la che con­fon­de i so­gni con la real­tà e vi­ce­ver­sa.

    Sul­la mia vi­ta pre­ce­den­te ho un ri­cor­do an­neb­bia­to, si­mi­le a un al­bum di fo­to­gra­fie in­gial­li­te dal tem­po.

    Ho avu­to un’in­fan­zia fe­li­ce, co­me può aver­la un fi­glio uni­co de­si­de­ra­to a lun­go e fi­nal­men­te giun­to a de­sti­na­zio­ne. Ge­ni­to­ri sem­pre mol­to vi­ci­ni, con gli oc­chi pun­ta­ti su di me, for­se an­che trop­po. Me la ca­va­vo mol­to be­ne ne­gli stu­di, e a so­li ven­ti­quat­tro an­ni ot­ten­ni una lau­rea in in­ge­gne­ria in­for­ma­ti­ca con un bel 110 e lo­de che mi val­se qual­che an­no do­po l’in­se­ri­men­to nel set­to­re ri­cer­che dell’In­dy­co­me, un co­los­so dell’in­for­ma­ti­ca. Nel frat­tem­po, pe­rò, l’im­prov­vi­sa mor­te di mio pa­dre e po­co do­po quel­la di mia ma­dre, mi but­ta­ro­no nel­lo scon­for­to.

    Mi tro­vai iso­la­to, sen­za pa­ren­ti; i miei ge­ni­to­ri ave­va­no at­tra­ver­sa­to l’ocea­no, con­vin­ti che que­sto fos­se il po­sto più adat­to per rea­liz­za­re i miei so­gni. Era­no lo­ro che pen­sa­va­no a tut­to, io ero im­pe­gna­to ne­gli stu­di e nel tem­po li­be­ro, sal­vo ra­re ec­ce­zio­ni , me ne sta­vo a ca­sa ad ap­pro­fon­di­re il lin­guag­gio in­for­ma­ti­co. Im­prov­vi­sa­men­te do­vet­ti ar­ran­giar­mi e le co­se in­tor­no a me co­min­cia­ro­no a pre­ci­pi­ta­re. La ca­sa sta­va ca­den­do a pez­zi, co­me la mia vi­ta so­li­ta­ria. Con­tri­bui­ro­no al­lo sfa­ce­lo an­che le pre­ca­rie con­di­zio­ni eco­no­mi­che in cui vis­si per me­si. Ti­ra­vo a cam­pa­re svol­gen­do at­ti­vi­tà sal­tua­rie, pa­gan­do a ma­la­pe­na i pa­sti fru­ga­li, il mu­tuo che ave­vo ere­di­ta­to dai miei ge­ni­to­ri, le bol­let­te, i ra­ri ri­cam­bi nell’ab­bi­glia­men­to, qual­che se­ra­ta con gli ami­ci e co­si via. So­no un ti­po te­star­do e le dif­fi­col­tà non mi sco­rag­gia­va­no. Con­sa­pe­vo­le del­la mia pre­pa­ra­zio­ne in in­for­ma­ti­ca, con­ti­nua­vo a spe­di­re cur­ri­cu­lum, in­sie­me ai ri­sul­ta­ti del­le mie ri­cer­che, al­le nu­me­ro­se soft­ware hou­se che in quel mo­men­to spun­ta­va­no co­me fun­ghi. Fu pro­prio una di que­ste, l’In­dy­co­me, ap­pun­to, che, vi­sto il ri­sul­ta­to bril­lan­te che ave­vo con­se­gui­to all’uni­ver­si­tà, ma so­prat­tut­to per aver tro­va­to di gran­de in­te­res­se la mia te­si di lau­rea sul­la pro­gram­ma­zio­ne dei su­per­cal­co­la­to­ri di nuo­va ge­ne­ra­zio­ne, mi sal­vò da un de­cli­no sen­za spe­ran­za, in­se­ren­do­mi nel suo set­to­re ri­cer­che con uno sti­pen­dio nien­te ma­le.

    Non mi sa­rei mai aspet­ta­to di di­ven­ta­re schi­zo­fre­ni­co so­lo un pa­io d’an­ni do­po. Gli ul­ti­mi ri­cor­di pri­ma del vuo­to as­so­lu­to so­no l’im­ma­gi­ne di un in­ci­den­te: due di­sgra­zia­ti fi­ni­ti con­tro un al­be­ro. Poi più nul­la fi­no al ri­sve­glio nel let­to dell’ospe­da­le psi­chia­tri­co. Nes­su­no mi ha rac­con­ta­to quel­lo che av­ven­ne do­po quell’in­ci­den­te, né io in­si­stet­ti per sa­per­lo. Mi ba­sta­va es­ser­ne usci­to e aver ri­pre­so, al­me­no in par­te, la mia vi­ta.

    Sì, per­ché, al mio rien­tro a ca­sa, tro­vai una rac­co­man­da­ta dell’In­dy­co­me che m’in­for­ma­va, in for­ma gar­ba­ta, co­me nel set­to­re co­sì vi­ta­le del­la ri­cer­ca, la So­cie­tà non po­te­va per­met­ter­si pe­rio­di di as­sen­za trop­po pro­lun­ga­ti e che per­tan­to era­no sta­ti co­stret­ti a so­sti­tuir­mi. Al­le­ga­va­no una let­te­ra di ben ser­vi­to che mi sa­reb­be tor­na­ta uti­le per in­se­rir­mi fa­cil­men­te in un’al­tra real­tà e m’in­for­ma­va di aver­mi ac­cre­di­ta­to sul con­to una som­ma co­spi­cua, co­me ri­sar­ci­men­to per il mio ine­vi­ta­bi­le li­cen­zia­men­to, con tan­ti au­gu­ri... ec­ce­te­ra ec­ce­te­ra. In­som­ma mi da­va­no un bel cal­cio nel cu­lo e mol­te gra­zie.

    La co­sa non mi fe­ce mol­to di­spia­ce­re: do­po l’espe­rien­za vis­su­ta al mio rien­tro, vo­le­vo di­men­ti­ca­re tut­to, an­dar­me­ne da Prin­shoot per ri­far­mi una vi­ta. Ven­det­ti la mia ca­sa e con i sol­di dell’In­dy­co­me ne ac­qui­stai un’al­tra al quar­tie­re Blind­ma­ze di Crou­chy­to­wn: un quar­tie­re ele­gan­te, di so­li­to de­ser­to per­ché abi­ta­to da fa­mi­glie gio­va­ni per­lo­più com­po­ste da ma­na­ger di gros­se in­du­strie, pub­bli­ci­ta­ri, ar­chi­tet­ti; in­som­ma, da una fau­na uma­na con uno sco­po co­mu­ne: quel­lo del suc­ces­so, dei sol­di e del­la car­rie­ra a ogni co­sto e ag­giun­ge­rei con qual­sia­si mez­zo. Il ben­ser­vi­to dell’In­dy­co­me mi fu d’aiu­to per tro­va­re ab­ba­stan­za pre­sto un im­pie­go pres­so una dit­ta con­cor­ren­te ben fe­li­ce di ospi­ta­re chi ave­va la­vo­ra­to per la con­cor­ren­za e che mi mi­se a li­bro pa­ga con uno sti­pen­dio in­vi­dia­bi­le.

    Co­mun­que con­ti­nuo a con­dur­re la mia vi­ta so­li­ta­ria sen­za gran­di am­bi­zio­ni se non nel cam­po del mio la­vo­ro.

    Non ho al­tre pas­sio­ni, non pos­sie­do l’ul­ti­mo mo­del­lo di fuo­ri­stra­da, né pas­so i miei fi­ne set­ti­ma­na nei cam­pi da golf o ci­men­tan­do­mi in sport do­ve più che lo spi­ri­to ago­ni­sti­co pre­va­le so­prat­tut­to l’osten­ta­zio­ne di ab­bi­glia­men­ti grif­fa­ti e at­trez­za­tu­re pro­dot­te da mar­che pre­sti­gio­se. Or­ga­niz­zo il mio tem­po li­be­ro in mo­do va­rio: leg­gen­do, na­vi­gan­do in in­ter­net, pas­seg­gian­do per qual­che sen­tie­ro di cam­pa­gna o rag­giun­gen­do la co­sta per una nuo­ta­ta.

    Mi so­no fat­to nuo­vi ami­ci, tut­ti spo­sa­ti con fi­gli, e, tra i miei im­pe­gni e i lo­ro, ca­pi­ta ra­ra­men­te che ci si ri­tro­vi a gio­ca­re, a ve­de­re l’ul­ti­mo film, a par­la­re del più e del me­no.

    Un pa­io di vol­te mi è ca­pi­ta­to di in­trec­cia­re con l’al­tro ses­so una re­la­zio­ne che ha avu­to du­ra­ta bre­ve per mo­ti­vi che non sem­pre rie­sco a ca­pi­re.

    In­som­ma un di­scre­to e po­co mo­vi­men­ta­to tran-tran, al­me­no fi­no al gior­no in cui ri­ce­vet­ti dall’ospe­da­le un pac­co con­te­nen­te un fal­do­ne ne­ro, chiu­so con due bot­to­ni au­to­ma­ti­ci, ac­com­pa­gna­to da una let­te­ra dell’am­mi­ni­stra­zio­ne ospe­da­lie­ra che m’in­for­ma­va di aver­lo ca­sual­men­te tro­va­to nell’ar­ma­diet­to do­ve era sta­ta cu­sto­di­ta la mia ro­ba e che per er­ro­re non mi era sta­to re­sti­tui­to all’at­to del­le mie di­mis­sio­ni.

    Ri­ma­si sor­pre­so per­ché non mi ri­cor­da­vo di aver pos­se­du­to quel fal­do­ne. Lo aprii, den­tro c’era un pac­co di fo­gli scrit­ti al com­pu­ter. Sul pri­mo fo­glio in al­to e in cen­tro al­la pa­gi­na les­si Me­mo­rie di Mat­thew Cor­n­well, pen­sai che si trat­tas­se di un er­ro­re dell’ospe­da­le. Te­le­fo­nai su­bi­to all’am­mi­ni­stra­zio­ne per in­for­mar­li, ma mi as­si­cu­ra­ro­no che non si era­no sba­glia­ti: il fal­do­ne gia­ce­va sul fon­do del mio ar­ma­diet­to ed es­sen­do ne­ro pro­ba­bil­men­te non era sta­to no­ta­to dall’in­ser­vien­te quan­do ave­va re­cu­pe­ra­to le mie co­se.

    A so­ste­gno del­le lo­ro af­fer­ma­zio­ni m’in­for­ma­ro­no inol­tre che nes­sun pa­zien­te con quel no­me si era o era sta­to ri­co­ve­ra­to nel­la lo­ro cli­ni­ca. Non in­si­stet­ti, di lì a po­co avrei do­vu­to usci­re per una vi­si­ta a un clien­te, ma era ta­le la cu­rio­si­tà di sco­prir­ne il con­te­nu­to che mi se­det­ti sul di­va­no e ini­ziai su­bi­to a leg­ge­re le pri­me pa­gi­ne.

    MEMORIE di Matthew Cornwell

    Domenica 5 Marzo 2006 ore 8.32 Manicomio Criminale di Greenspot

    Mi chia­mo Mat­thew Cor­n­well e ho tren­ta­tre an­ni, li com­pi­rò esat­ta­men­te tra ven­ti gior­ni. Lo pos­so di­re con cer­tez­za do­po es­se­re sta­to rin­chiu­so in que­sta cel­la di si­cu­rez­za del Ma­ni­co­mio Cri­mi­na­le di Green­spot per ol­tre quat­tro an­ni sen­za co­no­sce­re né la da­ta, né il gior­no, né l’ora. Tra una set­ti­ma­na ver­rò sot­to­po­sto a un in­ter­ven­to par­ti­co­la­re che do­vreb­be si­ste­mar­mi il cer­vel­lo, di­co­no. Vo­glio­no far­mi ca­pi­re in che mo­do de­vo in­ter­pre­ta­re le co­se, per non com­met­te­re gli stes­si at­ti ter­ri­bi­li che so­sten­go­no ab­bia com­mes­so. Ma ti as­si­cu­ro che non è ve­ro, si è trat­ta­to di una fa­ta­li­tà, di una tra­gi­ca fa­ta­li­tà. So­no mol­to agi­ta­to e quel pic­co­lo sa­di­co bu­ro­cra­te del di­ret­to­re ha vo­lu­to, pro­prio co­me si fa con i con­dan­na­ti a mor­te, che espri­mes­si un de­si­de­rio pri­ma di sot­to­met­ter­mi all’in­ter­ven­to. Co­sì ho chie­sto di co­no­sce­re la da­ta e che ora fos­se. Il ma­gna­ni­mo Di­ret­to­re, do­po aver­me­le ri­ve­la­te, si è af­fret­ta­to a pun­tua­liz­za­re che quel­lo non era un ve­ro de­si­de­rio, che po­te­vo espri­mer­ne un al­tro; co­sì, ho chie­sto di po­ter scri­ve­re le mie me­mo­rie. E ora ec­co­mi qua, nel­la mia cel­la, se­du­to a un ta­vo­li­no da­van­ti a un PC men­tre mi ac­cin­go a rac­con­ta­re co­me so­no an­da­te ve­ra­men­te le co­se, con­trol­la­to a vi­sta da un in­fer­mie­re pron­to a in­ter­ve­ni­re se cer­cas­si in qual­che mo­do di far­mi ma­le. Non so­no paz­zo e te lo di­mo­stre­rò rac­con­tan­do la mia sto­ria, che in par­te è an­che la tua, ed è tal­men­te straor­di­na­ria e fuo­ri dal co­mu­ne che spe­ro non du­bi­te­rai del­la mia sa­ni­tà men­ta­le. Ma de­vi cre­der­mi, è im­por­tan­te, ne va del be­ne no­stro e dell’uma­ni­tà in­te­ra.

    È ne­ces­sa­rio che scri­va que­ste me­mo­rie per­ché, do­po l’in­ter­ven­to, non so­no si­cu­ro se po­trò ri­cor­da­re co­me si so­no svol­ti i fat­ti e del do­no straor­di­na­rio che po­tre­mo con­di­vi­de­re e gra­zie al qua­le so­no con­vin­to mi per­do­ne­rai per quel­lo ti ho fat­to. Cer­che­rò di far­ti vi­ve­re que­sti av­ve­ni­men­ti co­me se io li vi­ves­si per la pri­ma vol­ta co­sì che, pia­no, pia­no, tu pos­sa as­si­mi­lar­li e spe­ro ac­cet­tar­li, pur nel­la lo­ro stra­nez­za e in­cre­di­bi­li­tà. Ma ora è be­ne che co­min­ci, an­dan­do in­die­tro nel tem­po al mo­men­to del mio sui­ci­dio. Ri­cor­do da­ta, gior­no e per­si­no l’ora di quan­do è av­ve­nu­to, an­che se ciò è ab­ba­stan­za nor­ma­le trat­tan­do­si di un av­ve­ni­men­to, di­cia­mo co­sì, estre­mo.

    Ri­por­te­rò con la mas­si­ma cu­ra, pro­prio co­me si trat­tas­se di un dia­rio, le da­te de­gli av­ve­ni­men­ti, spe­ci­fi­can­do per­si­no l’ora in cui so­no av­ve­nu­ti. Tut­ti ele­men­ti che do­po tan­ti an­ni non pos­so ri­cor­da­re con pre­ci­sio­ne, ma so­no ne­ces­sa­ri per da­re un or­di­ne tem­po­ra­le al­le vi­cen­de che ti sto per nar­ra­re.

    Sabato 12 Maggio 2001 ore 8.15

    Sto per sui­ci­dar­mi e ho scel­to un col­tel­lo a la­ma lar­ga, in cu­ci­na. Sa­rà un’espe­rien­za ter­ri­bi­le ma ne­ces­sa­ria. De­vo as­so­lu­ta­men­te ri­con­qui­sta­re l’amo­re di Ja­ne, e quel­lo che sto per fa­re è for­se l’uni­co mo­do per re­cu­pe­rar­lo. Lei si era in­na­mo­ra­ta di me, co­me io lo ero di lei, ma so­no sta­te la stre­nua re­si­sten­za di Mark e la mia scar­sa espe­rien­za le cau­se del mio fal­li­men­to. Avrei do­vu­to cer­ca­re me­glio, al­le­nar­mi di più, non la­sciar­mi coin­vol­ge­re sen­ti­men­tal­men­te. Ma co­me po­te­vo far­lo con una don­na co­me Ja­ne, co­sì dol­ce, in­tel­li­gen­te, co­sì... de­li­zio­sa­men­te gra­zio­sa. E pen­sa­re che era­va­mo vi­ci­nis­si­mi al ri­sul­ta­to. Lei era l’ul­ti­ma tes­se­ra del puzz­le, poi tut­to si sa­reb­be con­clu­so.

    Scu­sa­mi se scri­vo co­se che per ora ti pos­so­no sem­bra­re pri­ve di sen­so, ma ho tra le ma­ni que­sto col­tel­lo e sto per af­fon­dar­lo nel­le mie vi­sce­re e puoi ca­pi­re co­me, in un mo­men­to tan­to estre­mo, de­si­de­ri es­se­re so­lo con me stes­so e i miei ri­cor­di.

    Domenica 5 Marzo 2006 ore 8.34 Manicomio Criminale di Greenspot

    Ti sta­rai chie­den­do co­me pos­sa aver scrit­to que­sto re­so­con­to, se mi so­no sui­ci­da­to. Do­man­da le­git­ti­ma e so già che non cre­de­rai a ciò che ti di­rò, pro­ba­bil­men­te ti met­te­rai a sog­ghi­gna­re, ce­sti­ne­rai que­sti fo­gli pen­san­do che ciò che vi è scrit­to sia la di­mo­stra­zio­ne del­la mia fol­lia. Ma ti pre­go di cre­der­mi: il mio sui­ci­dio è av­ve­nu­to ve­ra­men­te e ne man­ten­go an­co­ra vi­vo il ri­cor­do. Non ho di­men­ti­ca­to il do­lo­re atro­ce pro­cu­ra­to dal fred­do me­tal­lo del col­tel­lac­cio da cu­ci­na men­tre per­fo­ra­va le mie vi­sce­re, il san­gue che, co­lan­do co­pio­so dal­la fe­ri­ta, rag­giun­ge­va i ge­ni­ta­li, le co­sce e at­tra­ver­so i pan­ta­lo­ni, il pa­vi­men­to del­la cu­ci­na, do­ve si è al­lar­ga­to in una chiaz­za ros­so scu­ro nel­la qua­le, po­co do­po, so­no sci­vo­la­to, an­zi sa­reb­be me­glio di­re il mio in­vo­lu­cro è sci­vo­la­to a ter­ra pri­vo di vi­ta. Con­ti­nui a non ca­pi­re ve­ro? Tut­ta que­sta fac­cen­da ti sem­bre­rà com­pli­ca­ta, ma, do­po che ti avrò sve­la­to i re­tro­sce­na, di­ven­te­rà lim­pi­da co­me ac­qua di sor­gen­te, ma, non per que­sto, me­no straor­di­na­ria e ter­ri­bi­le.

    Per ca­pi­re la mia sto­ria te ne de­vo rac­con­ta­re un’al­tra co­min­cia­ta cir­ca sei me­si do­po il mio sui­ci­dio, in un dri­ve-in al­la pe­ri­fe­ria di Crou­chy­to­wn. In que­sta sto­ria si par­la di Ron Hup­per­ly e di sua mo­glie Bet­ty. Qua­le ti­po di rap­por­to ci sia tra Ron e me lo po­trai ca­pi­re so­lo se­guen­do da vi­ci­no la sua len­ta ma co­stan­te, pre­sa di co­scien­za sul­la sua ve­ra iden­ti­tà.

    Per­do­na i miei vel­lei­ta­ri slan­ci poe­ti­ci o le fio­ri­tu­re ti­pi­che di uno scrit­to­re di­let­tan­te, ma ho sem­pre ama­to rac­con­ta­re e scri­ve­re sto­rie e, an­che se sto nar­ran­do fat­ti as­so­lu­ta­men­te ve­ri, mi pia­ce ar­ric­chir­li con ele­men­ti ti­pi­ci del ro­man­zo d’ap­pen­di­ce con il so­lo sco­po di ca­la­mi­ta­re l’at­ten­zio­ne del let­to­re e por­tar­lo pos­si­bil­men­te fi­no al­la fi­ne di que­sta in­ve­ro­si­mi­le ma straor­di­na­ria vi­cen­da.

    Domenica 30 dicembre 2001 sera

    Puzz­le co­lo­ra­to di me­tal­lo, car­ne, pen­sie­ri, vo­ci, so­li­tu­di­ni e ri­sa­te. Buio in­tor­no e lu­ce sul gran­de scher­mo che in­via spez­zo­ni di fan­ta­sia e vi­ta rea­le. Chiu­si nel­la lo­ro au­to, Ron e Bet­ty so­no ra­pi­ti dal­le im­ma­gi­ni e dal­la sto­ria. Tal­vol­ta le ma­ni si strin­go­no e le te­ste s’in­cli­na­no a toc­car­si. Per at­ti­mi più o me­no lun­ghi, un ba­cio ru­ba la lo­ro at­ten­zio­ne dal­la sto­ria che si sta pro­iet­tan­do.

    -Dai Ron, ades­so pian­ta­la, fam­mi ve­de­re il fi­na­le... dai smet­ti­la!

    -Va beee­ne... ho ca­pi­to: que­sto film t’in­te­res­sa trop­po. Ho fat­to ma­le a con­si­gliar­te­lo. Ora me ne re­sto qui buo­no.

    Ron, imi­tan­do il com­por­ta­men­to di un ra­gaz­zi­no, co­min­cia a sgra­noc­chia­re ru­mo­ro­sa­men­te po­p­corn, in­cli­na il bu­sto in avan­ti, spa­lan­ca gli oc­chi di­mo­stran­do un esa­ge­ra­to in­te­res­se per la sto­ria che scor­re sul­lo scher­mo.

    Bet­ty sor­ri­de: -Co­me sei sce­mo!- tuf­fa le ma­ni nel ce­spu­glio dei suoi ca­pel­li cer­can­do di ar­ruf­far­li ma sen­za riu­scir­ci per­ché, do­po la pas­sa­ta, il ce­spu­glio di ric­ci ri­pren­de la for­ma ori­gi­na­ria. Poi si strin­ge a lui e gli mol­la un piz­zi­cot­to.

    -Ehi, che fai!- Il piz­zi­cot­to gli ha sol­le­ci­ta­to par­ti mol­to sen­si­bi­li, fa­cen­do­lo sob­bal­za­re. Il ma­xi bic­chie­re di po­p­corn, che tie­ne ap­pog­gia­to sul se­di­le, stret­to tra le co­sce, si ro­ve­scia e una leg­ge­ra ca­sca­ta di bian­chi cor­pu­sco­li si­mi­li a po­li­sti­ro­lo, ma mol­to più un­ti e sa­la­ti, inon­da il tap­pe­ti­no dell’au­to.

    -Ca­vo­lo! Guar­da cos’hai com­bi­na­to!- escla­ma pia­gnu­co­lan­do Ron, or­mai im­me­de­si­ma­to­si nel­la par­te del ra­gaz­zi­no un po’ ton­to. -Ri­vo­glio il mio po­p­corn, ri­vo­glio il mio po­p­corn- fri­gna stu­pi­da­men­te.

    -Oh, po­ve­ri­no, co­me mi spia­ce. Ma guar­da, guar­da quan­to po­p­corn c’è qui sot­to.- Bet­ty ne rac­co­glie una man­cia­ta e lo la­scia ca­de­re sul­la ca­pi­glia­tu­ra ric­ciu­ta di Ron che, con­cia­to in quel mo­do, as­su­me l’aspet­to di un pu­paz­zo di clo­wn ap­pe­na estrat­to dal po­li­sti­ro­lo.

    Un ac­cen­no di lot­ta tra i due ter­mi­na con un ab­brac­cio e un al­tro ba­cio, men­tre una mu­si­ca mar­tel­lan­te ac­com­pa­gna i ti­to­li di co­da. Poi im­prov­vi­sa­men­te lo scher­mo si spe­gne co­me la mu­si­ca. Di col­po.

    -Ec­co, hai vi­sto, il film è fi­ni­to e ci sia­mo per­si il fi­na­le- pia­gnu­co­la Bet­ty. -Guar­da, quan­do fai co­sì ti... stroz­ze­rei.- Nel­lo spa­zio riem­pi­to dai tre pun­ti­ni, il vi­so di Bet­ty si­mu­la un ac­ces­so di rab­bia: con­trae il vi­so, ser­ra i den­ti e sol­le­va i pu­gni stret­ti, pron­ti a col­pi­re.

    Ron le af­fer­ra i pol­si, cer­ca di dar­le un al­tro ba­cio, ma lei pie­ga il vi­so di la­to e ri­de. Un col­po di clac­son li ri­por­ta al­la real­tà: qual­cu­no che chie­de stra­da. Ron si ri­com­po­ne e, ri­vol­to al pro­prie­ta­rio del­la Hon­da che sta die­tro, al­za una ma­no in un ge­sto con­ci­lian­te. Poi, cal­pe­stan­do muc­chiet­ti di po­p­corn, in­gra­na la mar­cia e par­te di­ret­to all’usci­ta.

    Ron e Bet­ty so­no spo­sa­ti da qua­si due an­ni e il lo­ro amo­re non ha per­so lo slan­cio e le in­ge­nui­tà di una gio­va­ne cop­pia d’in­na­mo­ra­ti. Lui la­vo­ra co­me im­pie­ga­to al Guin­ny’s Sto­re: tie­ne in or­di­ne qual­che scar­tof­fia, re­gi­stra le en­tra­te e le usci­te del ma­gaz­zi­no uti­liz­zan­do un vec­chio IBM 386 con lo scher­mo a fo­sfo­ri ver­di. Quan­do non è im­pe­gna­to in uf­fi­cio, con­trol­la che nel su­per­mer­ca­to tut­to fi­li li­scio, per que­sto è sem­pre l’ul­ti­mo a usci­re e, quan­do il ca­po non c’è, spet­ta a lui chiu­de­re. No­no­stan­te il vi­so da ra­gaz­zi­no, sem­bra che rie­sca a te­ne­re un cer­to or­di­ne e a far­si ri­spet­ta­re. Guin­ny, il ca­po, è con­ten­to di lui.

    Bet­ty fa la par­ruc­chie­ra. Il ne­go­zio non è suo ma, pri­ma o poi, spe­ra di po­ter su­ben­tra­re a Sil­vie, la pro­prie­ta­ria: una sfi­ga­ta che sta sem­pre a sbuf­fa­re, sem­pre a la­gnar­si di­cen­do che vuo­le smet­te­re, tan­to è stu­fa mar­cia di fa­re per­ma­nen­ti. La fer­vi­da im­ma­gi­na­zio­ne di Bet­ty si sof­fer­ma ogni tan­to a vi­sua­liz­za­re se stes­sa in un ne­go­zio tut­to suo. Il po­sto sa­reb­be mol­to di­ver­so, più al­le­gro di quel bu­co gri­gio, im­mer­so in at­mo­sfe­ra di ner­vo­si­smo e de­pres­sio­ne.

    In­som­ma Ron e Bet­ty so­no una cop­pia fe­li­ce, tut­to va per il me­glio, sen­za scos­so­ni.

    Stan­no ri­sa­len­do in ascen­so­re nel for­mi­ca­io che si tro­va al­la pe­ri­fe­ria sud di Crou­chy­to­wn. L’oc­ca­sio­ne è buo­na per scam­biar­si qual­che ba­cio in pie­na pri­va­cy. Le lo­ro im­ma­gi­ni si ri­flet­to­no nel­lo spec­chio sem­pre su­di­cio che ri­ve­ste una pa­re­te. La mas­sa di ca­pel­li ne­ri e ric­ciu­ti di Ron na­scon­de il vi­so dai li­nea­men­ti fi­ni di Bet­ty, i cui lun­ghi ca­pel­li bion­di ri­ca­do­no a ca­sca­ta sul­la ma­gliet­ta ver­de di lui.

    Il lo­ro ap­par­ta­men­to, quin­to pia­no, quin­di­ce­si­mo a de­stra, è com­po­sto da tre stan­ze ar­re­da­te con gu­sto; il sog­gior­no ha qual­che po­ster al­le pa­re­ti, un ta­vo­li­no, due di­va­ni e un pic­co­lo ac­qua­rio con pe­sci ros­si in un an­go­lo. Non c’è te­le­vi­so­re: pre­fe­ri­sco­no usci­re e in­con­tra­re gli ami­ci op­pu­re an­dar­se­ne al ci­ne­ma.

    -Pren­dia­mo qual­co­sa pri­ma di an­da­re a dor­mi­re?- chie­de Bet­ty, ac­coc­co­la­ta vi­ci­no a lui sul di­va­no, riu­scen­do a far sor­ri­de­re i suoi oc­chi di un bel co­lor noc­cio­la.

    -Ti va del ge­la­to?- Ron è già in pie­di, di­ret­to al­la cu­ci­na.

    -Sì, gra­zie. Por­ta­me­ne un po­co al­la fra­go­la.

    Men­tre si av­via, Ron av­ver­te una sen­sa­zio­ne di fred­do ac­com­pa­gna­ta da un ca­po­gi­ro; per un at­ti­mo l’am­bien­te, che do­vreb­be es­ser­gli fa­mi­lia­re, gli ri­sul­ta del tut­to estra­neo. Pro­prio una brut­ta espe­rien­za. Si ri­cor­da che una co­sa si­mi­le gli è ca­pi­ta­ta qual­che gior­no pri­ma quan­do ha in­con­tra­to Char­lie, uscen­do da Guin­ny. Non si pre­oc­cu­pa più di tan­to: sa­rà la stan­chez­za, pen­sa, trop­pe se­re a rin­ca­sa­re tar­di, il la­vo­ro, qual­che sco­pa­ta di trop­po...

    Più tar­di a let­to non rie­sce a pren­de­re son­no. Quel dan­na­to ge­la­to mi­schia­to al po­p­corn è ri­ma­sto lì a son­nec­chia­re nel­lo sto­ma­co. Il re­spi­ro leg­ge­ro e re­go­la­re di Bet­ty, di­ste­sa ac­can­to a lui, ac­com­pa­gna i suoi pen­sie­ri scoor­di­na­ti che nel dor­mi­ve­glia va­ga­no sen­za sen­so co­me il buio. Dà un’oc­chia­ta all’oro­lo­gio: l’una! So­lo sei ore al ri­sve­glio! De­ve cer­ca­re di dor­mi­re. Ri­ma­ne un po­co a fis­sa­re le fes­su­re il­lu­mi­na­te del­la tap­pa­rel­la. Qual­cu­no in stra­da sta par­cheg­gian­do. Si sen­te lo sca­ri­co del ces­so di un vi­ci­no. E poi il nul­la sen­za so­gni.

    Lunedì 31 dicembre 2001 mattino

    -Buon­gior­no.- Ron ha in­fi­la­to la te­sta nell’uf­fi­cio del ca­po.

    -Ciao Ron.- Il ca­po è già se­du­to al­la scri­va­nia. Pro­ba­bil­men­te ci ha pas­sa­to la not­te: lo si ca­pi­sce dal­la vo­ce ca­tar­ro­sa e im­pa­sta­ta, i ra­di ca­pel­li spet­ti­na­ti, la ca­mi­cia con due am­pie chiaz­ze di su­do­re sot­to le ascel­le, le bor­se sot­to gli oc­chi a ma­la­pe­na na­sco­ste da­gli spes­si oc­chia­li dal­la vi­sto­sa mon­ta­tu­ra ne­ra vec­chio sti­le, l’odo­re di fu­mo e al­cu­ni bic­chie­ri­ni di pla­sti­ca mac­chia­ti di caf­fè.

    -Que­sto ma­le­det­to bi­lan­cio mi fa im­paz­zi­re. Non mi tor­na­no 25 dol­la­ri ed è già la de­ci­ma vol­ta

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