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La guerra dei lupi
La guerra dei lupi
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E-book389 pagine4 ore

La guerra dei lupi

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Info su questo ebook

Pensavo di essere un ragazzo come tutti gli altri. Pensavo che avrei avuto una vita normale, con i miei alti e bassi da teenager, i miei voti a scuola, che avrei comunque trovato sempre troppo bassi, i miei genitori sempre così sorridenti, i miei amici così fuori dagli standard e così contro corrente. Pensavo...Pensavo di rimanere per sempre il ragazzo semplice e spensierato che ero sempre stato, quello che non vedeva mai il bicchiere mezzo vuoto ma sempre mezzo pieno, un positivo cronico che non aveva paura di affrontare il domani. Pensavo...Credevo...Pensavo di conoscere ogni cosa della mia semplice vita, in fondo era tutto così perfetto, così splendidamente semplice e naturale, da sembrare falso. Poi sono arrivati loro. La notte è scesa su di noi. E sono arrivati i lupi
LinguaItaliano
Data di uscita5 mar 2018
ISBN9788827816868
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    Anteprima del libro

    La guerra dei lupi - Andrea Lofoco

    633/1941.

    PRESENTAZIONE LIBRO

    Wolf's World War

    La Guerra dei Lupi

    La nascita del lupo

    Libro Uno

    E' un mondo violento, rabbioso, scosso da guerre religiose, mosso da interessi economici e politici che, lentamente e inesorabilmente, ha trasformato l'uomo in un assassino, nel profanatore demoniaco che affonda le mani nella terra per distruggere qualsiasi cosa il suo cammino gli ponga di fronte.

    Non importa se la natura urla e si dimena cercando di difendersi: l'importante è il profitto. Un profitto fatto di sangue e guerra, di morti e di sopravvissuti, di prede e di predatori.

    Ma qualcosa, nell'ombra silenziosa, si muove, come un serpente velenoso, pronto a riportare la terra al suo perfetto equilibrio.

    Una macchina che la natura stessa ha creato dai sui mari e dai suoi oceani avvelenati dal petrolio, bombardati dagli ordigni atomici e ormai quasi del tutto svuotati degli animali che lo popolavano, pronta ad agire per fermare, una volta per tutte, la mano armata dell'uomo, che ferisce ciò che sfiora.

    Protagonista di questa storia è Bradley Johnson, un ragazzo di sedici anni che abita in una città di nome Conter, nello stato di Fosterdale. Si tratta di una cittadina di trentamila abitanti, persa tra montagne suggestive che disegnano linee mozzafiato che fanno da sfondo all'immensità sconfinata del cielo, con spiagge bagnate dalle acque limpide e dai fondali dai mille colori. Bradley è un adolescente come tutti gli altri, ama fare sport, uscire con gli amici e godersi la tranquillità, lontano dalla vita frenetica delle grandi metropoli degli Stati Uniti.

    Figlio unico di un famoso rappresentante farmaceutico e di un'infermiera, Brad trascorre i suoi pomeriggi diviso tra boxe e studio, amici e prime sbandate.

    Tutto sembra andare liscio, ma qualcosa, nel suo passato sta per tornare a cercarlo.

    Ed proprio una sera, funestata da alte colonne di fumo e sirene urlanti che si alzano dalla città piegata su se stessa, che scoprirà di essere braccato da qualcosa che non conosce confini.

    Qualcosa di mostruoso e infernale.

    O meglio, qualcuno.

    Mentre osserva il fuoco divampare tra le strade, due caccia aerei sorvolano la città nell'aria fredda della sera.

    Pochi secondi dopo...l'esplosione.

    Poi il buio. E niente sarà più come prima.

    Dietro all'attacco brutale alla sua amata città, c'è un nemico che, inspiegabilmente, è legato al suo passato, alla sua stessa esistenza, un'origine che li accomuna più di quanto egli stesso non creda.

    Il passato che non ha mai conosciuto, è tornato, la sua vita intera sarà rimessa in discussione.

    Scoprirà la vera natura del suo spirito e le sue origini, in un viaggio che lo costringerà ad affrontare un nemico ben più pericoloso di una guerra atomica: la malvagità umana.

    La Guerra dei Lupi: La nascita del Lupo.

    Libro Uno

    WOLF'S WORLD WAR

    LA GUERRA DEI LUPI

    LA NASCITA DEL LUPO

    PROLOGO

    Osservai l'orologio appeso al muro, il suo ticchettio incessante scandiva con infinita lentezza il mio pomeriggio. Chiusi il quaderno dei compiti e mi gettai sul divano pregustando il dolce suono della televisione. A quell'ora, dopo formule sconnesse e operazioni matematiche al limite dell'assurdo, decisi di concedermi un po di sano svago.

    Allungai la mano sul tavolino, vi trovai il mio bicchiere freddo contenente il succo gusto kiwi e un piattino bello pieno di buonissimi biscotti al cioccolato, con tanto di scagliette nell'impasto. Masticai assaporando il piacere di rompere ogni singola pepita di cioccolato che lentamente e gustosamente, andava sgretolandosi tra i denti. Il sole stava per scomparire all'orizzonte, il pomeriggio indossò il lungo mantello blu della sera, la parte della giornata che preferivo, perché per me, significava una cosa sola: boxe! La borsa mi aspettava sulla porta : avevo lucidato i bellissimi guantoni rossi, pulito il paradenti e lavato i pantaloncini. Sorrisi ripensando a come avevo convinto mia madre che, in fondo, la boxe poteva farmi bene : fu un gioco di sguardi e di complicità, tra me e mio padre, a far vacillare la sua sicurezza e la sua irremovibilità . Ma le ferite, i lividi, le contusioni e le cadute, non riuscivano a farmi desistere e ogni volta che ne vedevo sul mio corpo i segni, continuavo a ripetermi che in fondo non era uno sport per tutti.

    L'orologio non mentiva: le sei e un quarto! Papà era in ritardo. Solitamente era a casa insieme a mia madre già alle cinque e mezza... dovevano aver avuto qualche imprevisto. Composi il numero sul telefono e attesi che la linea agganciasse la rete del cellulare, ma scattò la segreteria dopo pochi secondi: Salve!!! Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico e cercherò di richiamare il prima possibile. Partì il bip e riagganciai perplesso.

    In tv stava passando una serie televisiva incentrata su un gruppo di fisici teorici che, alla fine di ogni puntata, si ritrovava immischiato in situazioni ridicole e paradossali che sfociavano in scene talmente divertenti, da far lacrimare gli occhi dalle risate. In quel momento però non mi andava tanto di ridere: ero preoccupato. Papà non si comportava mai così, se ritardava avvisava sempre con una telefonata.

    Conter era una cittadina tranquilla nello stato di Fosterdale. Ci conoscevamo tutti come se fossimo una grandissima famiglia, tant'è vero che non avevamo neanche bisogno di un giornale locale, quindi se fosse successo qualcosa, presto o tardi, qualcuno sarebbe venuto a bussare alla porta. Guardai fuori dalla vetrata che dava sul giardino: nessun movimento oltre la staccionata. Calma piatta. Mi alzai dal divano e aprì la porta finestra facendola scorrere delicatamente. Annusai l'aria e tra i tanti odori, oltre a quello dell'erba umida tipico delle nostre zone, uno in particolare urtò il mio olfatto: una nota dolciastra, acre che nelle domeniche d'estate voleva dire solo una cosa... barbecue. Uscì sul vialetto principale osservando le case di fronte e nonostante ogni cosa sembrasse normale, ebbi la netta sensazione che quella sera qualcosa fosse diverso dal solito. Tremendamente diverso dal solito. Nonostante gli irrigatori funzionassero, come sempre a quell'ora, le case del vicinato apparivano vuote: i vetri bui, e le finestre chiuse, mi diedero ragione.

    Possibile che fossi solo? Possibile che non ci fosse nessun altro?

    Gli alberi sfregavano le fronde una contro l'altra mosse dal forte vento...era l'unico segno di vita attorno a me, come se la stessa vegetazione fosse scossa da una forza sconosciuta.

    Neanche Elizabeth pareva essere in casa. Ah Elizabeth! La ragazza più bella che io avessi mai visto, la ragazza che tutti avrebbero voluto avere come fidanzata: occhi azzurri, capelli castani, gambe lunghe, lineamenti dolci e sorriso mozzafiato. Molti ragazzi della mia scuola avevano tentato di strapparle un appuntamento; purtroppo per loro e per me, prediligeva la compagnia di ragazzi più grandi... in questo modo aveva infranto i sogni dei molti spasimanti che le ronzavano intorno.

    Mi ridestai da quei dolci pensieri, attratto dal rumore delle sirene spiegate delle ambulanze che percorrevano a tutta velocità le vie della città, mentre tra gli alti palazzi, colonne di fumo si snodavano verso il cielo. Ma cosa diavolo sta succedendo?.

    Corsi in casa afferrando il telefono e provai di nuovo a contattare mio padre, ma il suo cellulare era ancora staccato. Iniziai a sudare freddo. Stava succedendo qualcosa di brutto... qualcosa di grosso. Sentì una forte sgommata provenire dalla strada. Mi fiondai fuori spalancando la porta: il vicino inchiodò bruscamente sul suo vialetto lastricato, lanciandosi fuori dall'auto e correndo in casa visibilmente agitato...non riuscii neanche a fermarlo e a chiedergli qualcosa e sparì poco dopo al piano superiore.

    L'odore nauseante si fece più forte. Il vento aumento' in maniera improvvisa e la sera arrivò quasi inaspettatamente. Stordito guardai in alto verso la luna e li vidi: tre aerei sfrecciarono sovrastando il rumore del mondo sopra l'oceano calmo e silente.

    Si avvicinarono alla città lucente e alla montagna alle mie spalle. Sospesi nell'aria sganciarono qualcosa. Fu un attimo. Un secondo. Poi un lampo. Un'esplosione. Una luce accecante.

    PARTE UNO

    CAPITOLO 1

    Fischio. Un fischio fortissimo. Poi il calore in lontananza che circondò tutto. Il mondo perse il suono. Lo spostamento d'aria trascinò via con sé molte costruzioni così come casa mia. In preda al panico mi rialzai da quella che una volta era la strada principale: gli alberi l'avevano ricoperta interamente e le case erano state trascinate in un turbine di vento e fiamme, sgretolandosi come fatte di carta. Mi asciugai gli occhi bagnati dalle lacrime a causa della polvere che saturava l'aria, mi bloccai inorridito e senza fiato...caddi a terra urlando e sbattendo i pugni sul cemento: dove una volta c'era Conter, ora c'era solo una forte luce. Lingue di fuoco vibravano di vita verso il cielo e l'aria era satura di terra. Niente di quello che c'era prima era rimasto in piedi.

    Mi toccai la ferita sulla gamba sinistra scoprendo un profondo taglio che disegnava un'orribile linea rossa, di venti centimetri, dal ginocchio fino al polpaccio, bruciava come fosse stata di lava; ma il dolore più grande era un altro: che fine avevano fatto i miei genitori?

    Barcollando mi rimisi in piedi stringendo forte i pugni sulla ferita cercando di controllare il respiro, ma il pianto a dirotto, muoveva la cassa toracica troppo velocemente: il mio stomaco si rivoltò e vomitai in preda alla disperazione. Mi lasciai cadere a terra osservando la pineta tetra e oscura alle mie spalle,in parte distrutta dalle bombe, illuminata dalla luce fioca e inquietante dell'esplosione che aveva riversato dei massi enormi sulla strada, poco lontano dalla zona abitata. Osservai l'orologio al polso bloccato alle 18:52, pochi istanti dopo l'esplosione, giusto prima che l'onda d'urto mi scaraventasse a terra ad almeno cinque metri più in là. I resti della mia casa erano sparsi per tutto il viale: mobili e ricordi erano stati spazzati e sparsi nella furia della distruzione. Sotto shock e intontito, urlai forte per il dolore quando tentai più volte di piegare la gamba con il solo risultato di far sgorgare più sangue dalla ferita. Riuscì a risalire lungo la strada che conduceva al sentiero tra i boschi, ai piedi della montagna; tra l'erba, resti di elettrodomestici e persino pezzi di metallo fumanti e quasi completamente anneriti dall'esplosione. Niente era rimasto intatto.

    La città e la montagna erano state inghiottite da un'esplosione devastante. Un barlume di lucidità mi diede la forza per reagire. Cercai tra i detriti qualcosa su cui appoggiarmi: i piccoli oggetti della vita quotidiana erano stati risparmiati dalla potenza dell'esplosione e rovistando nel fango, tra pezzi di legno e vetri rotti, riconobbi la mia borsa da palestra, a pochi passi dal garage; recuperai l'acqua ossigenata e l'alcool troppo importanti per poter essere lasciati lì, (l'istruttore consigliava sempre di portarli per curare tagli e ferite). Versai parte del liquido sulla lacerazione lasciandola asciugare completamente prima di muovere qualsiasi passo verso il sentiero.

    Approfittai della borsa e iniziai a riempirla con tutto quello che poteva tornarmi utile: forbici, coltelli, bende, bottiglie d'acqua, viveri, tutto ciò che, in qualche modo, l'esplosione aveva risparmiato. Dalla terra emerse un tubo d'acciaio fumante, forse un tubo dell'acqua, lo afferrai con forza assicurandomi che potesse sostenere il peso del mio corpo.

    Questo dovrebbe andar bene!.

    Alzai lo sguardo per caso oltre la zona abitata.

    A duecento metri, proprio alla fine della strada, in mezzo al fumo nero che la inghiottiva, qualcosa di grosso stava avanzando. Impugnai il coltello da cucina e mi nascosi dietro un pino dal tronco largo, miracolosamente, risparmiato dalla furia dell'esplosione. Voltai lo sguardo e tutto divenne chiaro e orribilmente reale. Prima i piedi, poi il corpo martoriato, il viso deturpato e orrendamente sfigurato dal sangue. Non era un gruppo. Era un'orda. Un'orda di esseri orribilmente deformati. Sembravano diretti verso la pineta. Il panico e il terrore ebbero la meglio: le gambe si fusero con il suolo, il cervello divenne incapace di qualsiasi pensiero, la mano tremava. Che diavolo stava succedendo?

    CAPITOLO 2

    L'odore di fiori si spandeva nell'aria, le grida di gioia dei bambini risuonavano come dolci campane nell'aria domenicale. I miei genitori accanto alla griglia con in mano una birra, tutti i nostri vicini a brindare con noi, non potevo chiedere i meglio.

    Guardai il paesaggio: la città risplendeva, riscaldata dal dolce calore del sole estivo; la pineta, luogo solitamente spaventoso, ora sorrideva allungando le punte degli alberi come a voler sfiorare il sole e trattenere più calore possibile.

    Tutto era perfetto. Osservai i miei amici, alcuni compagni di scuola, altri solamente vicini nonché parenti acquisiti. Sorrisi e lasciai che il caldo mi circondasse il viso; la mia pelle chiara, sembrava essere attraversata da raggi dorati; i capelli biondi lunghi si muovevano con il vento delicato che spirava sulla collinetta di fronte a casa.

    Nello schermo del cellulare vidi riflessi i miei occhi azzurri rendendomi conto di assomigliare più a mio padre che a mia madre: il viso, gli occhi i capelli, ogni cosa del mio corpo ricordava papà, ma il carattere, beh, il carattere era il trionfo più grande di mia madre, da sempre, ritenuto da lei, come un grande dono; ed era proprio per questo, che molti dei miei amici mi avevano soprannominato Il ritratto della Felicità, forse perchè nessuno di loro, in tanti anni, si ricordava di avermi mai visto arrabbiato.

    Alzai gli occhi al cielo e ritornai ad osservare il gruppo di persone nel nostro giardino.

    Papà conosceva un sacco di gente in città grazie al suo lavoro di rappresentate farmaceutico. Mamma invece lavorava in ospedale come infermiera. Sembrava che il destino li avesse voluti per forza insieme: erano felici nonostante gli anni, ben quindici di matrimonio, ma a quanto diceva nonno, erano innamorati come il primo giorno, come se il tempo fosse solo una cosa da poco. Mi tirai su dal prato e decisi di aggregarmi agli altri, quando mi si parò davanti Anthony, il mio migliore amico, compagno di mille disavventure a scuola e fuori

    <>.

    <>, risposi tirandogli un forte pugno sulla spalla.

    <>.

    <>. Scoppiammo a ridere fragorosamente.

    Anthony era il classico bravo ragazzo, palestrato, ordinato, viso pulito; era per queste sue particolarità che aveva fatto impazzire metà delle ragazze della scuola e l'altra metà era troppo timida per chiedergli un appuntamento.

    Anthony si stiracchiò allungando tutti i muscoli del braccio come un gatto in fase di stiracchiamento; si sistemò i capelli neri perfettamente pettinati e la t- shirt nera aderente che lo faceva apparire ancora più muscoloso.

    Mosse gli occhi neri in tutte le direzioni e si accarezzò l'accenno di barba, barba che aveva dell'incredibile visto che aveva la mia stessa età. <>, disse indicando un punto impreciso del giardino.<>.

    <>.<>.

    Prendemmo due piatti dal tavolo e ci avvicinammo passando fra la gente occupata e rallegrata dalle birre ghiacciate.

    <>. Papà sorrise portandosi la birra alla bocca, poi baciò mamma e sparì; in un paio di minuti ci riempì i piatti di costolette e patatine con ketchup.

    <>.

    <>. Sorrisi con la mia solita faccia da volpe, almeno così l'aveva ribattezzata mia madre: un nome semplice per indicare un'espressione del viso tipicamente mia, un modo sbrigativo per rispondere a domande senza neanche dover aprire la bocca, un vero e proprio marchio di fabbrica.

    Le panchine in legno, all'ombra della pineta ci stavano aspettando. Ci sedemmo pronti ad addentare la carne ancora fumante, impazienti di mettere qualcosa dentro lo stomaco di noi poveri adolescenti.

    <>, domandai a Tony guardandomi intorno.

    <>.

    Dalla curva della strada, una figura esile, aiutata da un stampella, ci stava raggiungendo un passo dopo l'altro.

    Si trattava di Maxwell, un altro mio compagno di classe nonché mio grandissimo amico.

    Mi alzai dal tavolo sfregando rumorosamente la pelle contro il legno grezzo della panchina umida.

    <>. Max sorrise timidamente trascinando più forte il piede e accelerando il passo.

    Purtroppo la natura con lui non era stata molto buona: all'età di dieci anni, una grave malattia, gli aveva tolto la possibilità di poter camminare senza l'ausilio di una stampella: la gamba destra si era paralizzata all'improvviso. Era stato in cura per anni ma alla fine aveva accettato la sua condizione, cosa che per altro, gli aveva procurato noie con i bulli che lo umiliavano a tal punto, da giungere alla violenza fisica, oltre a quella psicologica: più di una volta, ero stato costretto a difenderlo e a fare a botte, arrivando addirittura a una mega scazzottata con Anthony al mio fianco, nel parcheggio della scuola, con tanto di richiamo da parte dei professori e chiamata ai genitori. Eppure, rischiare di prenderle dai bulli, non mi aveva mai fatto indietreggiare né pentire per averlo protetto, poiché ero cosciente del fatto di aver trovato una persona speciale, leale e sincera. Inoltre, studiavamo spesso a casa mia e molte volte si fermava a cena per una partita alla play.

    Era una specie di genio: quello che la natura gli aveva tolto, l'intelletto glielo aveva restituito.

    Max si sedette vicino a Tony, salutandolo silenziosamente con un cenno del capo. I suoi occhi azzurri e grandi, si concentrarono sulla costoletta: il viso da folletto rideva pregustandone il sapore, poi si passò una mano fra i capelli castani corti e si sistemò la camicia azzurra in modo da non sporcarla.

    <>, chiesi addentando il sugoso pezzo di carne.

    <>.

    I genitori di Max avevano lottato tanto e in tante occasioni per difendere il proprio figlio, nessuno, meglio di loro, poteva sapere quanto avesse sofferto in passato. Max, prima di conoscere noi due, viveva in un mondo suo, un mondo isolato dal resto dei ragazzi della nostra età, lontano dalle parole violente e offensive che per tanti anni gli erano state rivolte.

    Lui tornava a casa e piangeva, maledicendo il giorno in cui aveva smesso di essere normale e fu proprio pochi giorni dopo che ci conoscemmo. In qualche modo, il suo handicap passò in secondo piano e cominciò a vivere sul serio; io ed Anthony, gli insegnammo che era meglio essere diversi che essere normali.

    <>.<>.

    <spaccato di matematica. Ho la testa piena di formule!>>.

    Max si pulì le mani sul tovagliolo di carta.

    <>.

    Sorrisi mimando un cappio al collo. <>.

    <>.

    Mi accorsi di non aver da bere, urgeva rimedio.

    <>, domandai allargando le mani sul tavolo.<>, risposero all'unisono.

    <>.<>.

    Scoppiai a ridere come un cretino: Tony aveva dimenticato cosa era successo due anni fa alla festa di un nostro amico.

    <>.

    <>. Annuì prontamente con il capo.

    <>.

    Percorsi la strada e raggiunsi il giardino notevolmente più affollato di prima: a giudicare dal numero di ragazzoni spallati alti due metri se non più, si era unita anche la squadra di football della nostra scuola, con cheerleader al seguito, quindi anche con Elizabeth, il loro capitano. Bellissima come sempre, vestita con scarpe da ginnastica, pantaloncini neri attillati e maglietta con il logo della scuola.

    Rimasi stupito pensando che nonostante fosse la ragazza più popolare della scuola, non avesse mai dato prova di essere cattiva o perfida, solitamente prerequisito fondamentale per ricoprire quel ruolo.

    Amavo le sue gambe chilometriche: ogni volta che potevo, rimanevo imbambolato ad osservarle come un uomo che contempla un'opera d'arte dopo averla realizzata.

    Un brivido mi percorse la schiena quando il suo sguardo glaciale incrociò il mio.

    Facendo finta di nulla, mi avvicinai al tavolo delle bevande, sfilai tre bicchieri di carta dalla pila di calici e li feci riempire dal tizio seduto oltre il lungo tavolo di legno, un amico di vecchia data di mio padre.

    <>. Elizabeth si avvicinò con passo deciso con in mano un bel bicchiere di coca.

    <>, risposi con un filo di voce, troppo concentrato a tenere i bicchieri dalla parte giusta per non rovesciarli.

    <>.

    Sorrisi come un idiota. Preso alla sprovvista da tutto il suo splendore, per poco non le rovesciai i bicchieri addosso.

    I suoi occhi azzurri mi scrutavano divertiti e incuriositi; si morse le labbra più di una volta sorridendo come una bambina; pensai che , di sicuro, una così non passava inosservata mentre io, invece, mi nascondevo tra la folla cercando di mimetizzarmi e di starmene tranquillo.

    Abitavamo praticamente a venti metri uno dall'altro e nonostante ciò, non conosceva il mio nome, io invece il suo lo sapevo a memoria: praticamente ogni giorno, passavo di fianco a casa sua con la bici e più di una volta mi era capitato di vederla uscire per prendere lo scuola bus, era quindi normale che mi soffermassi a leggere il cognome sulla cassetta della posta.

    <>.<>.<>.

    Sorrise sorseggiando un bicchiere di cola.

    <>.

    <>.

    <>.

    <>.

    Le cadde un po di coca sulla maglietta gialla. Involontariamente, il mio sguardo si posò sulla goccia, proprio al centro dei seni. Lei se ne accorse diventando rossa per la vergogna, io invece la trovavo adorabile.

    <>.<>, dissi stringendo i bicchieri ancora con più forza.

    <>.<>.

    Fece per girarsi, ma si fermò a guardarmi.<>.<>.

    Mi accorsi di averlo detto ad alta voce solo quando lei sorrise, arrossendo come una bambina.Caspita! Allora non sono del tutto imbranato con le ragazze! Aspetta che lo dica a papà!.

    CAPITOLO 3

    La gamba continuava a pulsare, il sangue si stava progressivamente coagulando, ma il vero problema era lì a poche decine di metri: quei cosi si muovevano fiutando l'aria, setacciando i rifiuti e chiamandosi ,l'un l'altro, con versi gutturali e profondi.

    La notte, in arrivo, faceva paura più che mai: era troppo buio e neanche i roghi ancora accesi in città, aiutavano ad affrontare l'oscurità della montagna che, come un gigante addormentato, sovrastava l'intera Conter.

    Non potevo muovere un passo, né cercare di fuggire, ero una preda facile troppo vicina ai predatori.

    Riposi il coltello nella borsa, saggiai le condizioni della mia gamba: forse ero in grado di muovermi, lentamente e con difficoltà sicuramente, ma parve la cosa migliore da fare piuttosto che lasciarsi attaccare da quei cosi.

    Senza perdere mai il contatto visivo, abbandonai l'ombra del pino e con calma e a fatica, guadagnai la strada.

    Stordito dal dolore e intontito dal fischio delle orecchie, dopo 'esplosione, diressi i miei passi verso il sentiero, pur non sapendo dove la via mi avrebbe condotto; l'unica cosa di cui ero sicuro, è che da quelle parti, persa nel bosco, si trovava una piccola baita, un vecchio luogo di ritrovo per molti ragazzi che avevano voglia di passare la notte nella natura incontaminata: fu costruita dal sindaco per un vecchio progetto di osservazione e catalogazione della fauna locale, ma ben presto , divenne un centro di ritrovo per gli adolescenti che avevano voglia di passare la notte a guardare le stelle. Circolavano molte storie sulla baita, storie di fantasmi e avvistamenti di ufo, ma in quel momento, costituiva l'equivalente di un'oasi nel deserto. Paranoico e angosciato, passai ogni secondo a guardarmi le spalle pregando che uno di quei cosi non mi trovasse: una scia scura brillava sull'asfalto umido, come una scia di olio sulla strada bagnata e fu proprio in quel momento che le mie paure si materializzarono: la gamba aveva ricominciato a sanguinare. Non mi rimaneva più tanto tempo.

    Per di più, la temperatura stava calando a picco repentinamente...potevo sentirlo sulla pelle e nelle

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