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Spegni questo ca**o di telefono
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E-book398 pagine5 ore

Spegni questo ca**o di telefono

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Info su questo ebook

Riprenditi il tuo tempo in un mondo che ogni giorno ti sommerge di str***ate

Negli ultimi anni, complice lo stop forzato della pandemia, in tanti abbiamo lasciato il lavoro, cambiato casa, dedicato più tempo a famiglia e hobby: potevamo finalmente essere onesti sui nostri problemi e dire ad alta voce cosa volevamo. Questa libertà, per Giulio Gambuto, aveva il potere di scuotere la società dalle fondamenta. Ma, sfortunatamente, non sarebbe durata a lungo: non ce lo avrebbero mai permesso. Per mandare avanti il mondo servono i nostri click, i nostri soldi, le nostre conversazioni, i nostri voti. Era necessario che tornassimo tutti “alla normalità”. Così, rieccoci al punto di partenza: stressati, insoddisfatti, ossessionati da impegni e deadline, reperibili a tutte le ore. Una via d’uscita c’è, e questo libro ce la mostra. Cancellare notifiche e messaggi indesiderati è solo il primo passo per liberarsi da abitudini, persone e comportamenti che ci impediscono di star bene. Una guida rivoluzionaria e piena di consigli pratici per sbarazzarci del trillo irritante dei seccatori e cominciare a vivere davvero.

«La nostra vita non è più piena di gioia, ma di str***ate. È tempo di cancellarle: dal tuo telefono, dalla tua casa, dalla tua testa.»

«Ho adorato questo libro. Ti aiuta a capire cosa vuoi davvero nella vita. E fa anche ridere!»

«Fresco, audace, va dritto al punto. Per favore, leggetelo tutti.»

«Il miglior libro in assoluto su questo argomento.»
Gulio Vincent Gambuto
È un autore e filmmaker statunitense. Laureato ad Harvard, ha scritto e diretto il film La squadra di Marco e lavorato come produttore e sceneggiatore per PBS, E! Entertainment, Goldwyn Films, New Yorker e molti altri. I suoi articoli sono letti in 98 Paesi da oltre 20 milioni di lettori. Spegni questo ca**o di telefono è il suo libro d’esordio.
LinguaItaliano
Data di uscita22 feb 2024
ISBN9788822782625
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    Anteprima del libro

    Spegni questo ca**o di telefono - Giulio Vincent Gambuto

    Benvenuti

    Benvenuti negli anni Venti. Ecco il messaggio che ho proiettato dal mio laptop allo schermo sulla parete. Una piccola decorazione digitale per accogliere il nuovo decennio. La mattina del 1° gennaio 2020, io e i miei amici ci siamo riuniti nel mio minuscolo appartamento di New York per un brunch: frutta, champagne, uova sode per chi mangia sano e soffici pancake per chi voleva rimandare ancora un po’ i buoni propositi, almeno quelli che vietavano l’assunzione di sciroppo d’acero. (I gay a volte sanno andare davvero nello specifico). Sono un nerd con amici nerd, quindi presto si è scatenato un dibattito: il 2020, per definizione, era l’ultimo degli anni Dieci o il primo degli anni Venti? Come potete immaginare, è stata una discussione accesa. A ogni modo, nel mondo stava iniziando un nuovo capitolo, ce lo sentivamo nelle ossa. Ci aspettavamo abiti da flapper e feste infinite, il futuro a tutto gas. E abbiamo brindato proprio a questo: al futuro.

    A dire il vero, nel momento in cui sollevavo la mia flûte a stelo alto, piena di champagne Crate & Barrel, ero già a corto di gas. Avevo passato gli ultimi quattro anni a fare la spola, con grande entusiasmo, tra Los Angeles e New York. Conducevo l’ambito stile di vita bicoastal che ogni produttore cinematografico e televisivo butta lì con spocchia odiosa nelle conversazioni (e anche nei libri, pare) all’interno dei ristoranti chic di WeHo e SoHo. Rimbalzavo qua e là come una pallina da ping pong sui voli della United Airlines, ed era tutto molto cool. Avevo comprato un cuscino da viaggio in memory foam. Avevo chiesto a Babbo Natale (me stesso) una valigia rigida Samsonite in nero spazzolato. Mi ero iscritto a

    clear

    , mi avevano scansionato la retina. Col passare dei mesi, il gioco delle miglia aeree non aveva più segreti per me, ero un esperto come i miei nipoti con Fortnite. A rendere possibile la mia missione c’erano però veri aerei e auto a noleggio, e anche la convinzione comune a tutti in America per cui ti sposti dove c’è lavoro. E io, proprio come i miei nipoti, volevo vincere. A ventidue anni la vita di fantasia a cui mi ero abbonato per la prima volta era l’epitome della vittoria. Era tutto molto romantico. A quarantadue anni, era diventato tutto molto faticoso.

    E poi il mondo si è fermato. E la mia vita è precipitata nel burrone.

    Ben presto, come miliardi di persone in tutto il mondo, mi sono ritrovato a immergere la mia roba nel disinfettante, a lasciare i pacchi a decontaminarsi all’ingresso, a evitare l’alito di ogni altro essere umano. Ve lo ricordate bene. C’eravate pure voi. Avete assistito alla follia che è seguita. Come tutti. In parole povere, è stato un disastro – un disastro che negli Stati Uniti ha ucciso più di un milione di persone.

    Siamo stufi di parlare di pandemia, lo capisco. Ma c’è ancora tanto da imparare dal Covid, lezioni fondamentali che si applicano direttamente al mondo odierno. Non è di questo che parla il libro, ma la pandemia sarà un punto di riferimento molto utile. Perciò in queste pagine ho deciso di darle un altro nome: il circo. È una scelta del tutto arbitraria, avrei potuto chiamarla la crisi, il microonde o il fenicottero blu. Solo non voglio che sentiate il peso della parola pandemia ogni volta che la leggete. In fondo i circhi sono pieni di divertimento e di numeri stupefacenti, e questo dovrebbe bastare ad alleggerire un po’ l’atmosfera. E nei circhi ci sono anche dei momenti che potremmo definire completamente fuori di testa, così non ci allontaneremo molto dalla realtà.

    Sono passati anni da quando il circo ha fatto fermare il mondo. Possiamo dire che il terremoto è finito?

    È difficile rispondere a questa domanda quando si sentono ancora le scosse, anche se piccole, quasi ovunque. Una cosa la so per certo, ovvero che tutti ci chiediamo quanto sia solido il terreno su cui poggiano i nostri piedi. E guardiamo al resto di questo decennio e di questo secolo con molta più chiarezza. Mmm, questo non è il futuro che ci avevano promesso. O quantomeno non è il futuro che credevamo di costruire col nostro duro lavoro. È una strana linea temporale alternativa in cui regnano la volatilità e il caos, in cui gli estremisti si sono impossessati del microfono, i cinici spadroneggiano e i robot prendono il sopravvento. Mmm, che cazzo è sta roba¹?

    Rompere. Sbroccare. È di questo che parla il libro. Del liberarsi, del recidere i legami e i vincoli che tengono in vita questa versione del futuro, forte e apparentemente indomabile, per poterne costruire un’altra, per noi stessi, per i nostri cari e per la nostra nazione, di cui essere veramente fieri. Una versione del futuro che ci faccia alzare dal letto pieni di energia e non di paura, che renda omaggio alla nostra umanità e non permetta agli stronzi senza cuore che abbiamo intorno di continuare a dare il peggio di sé. È ora di smettere di sentirsi in colpa perché vogliamo di meglio, ed è il momento di dirlo. Ad alta voce.

    Gli ultimi anni – da quella mattina di gennaio, passando per il circo e arrivando a oggi – ci hanno rivelato una potente verità che potrebbe cambiarci per sempre, se solo glielo permettessimo: tutto questo è una scelta. Sentite, vi capisco. Non è bello fermarsi a riflettere su questa frase. Non è bello accettare il fatto che siamo stati noi, nel complesso, a creare questo caos. È più facile dire che sono stati loro – inserite la vostra versione di loro. Ma mentre eravamo intrappolati in casa, le strade erano silenziose e il mondo fermo, abbiamo imparato dal circo che la società come la conosciamo è solo il risultato diretto di tutte le scelte che facciamo quando usciamo di casa o accendiamo gli schermi. E di tutte le decisioni che i nostri leader prendono per noi. Se smettiamo di fare le stesse scelte ancora e ancora, tutto si trasforma. Immediatamente. Lo abbiamo visto con i nostri occhi. Se riconoscessimo e accettassimo questo fatto, ci renderemmo conto di quanto potere abbiamo e sceglieremmo di creare un altro futuro, un futuro migliore, sia per noi stessi sia per gli altri.

    Io mi sono rifiutato per decenni di crearmi un futuro migliore perché credevo ciecamente che correre, non fermarsi mai, volare da una parte all’altra fosse il modo per raggiungere la felicità.

    Guardatemi! Ho successo!. Come ho detto, sono un nerd. Sono stato cresciuto con la convinzione di dover raggiungere un obiettivo, come se la felicità fosse un titolo di studio, un trofeo, un premio. Ecco la trappola in cui sono caduto (o in cui ho scelto di cadere) molto tempo fa. Era la mia versione personale del ciclo infinito, un concetto che approfondirò nel dettaglio più avanti. Parlo di un ciclo automatico di stress e ansia, un bisogno costante di lodi e conferme, un tapis roulant infinito. E così, a quarantadue anni, a quel brunch del primo dell’anno, ci sono arrivato circondato da amici ma solo, brindando con lo champagne ma sempre vergognandomi di quello che ero, ovvero un ragazzino della classe operaia, allegro e gay ma mai davvero orgoglioso. Ero, in una parola, infelice.

    Ma il circo mi ha preso a calci in culo. Forte. È stato orribile. Sono rimasto intrappolato nel mio appartamento da solo per sei mesi. I miei amici sono fuggiti in massa dalla città. La mia famiglia è rimasta in isolamento a un’ora di distanza da me. Non avevo uno stipendio. Ogni giorno i miei assegni venivano respinti. Cinque amici di famiglia sono morti. Diciotto membri della mia famiglia (sono italoamericano: diciotto sono solo i parenti stretti) hanno preso il Covid Originale tutti lo stesso giorno, a Natale del 2020. Il mio patrigno è rimasto da solo in ospedale per settimane, attaccato a un tubo per respirare. Io sono stato a riposo a letto per sei settimane, cercando di riprendermi da un’intensa letargia. L’uomo che ora è il mio fidanzato ha perso il fratello: è morto a quarant’anni, cinque giorni dopo aver contratto il virus. Un calcio, un calcio, un calcio.

    Intorno a me New York faceva i conti con una catastrofe di dimensioni insondabili. Al culmine della prima ondata del circo, la città perdeva mille persone al giorno. Adoriamo essere il centro dell’universo. Stavolta no. È stato straziante. Dopo cinque settimane, avevamo perso l’equivalente di tre 11 settembre. Alla fine, saremmo arrivati a quattordici (che pratica orribile usare l’11 settembre come moltiplicatore). Per mesi, nelle strade si sentivano solo ambulanze. Finché quelle stesse strade non sono state invase da manifestanti, sommosse e operai che hanno sprangato il negozio di Prada. Manhattan è diventata irriconoscibile, un luogo uscito da Mad Max. I negozi di alimentari assomigliavano a zone di guerra; guardie in uniforme presidiavano gli ingressi. Le porte delle metropolitane a Times Square si aprivano su piattaforme vuote. Auto, taxi e pendolari erano scomparsi. Desolata e depressa, la città che non dorme mai ha finalmente dormito.

    Questa non è una gara a chi ha sofferto di più. Per tutto il mondo è stata dura. Sto solo parlando della mia esperienza per farvi capire il mio punto di vista. Il circo è stato un disastro mondiale, ma qui c’è stata una certa intensità, creata dalla pura e semplice concentrazione della disperazione, che ha avuto effetti bizzarri su tutti noi. Sarebbe stato impossibile non uscire da questa esperienza come persone completamente diverse.

    C’è voluto l’arrivo del circo in città per farmi aprire gli occhi. C’è stato bisogno che il mondo si fermasse del tutto per svegliarmi. Ma va bene. È andata così.

    Ed è anche il modo in cui ho trovato la strada che mi ha portato a voi e a queste pagine.

    A un mese dall’inizio della crisi, il sole non tramontava mai abbastanza in fretta nel mio appartamento microscopico. Non appena i piatti della cena erano puliti (ehm, il piatto), mi mettevo a letto e lasciavo che l’oscurità del momento mi schiacciasse contro il cuscino come una mano pesante sulla schiena, abbandonandomi al peso della situazione.

    La mattina dopo, mi sarei svegliato e avrei avuto quei tre o quattro secondi felici di amnesia totale prima che il cervello completasse il download e un pensiero mi prendesse a schiaffi in faccia: Questo schifo non è finito. Mascherine. Distanziamento sociale. Feste di compleanno via zoom. Google riporta 33.578 morti negli Stati Uniti (un numero elevato all’epoca, pensate un po’). Ugh. Vertical. Caffè. Posta in arrivo.

    Ed eccola lì. Un’e-mail del mio rivenditore preferito.

    Saldi!.

    Mi ha colpito nel posto giusto, al momento giusto ed esattamente nel modo sbagliato. Solo poche settimane prima, questo particolare negozio di abbigliamento preppy da uomo rientrava nelle legioni di marchi che militarizzavano con educazione gli iscritti alle newsletter per spiegare al Paese cosa stavano facendo per minimizzare l’imminente crisi sanitaria. E insegnare a tutti come lavarsi le mani. Sapone. Acqua. A sinistra. A destra.

    Ma in quell’istante, come se fosse scattato un interruttore, le loro e-mail avevano ricominciato a parlare di affari: l’unico segnale del fatto che era trascorso del tempo era lo stile del maglione che potevi acquistare col 40 per cento di sconto.

    Uno sconto sui maglioni? È uno scherzo? Non si trova la carta igienica a Manhattan. Non riesco a pulirmi il culo, ma volete che clicchi e ordini un dolcevita in cashmere da trecento dollari? Come dite, la spedizione è gratuita? In qualsiasi altro momento mi sarei limitato a cancellare l’e-mail, ma quel giorno è andata diversamente. Quel giorno la loro e-mail mi ha scatenato dentro una rabbia pura. Avevo bisogno di caffeina e di una tastiera.

    Quello che è emerso dopo il caffè è stato un pezzo di cui sono immensamente orgoglioso: Prepare for the Ultimate Gaslighting, un saggio di duemila parole che ho pubblicato su Medium venerdì 10 aprile 2020. In quarantott’ore ha fatto il giro del mondo. A oggi, ha raggiunto ventun milioni di lettori in novantotto Paesi. Forse in mezzo ci siete anche voi, e voglio ringraziare chiunque l’abbia letto e condiviso. Sì, sono entusiasta della portata che ha avuto, ma soprattutto sono orgoglioso del messaggio che ho mandato: Forse questa crisi è l’occasione per riflettere profondamente su ciò che vogliamo veramente nella vita. È stata un’opportunità unica che non avrei mai voluto avere: dire quella cosa, in quel momento, a così tante persone.

    Il fatto di essere diventato virale mi ha lasciato di sasso. Sono rimasto sbalordito, onorato, molto rincuorato, e alla fine anche molto turbato. Si prova qualcosa di stranamente spirituale se milioni di persone leggono un pezzo che hai scritto davanti a yogurt e granola, mentre sei solo, arrabbiato e sconfortato nel tuo appartamento. Ha cambiato la mia prospettiva per sempre.

    Ciò che mi ha rincuorato è che non ero l’unico a chiedersi come il nostro sistema stesse rispondendo alla tragedia. Non ero l’unico a essere inorridito dalle disuguaglianze oltraggiose che erano state messe a nudo. Non ero l’unico a temere che il modo in cui ci stavano manipolando fosse sul punto di peggiorare. E parecchio. E non ero l’unico che voleva e che aveva bisogno di un cambiamento. Un grande cambiamento. Migliaia di persone mi hanno spedito messaggi di sostegno e di ringraziamento. Alcuni hanno trovato il mio indirizzo e-mail per mandarmi a quel paese. (A volte si vince, a volte si perde. La vita va avanti). Ma la maggior parte mi ha contattato per farmi una confessione discreta, una qualche versione di: Grazie, è stata una boccata d’aria fresca. Ne avevo bisogno. Per me le cose non vanno.

    Durante quel fine settimana e per tutti i mesi della Grande Pausa che seguì, continuava a emergere un pensiero comune: c’è qualcosa di profondamente sbagliato nelle nostre esistenze se ci siamo sentiti così sollevati quando tutto si è fermato. Il modo in cui viviamo è a rischio. E dato che sono un essere umano – un essere umano egocentrico – la questione mi riguarda. La mia vita è in pericolo.

    Così ho deciso di fare pulizia. Sono immunodepresso, non avrei lasciato il mio appartamento e non mi sarei tolto la mascherina finché non ci fossero stati dati sufficienti a dimostrare che sarei sopravvissuto. Avevo tempo a disposizione. Improvvisamente, ho preso piena consapevolezza del gaslighting da cui avevo messo in guardia tutti gli altri nel mio stesso saggio, e uno dei principali teatri in cui si sarebbe svolto il Grande ritorno americano alla normalità era lo schermo del mio portatile. Così ho aggredito la mia casella di posta elettronica, annullando gli abbonamenti a marchi, aziende, guru, influencer, gruppi, associazioni, comitati, campagne politiche, programmi di fidelizzazione, curate box mensili addebitate in automatico sul conto corrente con camicie a quadri che non dovevo stirare o infilarmi nei pantaloni, e qualsiasi altra cosa mi riempisse la casella di posta elettronica di spazzatura per tutto il giorno. Clic. Addio.

    Mi sono tornate in mente tre parole. Più di dieci anni prima, avevo sciolto l’unione civile con il mio ragazzo dopo cinque anni insieme. C’era amore ma non longevità. Per mesi, dopo aver lasciato il nostro appartamento di cinquanta metri quadrati, mi ero sentito senza radici, distrutto. Così mi ero buttato sul lavoro. Avevo inviato un e-blast (una parola relativamente nuova all’epoca) a una vasta lista di familiari, amici e contatti su un progetto che stavo lanciando. Il mio ex partner, che avevo mantenuto nella lista, mi aveva inviato una risposta rapida e breve: Annulla iscrizione, grazie!.

    Ero rimasto sconcertato. Lo conoscevo bene e sapevo cosa intendeva dire con quella richiesta lapidaria: Ho chiuso con le tue stronzate. La nostra relazione è finita. Non voglio più essere legato a te. Non mi fa bene. Mi rende infelice. Credevo che la firma dei documenti presso l’ufficio del cancelliere comunale avesse posto formalmente fine alla nostra relazione. Invece no. Quelle tre parole si erano rivelate molto più potenti. Era davvero finita.

    Nel 2020, bloccato dentro casa, mentre intorno a me interi sistemi fallivano e la mia casella di posta elettronica personale continuava a riempirsi, ho capito che anch’io ero stanco di essere abbonato a quel modo. Avevo bisogno di staccarmi, per davvero, da quasi tutto. Clic dopo clic. Annulla iscrizione, grazie!.

    Per prima cosa, mi sono cancellato da quelli che chiamerò abbonamenti di superficie, o stronzate di superficie e, dato che è stata una sensazione fantastica, ho deciso di andare oltre lo schermo e la carta. Ho deciso di disdire gli abbonamenti alle persone, alle stronzate degli amici tossici nella mia vita, allontanandomi o chiudendo alcune amicizie e relazioni di lavoro. Infine, e in modo molto più profondo, ho iniziato a disdire gli abbonamenti alle mie stronzate personali, gli abbonamenti di fondo, e cioè credenze e nozioni che avevo su di me – ad alcune ero abbonato da una vita intera, altre costituivano il fondamento stesso della mia identità e di chi ero al lavoro, con la mia famiglia, con i miei amici e nel mondo. Ho scoperto che, quando togli quel rumore incessante dallo schermo del tuo computer ed elimini persone che richiedono troppo impegno, hai davvero tempo per elaborare la tua vita. E sentirla. E metterla in discussione. E cambiarla.

    E sebbene ognuna di queste tre fasi fosse progressivamente più difficile della prima, mi sentivo via via più felice. Avevo capito una cosa importante. Non mi ero disfatto, mi ero alleggerito. Mi stavo liberando da anni di pressioni alle quali avevo cominciato a cedere. Sapevo che sotto tutto ciò c’era un uomo gioioso, pacifico, calmo (persino divertente). Dovevo solo tirarlo fuori da una vita di sabbie mobili – una vita a cui mi ero abbonato per decenni.

    Un processo iniziato con una serie di semplici clic del mouse ha sollevato un bellissimo polverone che ha messo in discussione ogni parte della persona che sono. Dei clic apparentemente senza senso sono stati il primo passo per reclamare la mia vita e viverla alle mie condizioni, rispettando il mio io autentico, senza nasconderlo. È stato anche il momento in cui ho iniziato in modo più distinto a vedere il mondo attraverso una lente collettiva, la lente del noi invece di quella dell’io. Quelle tre parole, che mi erano state inviate via e-mail un decennio prima e un tempo così pungenti, sono quindi diventate l’inno e il mantra dell’anno più importante della mia vita.

    In queste pagine parlerò di quel processo, del viaggio che ho intrapreso da quando ho deciso di annullare tutti gli abbonamenti, e gli darò il nome di disiscrizione. Alcune parti di questo processo sono state consapevoli: ho una formazione in marketing e branding, perciò sapevo cosa stava succedendo nella mia casella di posta e nelle mie finanze. Condividerò con voi questa esperienza. Altre parti invece sono state inconsapevoli, e sono stato in grado di identificarle e dargli un nome solo quando mi sono guardato indietro. Da narratore e regista, ho capito in seguito cosa stava accadendo nel mio cervello e nel mio cuore. Condividerò con voi queste riflessioni.

    Il mio progetto consiste nel creare un quadro di riferimento che permetta a tutti noi di disiscriverci, in modo da poter rinnovare veramente le nostre vite e crearci futuri felici, soddisfacenti, pieni di significato. È anche un appello radicale – da cittadino a cittadino – a mettere da parte ciò che ci divide e lavorare insieme per disiscriverci collettivamente, in modo da poter costruire un futuro altrettanto significativo per la nostra nazione.

    Il processo di disiscrizione è stato faticoso, divertente, a tratti devastante, ma profondamente gratificante. Ora non solo ho una casella di posta pulita, ma vado anche a letto consapevole della vera differenza tra ciò che mi serve e ciò che voglio. Il mio lavoro è dieci volte più soddisfacente. Il mio telefono è più silenzioso. Nella mia agenda ho solo impegni che mi danno gioia o denaro. Ho tempo per i miei cari, per i loro compleanni e momenti speciali. Ho trovato l’amore dopo dieci anni di vita da single. Per la prima volta da quando sono diventato adulto ho una vita domestica accogliente, gentile e confortevole. E quello che sembrava un sogno lontano durante quel brunch di Capodanno – avere una famiglia tutta mia – ora è un vero progetto in cantiere.

    Se pensate che stia dipingendo un quadro troppo roseo, ricordatevi una cosa: continuo ad annullare abbonamenti, ogni giorno. È una pratica continua, che si accompagna a continui sbalzi mentali ed emotivi. Più si va a fondo, più si cambia, più diventa difficile. A volte è come la migliore lezione di yoga della vostra vita. E a volte è una frustrante partita a Schiaccia la Talpa. Per prima cosa, bisogna togliersi dalla testa l’idea di dover fare questo processo nel modo giusto. Perché è il processo stesso che richiede di sbagliare, e spesso. Di allontanarci dall’idea di dover vincere sempre. Di accogliere il fallimento, di andare a bere un caffè o un drink con la delusione.

    Alcune note importanti. Prima di tutto, mi rendo conto di quanto sia ironico tutto questo. Se non mi fossi iscritto a Facebook, Medium e alla newsletter di J. Crew, non vi sarebbe mai arrivato un libro sull’importanza di annullare gli abbonamenti. Senza molti degli strumenti digitali che criticherò, il mio editore non avrebbe potuto raggiungere i lettori – e nemmeno me – per presentarvelo. Come vedrete, si tratta di una conversazione complicata.

    Secondo, riconosco che non tutti hanno avuto il privilegio di restare soli durante il circo. Non fraintendetemi: sotto molti punti di vista, è stato straniante e angoscioso. Come Tom Hanks con il pallone Wilson, ormai anche io chiamo Larry la lampada di metà Novecento che ho in salotto (colei che portava luce quando la situazione si faceva scura). In fin dei conti ero responsabile solo di me stesso. Chi aveva famiglia, figli, genitori anziani e un lavoro che non contemplava la possibilità dello smartworking ha avuto un’esperienza molto diversa. Sì, parlo di molte persone. Forse anche voi. Forse sulla carta abbiamo poco in comune. Ma siamo tutti esseri umani che, in ultima analisi, vogliono solo essere felici. E vivere in una società che funzioni bene. Sono un cittadino come voi. Sono un consumatore. Sono un cliente. Sono un paziente. Sono un elettore. Sono un abbonato. Anch’io voglio urlare quando chiamo il servizio clienti di Verizon.

    Mentre discutiamo di tutto ciò che è noi, sappiate che questo libro non è stato concepito per essere politico, almeno non nei modi in cui abbiamo definito la politica negli ultimi anni in America: una sanguinolenta contesa iperfaziosa. Non riuscirò a nascondere da che parte della barricata mi schiero, né ho intenzione di farlo. Ma ammettiamolo: siamo tutti esausti. Voglio assicurarvi che, se siete esseri umani e vivete in questo momento storico, io sono dalla vostra parte. Se volete un Paese e un mondo migliori dopo il caos di questi anni, io sono dalla vostra parte. Se siete stanchi del rumore e stufi delle stronzate che tutti siamo costretti a sentire, elaborare e gestire ogni giorno, io faccio parte della vostra stessa tribù.

    Ed è una tribù globale. Questo libro non è destinato solo a chi vive negli Stati Uniti. Lo stile di vita americano, il sistema economico, l’ossessione consumistica, gli ideali democratici, persino Ross, Rachel, Chandler, Monica, Joey e Phoebe sono cose impossibili da evitare in gran parte del mondo. Spero quindi che i nostri amici internazionali sappiano che ci sono americani ben intenzionati che fanno domande importanti e cercano di cambiare il loro Paese e lo stile di vita che esporta. Spero anche che i nostri amici internazionali possano trarre da queste pagine la sconfinata fiducia in sé stessi degli americani. Siamo in grado di cambiare le nostre vite e il nostro Paese, se raduniamo la volontà personale e politica di farlo. Forse storcete la bocca quando facciamo chiasso al Louvre, ma siamo un popolo audace che sa come ottenere ciò che vuole. Siamo anche un popolo buono. Ma il sistema in cui viviamo ha bisogno di grossi miglioramenti.

    Questo libro è un mix di istruzioni, commenti sociali, storia, economia, filosofia e strategie pratiche per raggiungere la felicità individuale e collettiva. Quindi, prima di iniziare, voglio che sappiate qual è la mia storia. Ho l’impressione che la vostra potrebbe essere simile.

    Sono cresciuto nei sobborghi di New York, figlio di un autista di scuolabus e di una segretaria, a Staten Island. Negli anni Novanta, nella nostra South Shore, i colletti erano blu, la politica era rossa e la gente era bianca, per lo più italiana ed ebrea. I miei genitori erano figli di immigrati. Non avevamo soldi. Siamo cresciuti a forza di sussidi, maccheroni e amore.

    Mamma e papà lavoravano instancabilmente per sbarcare il lunario nel nostro appartamentino. Mio padre faceva la spola ogni giorno dall’impiego a tempo pieno (autista di bus) a quello part-time (panettiere italiano) a un terzo impiego (questo cambiava spesso). Dopo mezzi pubblici, lavoro, altri mezzi pubblici, mia madre trascinava la pesante Smith Corona del suo capo dal bagagliaio della Pontiac fino a casa, per poter fare gli straordinari al tavolo della cucina dopo cena. Ma la crescente pressione economica degli anni Ottanta e Novanta era troppo forte. Il punto di rottura è stato dover mettere l’apparecchio per i denti a tre figli. Dopo quattro piccole imprese, una bancarotta rovinosa, il coming out di un figlio, un terribile spavento per il cancro e più litigi domestici di quanti ne voglia ricordare (tutte storie per un’altra volta), il castello di carte è crollato, insieme al matrimonio dei miei. Mio nonno era arrivato qui da una città italiana famosa per la produzione di latte nel 1946. La vita della nostra famiglia doveva essere il sogno americano. Nel 1997, era l’incubo americano.

    Quello che ha permesso a me (e a tutti noi) di farcela è stata un’incessante attenzione al futuro. Il futuro era il momento in cui tutto sarebbe andato bene, in cui ne sarebbe valsa la pena. Nel futuro sarei stato felice. E al sicuro. Ah, anche ricco. All’epoca non sapevo che era questo a farmi andare avanti, ma ero figlio degli anni di Clinton. Diventare milionario era l’obiettivo finale – il successo finale –, soprattutto quando i tuoi genitori litigavano ogni notte per il conto in banca.

    Nonostante le sfide di quel periodo, e con l’aiuto e il sostegno di una squadra di familiari, insegnanti, mentori e amici, quel bambino che negli anni Settanta era inserito in programmi di assistenza alimentare è arrivato a Harvard, dove ha studiato insieme agli straricchi: smoking, polo e tutto il resto. (Ancora non so giocare a golf). La mia vita di adesso non assomiglia affatto a quella che abbiamo avuto io e le mie sorelle crescendo.

    Prendere l’ascensore sociale è stato un privilegio. Mi ha concesso l’opportunità di sperimentare i due stili di vita opposti di una nazione molto ampia. E per dirla in modo semplice, non è tutto oro quello che luccica. Ho visto i lati oscuri della ricchezza: ti ritaglia uno spazio per fare del bene nel mondo ma ti richiede di elemosinare, dà ma accumula, storce il naso quando è costretta a considerare coloro che non hanno niente, e semplicemente non può – e a volte non vuole – comprendere i bisogni e i desideri quotidiani di tutti.

    Conosco anche la sua grazia e generosità, la capacità di pensare in grande e agire con vigore. Ho visto la sua lungimiranza e la sua energia instancabile. Ho conosciuto la sua gentilezza e il suo inflessibile sostegno. I ricchi mi hanno insegnato che da un grande privilegio derivano grandi responsabilità. E ho imparato che in inglese la parola summer, estate, è anche un verbo.

    All’altro estremo dello spettro economico, ho conosciuto il fascino entusiasta degli immigrati e dei lavoratori, ma anche i loro spigoli, il modo in cui vogliono includere, elevare e celebrare, ma anche come sono pronti a cancellare quel sentimento di orgoglio nei vostri riguardi e nei riguardi di sé stessi se dimenticate le vostre origini. Conosco in prima persona la loro grinta, la loro determinazione e il sudore che versano. Ho grande familiarità con il loro amore sconfinato, le braccia aperte del loro infinito sostegno e della loro fede, la dedizione alla comunità senza secondi fini, con l’unico scopo di sostenere, senza chiedere un centesimo in cambio.

    Ho visto anche la loro paura, la speranza, il desiderio di avere di più, di essere rispettati, di ottenere un semplice posto a tavola.

    Dai custodi ai membri del Congresso e viceversa, in tutte le comunità di cui ho avuto il privilegio di fare parte, e in tutte le tavole a cui mi sono seduto, ci sono i buoni e cattivi, le uova sane e le uova marce.

    Sono anche gay, e questo aggiunge una sfumatura del tutto diversa al mio punto di vista.

    Nei momenti più alti della mia carriera, ho

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