In cerca di guai
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Info su questo ebook
Nell'opera si possono scorgere le tracce della narrativa Hard Boiled, Fantasy, Horror, di Avventura, esistenziale, Noir, onirica, allegorica, ed è presente anche una sorta di fiaba africana rivisitata e occidentalizzata. Il tutto condito con uno stile più incentrato sul mostrare che sul raccontare, fatto di dialoghi secchi e descrizioni dinamiche.
Il filo conduttore di “In cerca di guai” è costituito dalla fuga dei protagonisti da una realtà contingente che li sta soffocando, da sistemi di riferimento e orizzonti di senso ormai obsoleti e asfissianti. In questo quadro la ricerca di guai rappresenta un salto nel buio, nel mistero, nel baratro del rischio. E quindi tale ricerca di guai si configura come un istinto vitale a mettersi in gioco, unica arma per ritornare a sentirci vivi nelle nostre esistenze. Alcuni dei protagonisti opteranno per una fuga onirica, qualcun altro si ritroverà a fuggire materialmente, altri ancora affronteranno direttamente la morte a viso aperto. E tutti, nessuno escluso, si metteranno nei guai per cavarsi dalla situazione in cui si trovano. Qualcuno riuscirà a salvare la pelle, l'anima e la propria sanità mentale. Qualcun altro fallirà.
Chi leggerà vedrà.
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Anteprima del libro
In cerca di guai - Francesco Zampacavallo
IN CERCA DI GUAI
di Francesco Zampacavallo
Dipinto in copertina del pittore Lorenzo D'Alicandro
Prima edizione: marzo 2019
Tutti i diritti riservati 2019 BERTONI EDITORE
Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana
Bertoni Editore
www.bertonieditore.com
info@bertonieditore.com
È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi
mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.
Francesco Zampacavallo
IN CERCA
DI GUAI
A babbo Leone, a mamma Anna,
a mia sorella Giulia e a un mio grande amico
che sta riemergendo dal pozzo di guai
in cui era andato a tuffarsi
PADRE
«Viviamo su una placida isola d'ignoranza in mezzo a neri mari d'infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano...»
(H.P. Lovecraft – Il richiamo di Cthulu)
Come ogni dannato giorno erano salpati dall'Isla Contadora alle sette del mattino per andare a pescare, e adesso, cinque ore dopo, non riuscivano più a tornare a casa. Il navigatore satellitare era fuori uso, l'ago della bussola girava a vuoto e i telefoni non davano più segni di vita. Erano nella merda fino al collo, insomma.
«Non c'è un altro modo per orientarsi? Che so, la posizione del sole, dei pianeti, delle stelle...»
«È giorno, figliolo. E anche se fosse sera non ho idea di come si possa fare una roba del genere. Il satellitare. Io mi sono sempre affidato a quello.»
«Le carte nautiche. Le hai?»
«Mai sapute leggere.»
«Andiamo bene.»
«Adesso sparo un razzo di segnalazione.»
«Di giorno!?»
«Ne ho quattro. Proviamo», disse Gualberto. Tirò fuori una scatola arancione dal vano sotto al timone, la aprì e prese la pistola lanciarazzi. Poi raggiunsero la prua dello yacht. Gualberto caricò la pistola e armò il colpo, divaricò le gambe stringendola a due mani sopra la testa e fece partire il razzo. L'unico risultato che ottenne fu un puntino luminoso e sfarfallante nel cielo come un fuoco fatuo.
Stefano scosse la testa. «È inutile, pa'.» Sfilò una Marlboro dal pacchetto e incominciò a fumare rimirando il paesaggio.
Il mare si estendeva all'infinito oltre la prua, placido e sonnolento, talmente immobile da sembrare finto. L'acqua era così limpida e cristallina che si aveva l'impressione di galleggiare nell'aria. I pesci tropicali volavano nel loro habitat paradisiaco e l'ombra dello yacht si proiettava sul fondale profondo una cinquantina di metri. Se al posto di quell'imbecille ci fosse stata una bella ragazza avrebbe anche potuto ritenerla un'avventura stimolante, in fin dei conti. Ma ormai era lì e con i se poteva anche pulircisi le chiappe.
«Laggiù. C'è qualcosa.» Gualberto aveva riposto la pistola nella custodia e se ne stava a guardare l'orizzonte attraverso le lenti del binocolo. «Ha tutto l'aspetto di una piroga. Devono aver visto il razzo. Prendimi il Remington e la cartucciera. Sottocoperta. Sono nello sportello sopra al lavandino.»
«Cos'è, hai intenzione di farli fuori?»
«È solo per precauzione, figliolo.»
«Bah, mai sentito di pirati su una piroga.»
«In queste zone è pieno di negri poveri. E ai poveri, e per giunta negri, non si sa mai ciò che può passargli per la testa. Adesso fai quello che ti ho detto. Sono io il comandante di questa nave.»
«Agli ordini», disse Stefano. Scese sottocoperta, prese fucile e cartucciera e tornò a prua. Consegnò il tutto al padre e lo guardò prepararsi alla guerra.
Gualberto si mise la cartucciera a tracollo e incominciò a infilare le cartucce nel serbatoio. «Questi sono pallettoni esplosivi, figliolo. Se provano a farci qualcosa li faccio saltare in aria. In sostanza è come se gli tirassi una granata. L'effetto, intendo.»
A quelle parole Stefano dovette impegnarsi per trattenere una sonora risata. Impossibile non trovarlo ridicolo vestito in quel modo: pantaloni di lino bianchi, camicia hawaiana aperta che lasciava spuntare il ventre gonfio di birra, whisky e Martini Dry, un panama calcato in testa e Ray-ban a specchio. E con la bandoliera e il fucile a pompa, sembrava uno strano incrocio fra Donald Trump, Steven Seagal ed Elvis Presley a fine carriera. E se possibile anche un tantino più squallido.
«Almeno il porto d'armi, l'hai preso?»
«Scherzi? Siamo in sud America.»
«Di bene in meglio.»
«Sta' tranquillo, figliolo. È solo una precauzione finché non mi costringono a usarlo.»
«Spero che tu sappia quello che stai facendo.»
«Abbi fiducia del tuo vecchio, una volta tanto.»
Stefano scosse la testa e non rispose. Si stava chiedendo come poteva avere fiducia in un padre indegno di meritarsela, un padre che, dopo essere stato sorpreso dalla moglie a braghe calate e il cazzo nella bocca della sua segretaria ventenne quando Stefano aveva solo cinque anni, aveva firmato i documenti per il divorzio senza battere ciglio ed era sparito dalle loro vite. Poi, come se nulla fosse, si era rifatto vivo quando il figlio aveva diciott'anni solo per chiedergli il permesso di intestargli una società fittizia.
E poi c'era stata la crisi finanziaria, la gallina dalle uova d'oro, di cui Gualberto aveva approfittato speculando in borsa, arrivando ad accumulare diversi milioni di euro in poco tempo. Nei dieci anni successivi aveva investito i capitali in giro per il mondo, per lo più nel settore immobiliare dei paesi emergenti, in modo da accrescere la sua fortuna in maniera spropositata.
Alla fine della fiera se ne era andato in pensione con un conto in banca da capogiro, e solo a quel punto si era ricordato di avere un figlio che praticamente non conosceva al quale aveva intestato una società nonostante il suo dissenso. E così l'imbecille, da alcuni mesi a questa parte, aveva preso l'abitudine di chiamarlo una volta alla settimana per proporgli quella dannata vacanza in cui si trovava immischiato in questo momento.
Per un attimo Stefano pensò che quella sarebbe stata la situazione perfetta per sistemare le cose con l'uomo che lo aveva messo al mondo, in maniera definitiva. Bastava prendergli il fucile, puntarglielo contro e premere il grilletto. Sarebbe esploso senza nemmeno dargli la seccatura di dover nascondere il cadavere. Alzò lo sguardo e scacciò quel proposito dalla mente. Non puoi fare una cosa del genere. È pur sempre tuo padre.
«Non c'è nessuno a bordo», disse Gualberto.
Stefano gettò in acqua il mozzicone di sigaretta, portò una mano alla fronte per ripararsi dal sole e sollevò l'indice. «Ti sbagli, pa'. Guarda meglio.»
La piroga si incastrò dolcemente sulla prua dello yacht. Due corpi mummificati parevano incollati alla piccola imbarcazione, come se ne facessero parte. Uno era disteso a pancia all'aria con le braccia conserte, la bocca aperta e gli occhi sbarrati. L'altro, quello a prua, era inginocchiato con le braccia sporte in avanti e le mani a coppa a sorreggere un oggetto intagliato nel legno scuro, quasi nero. Entrambi rigidi come pietre, grigiastri e ricoperti di alghe marine, cozze e coralli. Impossibile dire se fossero selvaggi o meno.
«Merda, pa'. Sono mummificati, 'sti due.»
«Mai vista una roba del genere in vita mia.» Gualberto cacciò di tasca un foulard e se lo passò sulla fronte imperlata di sudore. «Adesso faccio marcia indietro e ce li togliamo di dosso.»
«Aspetta, pa'. Fammi prendere quella roba che tiene in mano. Sembra un manufatto. Magari è di qualche valore.»
«Basta che muovi il culo. Quella bagnarola si tiene a galla per miracolo.»
Stefano si appese alla ringhiera dello yacht e scese nella piroga. Si chinò davanti alla mummia e strappò il manufatto, e le mani che lo sorreggevano si polverizzarono all'istante.
«Scusami tanto», disse. Si alzò in piedi, passò l'oggetto al padre e tornò a bordo.
Gualberto gli porse il manufatto. «Sembra un mostro quest'affare.»
Stefano lo afferrò e se lo rigirò tra le mani.
Era una statuetta di circa trenta centimetri, lavorata in una materia lucida e scivolosa che sembrava un’amalgama di pietra e legno. Venature d'oro correvano lungo la superficie verdastra, tendente al nero, e pulsavano di tanto in tanto. Sembrava un mostro vagamente antropomorfo, con una testa di piovra, il corpo di drago e ali da pipistrello. Il volto era costituito da una massa di tentacoli sensori e gli arti, gonfi e nodosi, erano foderati di squame e scaglie sporgenti. Le zampe anteriori e posteriori culminavano con dei lunghi e spessi artigli aggrappati al bordo del piedistallo, e dalla schiena spuntavano le ali lunghe e strette.
«Vado ad accendere i motori. Proviamo ad andare nella direzione da cui proveniva la piroga. Magari laggiù c'è della terraferma.»
Stefano non rispose. Continuò a osservare la creatura immonda con sentimenti contrastanti che gli si agitavano nel cuore e nel cervello, un misto di attrazione e repulsione. Ma c'era qualcos'altro. Quel mostro aveva un aspetto familiare. Sì, l'aveva già visto da qualche parte.
Ne era sicuro.
All’improvviso gli baluginò nella mente la visione inaudita e sconvolgente che aveva avuto in sogno tre giorni prima, quando si era addormentato sottocoperta, un litro di vino in corpo, mentre il padre chiacchierava con i suoi amici miliardari sul ponte dello yacht.
Mura ciclopiche, megaliti sghembi e obelischi giganteschi si ammonticchiavano l'uno sull'altro senza soluzione di continuità fino a formare una città-cimitero di un altro mondo o dimensione. La pietra scura di cui erano fatti quei blocchi immensi, viscida e fangosa, era foderata di escrescenze violacee e verdastre e da geroglifici indecifrabili. Esalazioni gassose si levavano da quel labirinto alieno come geyser, sprigionando miasmi irrespirabili: un mix di pesce marcio, carne putrefatta, urina, merda e vomito. E su tutto ciò incombeva un'enorme creatura, la stessa raffigurata sul manufatto. Faceva tremare la terra a ogni passo mentre incedeva verso il tempio posto alla base di un immenso obelisco. Poi la porta del tempio si apriva lentamente rivelando un interno più buio della morte. Un buio materico, vivo, che avvolgeva il mostro con i suoi tentacoli e lo faceva scomparire nelle viscere del tempio.
Fine del sogno.
Più di così non ricordava. Con ogni probabilità si era svegliato a quel punto dell'incubo, oppure la sua mente aveva rimosso qualcosa che poteva destabilizzarla. E adesso un oscuro presentimento