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La penultima spiaggia
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E-book645 pagine8 ore

La penultima spiaggia

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Info su questo ebook

Perché uomini e donne si cercano sempre con tanta caparbietà? E perché, di là dalle apparenze, è tanto difficile che riescano davvero a incontrarsi? Che cosa significa oggi, oggi più che mai, essere uomini o essere donne? E quali sono le qualità essenziali e irrinunciabili che ci contraddistinguono gli uni dalle altre? Sesso, Eros e amore sono esperienze così diverse? Quando e come l'uno sconfina e trasmuta nell'altro? Oggi, nell'epoca del consumo frenetico e compulsivo di ogni cosa, è realizzabile l'amore fedele e duraturo? E a cosa allude la sua realizzazione? A queste e ad altre cruciali domande si diverte a rispondere l'autore di questo romanzo che occulta così, nelle vicende dei suoi personaggi, le conoscenze maturate in quarant'anni di attività psicoterapica. Il romanzo, infatti, e non a caso, ruota intorno all'incontro fortuito tra una giovane donna, Sara Fabriani, e un anziano "strizzacervelli" - molto più folle che saggio, almeno all'apparenza - ritiratosi a vita privata in una casetta prospiciente una spiaggia del Tirreno, in una zona residenziale vicino Roma. Sara ha ventotto anni, è stata abbandonata dal padre quando ne aveva sei, è in contrasto con la propria madre, si è laureata in letteratura moderna, fa la cameriera in un pub, è schiava di una travolgente storia d'amore con un uomo sposato e soffre di sporadici attacchi di bulimia, seguiti da vomito compulsivo. L'anziano psicoanalista - che lei incontrerà sempre sulla spiaggia, in condizioni di confine tra l'assurdo e il ridicolo - sembrerà ogni volta giocare con lei, come il gatto col topo, ma in realtà, pur senza darlo a vedere, la guiderà a scoprire l'origine delle sue nevrosi e a trovare un'autentica centralità. La storia è raccontata da una voce narrante che, in maniera distaccata ed equanime, descrive le caratteristiche psicologiche e i moventi dei vari personaggi.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2020
ISBN9788835823988
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    Anteprima del libro

    La penultima spiaggia - Piero Priorini

    LA PENULTIMA SPIAGGIA

    di Piero Priorini

    Prima edizione: marzo 2018

    Tutti i diritti riservati 2018 BERTONI EDITORE

    Via G. Rossa - Zona Ind. S. Sabina, Perugia (Pg)           

              Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com          

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi 

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Piero Priorini

    LA PENULTIMA 

    SPIAGGIA

    Dove il Femminile e il Maschile si incontrano

    Alla Donna,

    a tutte le donne,

    alla mia donna

    che tutte le riassume

    I

    ICONA FAMILIARE

    Il cellulare appoggiato con cura sul comodino, il più vicino possibile al cuscino sotto il quale Sara, dormendo, era solita nascondere la testa, dapprima prese a vibrare, e quasi nello stesso istante, si illuminò e lasciò partire uno squillo acuto. Sullo schermo verdognolo apparve la scritta LAMOREMIO. Non arrivò a squillare una seconda volta: Sara lo afferrò alla cieca e in un battibaleno aveva già risposto: «Tesoro!»

    «Sara piccola mia, dormivi?», pronunciò incerta una voce maschile.

    «Facevo finta, Luca. Per ingannare l’attesa. L’attesa di te».

    «Uhm… Sara, amore», tentennò la voce dall’altra parte.

    «Luca, cosa c’è?», incalzò subito ansiosa la voce di lei.

    «Oddio tesoro, ti chiedo scusa, ma dobbiamo rimandare! Ti prego, adesso non t’infuriare».

    Una pausa di silenzio ingombrante sembrò congelare il tempo.

    «Non ci posso credere», sussurrò lei, più incredula, smarrita e addolorata che arrabbiata. «Non ci voglio credere. Luca! È la terza volta di seguito. Doveva essere il nostro fine settimana speciale. Dopo tanto tempo».

    «Lo so bene. Hai tutte le ragioni, ma…», azzardò la voce morbida e accomodante di Luca. 

    «Ti prego stai zitto», gemette Sara.

    Ancora un lungo e vischioso silenzio sembrò bloccare le loro parole, sospendendole fuori dal tempo, arrestandone la vita, come fa l’ambra quando, lacrimando silenziosa lungo il tronco dell’albero, imprigiona gli insetti che si sono posati incauti sulla sua traiettoria.

    «Me l’avevi giurato! Mi avevi giurato che nessuno al mondo, almeno questa volta, avrebbe potuto impedirti di passare tre giorni con me», piagnucolò lei, tirando su con il naso.

    «Sara, hai ragione! Non mi sono dimenticato. Ero sicuro quando l’ho promesso, ma Valentina ha una prova di ammissione per quella scuola speciale di danza e…»

    «Valentinaaaa?», urlò Sara, cogliendo Luca di sorpresa. «Valentina. Già, Valentina! Ma almeno stai zitto, non mi dire nulla. Inventati che tua moglie sospetta che hai un’amante, che hai un cliente importante che esige la tua presenza pure in questi giorni di festa. Dimmi quello che cazzo vuoi, ma non sempre Valentina».

    «Non capisco perché fai così, che importanza può avere?»

    «Perché io non ho armi contro tua figlia. Posso sperare di competere con tua moglie, con un’altra amante, con il tuo lavoro. Ma non contro tua figlia».

    «Ma perché mai dovresti competere con lei? Ma cosa dici? Io ti amo con tutta l’anima, ti considero la mia donna e non spero altro che di poter vivere con te. Un giorno…»

    «Ecco appunto. Ma quale giorno? Quale?»

    «Appena Valentina sarà più grande. Tra qualche anno. Tre, forse quattro».

    «Perché mi racconti tutte queste bugie», i singhiozzi di Sara, oramai, erano incontenibili: «Perché? Dovevamo andare via tre giorni. Tre soli giorni dopo tanti mesi. Io e te, da soli. Cosa vuoi da me? Perché non mi lasci perdere?»

    «Sara, ti prego, calmati! Non fare così. Ti prego, amore mio, lo sai che ti amo, e magari la prossima settimana…»

    «Non sarà la stessa cosa. Non ci sarà più un altro ponte con il venerdì festivo. E magari ci vedremo come al solito, domenica pomeriggio, durante l’orario della partita. Mi porterai nella casa di qualche tuo amico compiacente, mi scoperai, e te ne andrai subito dopo giurandomi amore eterno».

    «Non mi offendere, Sara. Non ti permettere. Conosci le ragioni che mi impediscono di dedicare a te tutto il mio tempo libero. Non voglio fare del male a Riccardo e a Valentina. Tutto qui!», la zittì Luca alzando la voce.

    «Certo. Tutto qui! Solo tutto qui. Ma perché non mi lasci in pace, Luca, perché non sparisci dalla mia vita?»

    E così dicendo Sara staccò la comunicazione. Non passarono neanche dieci secondi che il cellulare riprese a suonare. Sara lo lasciò squillare senza rispondere e, alla fine, tirando su col naso e singhiozzando in maniera irrefrenabile, lo spense del tutto.

    Ma in cuor suo sapeva che non era finita. Luca avrebbe continuato a cercarla, tutti i giorni, per giorni e giorni, e lei, prima o poi, avrebbe risposto. Allora avrebbero ripreso a litigare, finché lui non avrebbe trovato il modo di placarla, di consolarla, di rassicurarla, di ridarle speranza e fiducia e lo avrebbe rivisto, lo avrebbe perdonato, avrebbe sentito prepotente il desiderio di lui e avrebbero fatto l’amore con quell’intensità che, in effetti, solo con Luca lei aveva sperimentato. E tutto sarebbe ricominciato da capo: gli appuntamenti segreti, il tempo rubato, le telefonate in codice, gli incontri occasionali. Promesse, giuramenti, sparizioni improvvise più o meno giustificate, rassicurazioni, brevi o lunghe assenze, distacchi, riavvicinamenti, pianti, urla, disperazione. Perché era capitato a lei? Perché quell’amore era irrinunciabile? Perché le sembrava unico, necessario, sacrosanto, inalienabile? Nessuna delle sue precedenti storie aveva mai assunto quelle caratteristiche. Per quanto trasgressive, divertenti o passionali fossero state, nessuna mai le era sembrata irrinunciabile. E da ognuna di queste, quando lo aveva ritenuto opportuno, si era allontanata: con qualche piagnucolio, con brevi momenti di tristezza o di rimpianto, qualche volta con rabbia. Ma anche con fiducia in quello che il futuro le avrebbe riservato.

    Certo, nessuno dei suoi precedenti amori era stato così contraddittorio. Così delicato e spietato nello stesso tempo, così  dolce e così amaro, così mite e  così ribelle. Contro ogni logica, contro ogni ragionevole aspettativa. Luca era sposato da quindici anni e aveva due figli: Riccardo di undici e Valentina di otto. Era innamoratissimo di entrambi e non avrebbe mai voluto provocare loro alcun dolore.

    Cosa ci stava a fare lei con quell’uomo? Quanto avrebbe dovuto aspettarlo? Cinque anni? Dieci? Finché Valentina non avesse raggiunto la maggiore età? Sarebbe stato quello il tempo sufficiente?

    A questo pensiero, Sara, ancora singhiozzante sul letto, avvertì una fitta acuta al basso ventre. Gemendo, quasi si ripiegò su se stessa. Come un animale agonizzante annaspò alla ricerca d’aria.

    Alzati. Vai a farti un caffè!, pensò dentro di sè.

    Tirò giù i piedi dal letto e, premendo con la mano sulla pancia, nel punto in cui percepiva un dolore indefinibile, si alzò e si trascinò lungo il corridoio verso la cucina. Aveva la mente intorpidita, i pensieri squassati dall’ennesimo rifiuto di Luca, gli occhi gonfi di pianto.

    Entrò in cucina. Aprì lo sportello della credenza per prendere il barattolo del caffè e il suo sguardo fu calamitato dal pane che giaceva nel cestello.

    «Oddio no! Ti prego, no! No!», fece appena in tempo a formulare questo pallido pensiero che la sua coscienza, all’improvviso, si spense.

    Afferrò il pane e cominciò a ingozzarsi, una fettina dopo l’altra. Aprì il frigorifero e, con lunghe sorsate di latte, aiutò la masticazione e la deglutizione frenetica. Poi, sempre in stato di trance, afferrò il panetto di burro e lo addentò. Mangiò due uova sode, alcuni pomodori che ancora dovevano essere lavati e, quasi senza masticare, una dopo l’altra ingurgitò le fette di prosciutto che riposavano nella confezione del supermercato. Prese poi il piatto di pasta al pomodoro avanzata dalla sera prima e, con le mani, voracemente, se ne portò grandi quantità alla bocca. Addentò una mela, ingoiò mezza banana. Aprì il freezer, prese il contenitore di gelato e, questa volta con un cucchiaio, cominciò a ingurgitarne il contenuto.

    Nessuno aveva mai capito la natura di queste trance. Sia la madre, con la quale viveva e con cui aveva un rapporto difficilissimo, sia le amiche più intime e più care, con le quali invece si confidava, inevitabilmente la riempivano di consigli comprensibili quanto inutili.

    «Sara, tesoro, cerca di resistere. Mettici un po’ di buona volontà. Non cedere. Quando avverti la tentazione, magari esci, passeggia, cerca di distrarti. Chiamaci se pensi che ti possa servire. Non ti puoi ridurre così. E per quale motivo poi? Rovinarti la salute solo perché in questo momento ti senti sola. Tu sei bellissima, potresti avere tutti gli uomini che vuoi», le sussurravano le amiche.

    «Sara, lo fai apposta vero? Non sai rinunciare alla formula che hai trovato per farti del male. Non puoi farne a meno. Ti fa sentire importante? Non so, dimmelo tu. Ti fa sentire al centro dell’attenzione. O forse una povera disgraziata, dimmelo tu. Avanti, sii sincera una volta tanto. Prova ad aprire la bocca anche per parlare, oltre che per abboffarti e vomitare. Di' la verità! Sii adulta una volta tanto».

    Dio, quanto odiava sua madre in quei momenti. Con quella sua voce acida, il corpo irrigidito in una postura di estrema alterigia e intolleranza. Sara l’odiava ma, nello stesso tempo, le sembrava che in un qualche modo avesse ragione. E che lei lo facesse apposta a perdersi in quell’ebbrezza vertiginosa, in quella palude oscura precipitando nella quale le sembrava di offendere tutti coloro che le stavano intorno. Sì! Il paradosso era proprio quello: che neanche lei ci credeva fino in fondo a quella perdita di coscienza subitanea che destituiva il proprio Io e legittimava il predominio di oscuri e ancestrali impulsi. Le sembrava impossibile, un minuto prima, essere in pieno possesso di se stessa, magari arrabbiata o disperata, a seconda dei casi, ma comunque padrona e consapevole del proprio Io, e un attimo dopo, come per un maleficio, ritrovarsi in una terra di mezzo nella quale si muoveva come una zombie. Persa, dimentica di sé, sconosciuta a se stessa. Anzi, peggio. Senza una sè stessa vera e propria cui fare riferimento. Un organismo vivente decerebrato, preda esclusiva dei propri appetiti. Nemmeno. Un organismo vivente preda della propria auto-distruttività. Artefice e vittima della propria furia omicida che, per trasposizione simbolica, si avventava su qualunque prodotto alimentare, come se, attraverso la sua incorporazione, potesse distruggere tutto il cibo del mondo e, con il cibo, anche sè stessa. Le sembrava incredibile essere incapace di resistere a quella tentazione devastante e precipitare invece in quella sorta di oblio dal quale si risvegliava poi, all’improvviso, spaesata, confusa, scossa da profondi conati di vomito. Senza averlo potuto decidere in alcun modo, senza averlo davvero voluto. Accadeva così… con un  semplice click entrava e usciva da quella dimensione estraniante: si risvegliava allora con le dita in gola, la mano sporca di saliva, acidi gastrici e rimasugli di cibo. Piegata in due sul lavandino della cucina o inginocchiata davanti alla tazza del gabinetto. Ogni volta esterrefatta, stupita e poi, preoccupata, affranta, spaventata. Come se fosse stata posseduta e violata da un demone irrefrenabile, violata nel corpo, e un momento dopo lasciata lì, dolorante e devastata, intenta a liberarsi dei resti immondi di quella sudicia possessione.

    La madre, quella mattina, la trovò così: inginocchiata davanti alla tazza del bagno di cui Sara aveva dimenticato di chiudere la porta. La giovane donna sapeva che la madre sarebbe dovuta rientrare presto quella mattina, subito dopo il turno di notte al grande hotel nel quale, da più di venti anni, lavorava alla reception. Ma il dolore che aveva sperimentato subito dopo la telefonata di Luca e la condizione improvvisa di trance che ne era conseguita, le avevano fatto dimenticare la più piccola delle accortezze. Rosa era entrata in casa e subito aveva udito i conati che provenivano dalla stanza da bagno. Si era affacciata sulla soglia e aveva sorpreso la figlia mentre ancora officiava il lurido rituale. Impietrita, si era fermata sull’uscio della stanza finché Sara, tra un singulto e un altro, ne aveva percepito la presenza e, con estrema lentezza, come un criminale colto sul fatto, si era girata a guardarla. Nel preciso momento in cui i loro occhi s’incontrarono una scarica di odio gelido ad altissima tensione partì dall’una verso l’altra. Quella di Rosa, tuttavia, ebbe la meglio. La resistenza rabbiosa di Sara in breve si affievolì, diminuì di tensione, perse terreno, regredì alle origini del proprio senso di colpa e, infine, lasciò la corrente nemica libera di invaderle l’anima.

    Madre e figlia si guardarono, nel silenzio più assoluto, almeno per una decina di secondi: giudice implacabile e rea confessa.

    «Quando avrai finito con la colazione, ti aspetto in cucina».

    Rosemarie Krüger a cinquantadue anni era ancora una bellissima donna: alta, magra, con i capelli biondo cenere tirati indietro a formare una crocchia impeccabile, i lineamenti perfetti del volto, gli occhi azzurro chiaro. Quasi ogni giorno vestiva con un tailleur scuro su una camicetta bianca o celeste, scarpe con tacchi alti ma larghi e comodi. Era originaria di Bellinzona, dove si era diplomata in un istituto turistico alberghiero. Parlava correntemente tedesco, italiano, inglese, francese, polacco e russo così, proprio grazie a questa inclinazione poliglotta, fin da giovanissima aveva trovato lavoro nei migliori e più esclusivi hotel: da Saint Moritz a Grindelwald, da Locarno a Baden Baden, nella vicina Germania. Lavoratrice indefessa, sempre molto disciplinata, puntuale, precisa, elegante. Irreprensibile. Rosemarie aveva saputo farsi apprezzare e stimare da tutte le Proprietà alberghiere che le avevano offerto lavoro. Era lei che decideva di cambiare località e datore di lavoro secondo l’unico capriccio dei suoi vent’anni: conoscere quanto più mondo possibile. A lungo termine aveva in progetto di cercare lavoro fuori dell’Europa. Magari in Australia o in Nuova Zelanda. Ma l’incontro con Francesco Fabriani, l’italiano scapestrato che alla bella età di trent’anni girava ancora il mondo in autostop, aveva infranto le sue barriere di responsabilità e irreprensibilità.

    «Per qualche mese potrei anche mandare tutto al diavolo», si era lasciata andare Rosemarie e aveva cavalcato l’amore.

    Jeans logori e strappati, felpa fuori misura, scarpe da ginnastica, capelli sciolti, sorriso sulle labbra, zaino in spalla e pollice alzato. Dove portava il vento. La bellezza di lei e l’allegria spregiudicata e scanzonata di Francesco avrebbero fermato qualunque auto.

    Prima Amsterdam, la città della trasgressione per eccellenza. Poi Copenaghen, tre mesi in una comune. Londra, per assaporare la vera musica. Berlino, per vedere il muro che, si sperava, prima o poi sarebbe crollato. Praga, per ritrovare la magia degli antichi alchimisti. Parigi, nel ricordo della Belle époque e della vita bohemienne. E infine Barcellona, dove la giovinezza si stava riappropriando della città dopo l’oscurantismo fascista.

    E fu proprio a Barcellona che Rosemarie Krügher si accorse di essere rimasta incinta.

    «Tesoro ti piacerebbe diventare padre?», domandò, maliziosa, al fascinoso compagno di avventure mentre bighellonavano, mano nella mano, per Las Ramblas.

    Il bel Francesco non fece una piega, anzi. Abbracciò Rosa, l’alzò al cielo e dichiarò di essere prontissimo a mettere su famiglia. In fondo era un bravo ragazzo. Telefonò a Roma per avvertire il padre che presto sarebbe diventato nonno e lo pregò di riservargli un posto nello studio legale di famiglia. In fondo era pur sempre laureato in giurisprudenza.

    Come in un sogno Rosemarie approdò a Roma e visse almeno otto anni di solenne ubriacatura: la presentazione ufficiale in famiglia, il matrimonio, l’arredamento della casa, la nascita di Sara e, subito dopo, nottate insonni, pannolini, pappette, i primi passi, il primo giorno di scuola, la caduta del primo dentino.

    Qualcuno potrebbe azzardare che, forse, si prodigò eccessivamente nel ruolo di giovane madre, trascurando lo spirito esuberante e irrequieto del marito. Ma se peccato ci fu, di certo il suo fu veniale. Più grave, invece, quello del giovane Francesco che, come tanti altri uomini, approfittando della maternità della propria compagna, s’inoltrò da solo nei territori non ancora esplorati dell’affermazione professionale.

    Francesco, in effetti, sembrava affascinato dal ruolo che aveva assunto all’interno dello studio di famiglia. Intelligente, brillante, spregiudicato e competitivo quanto bastava per emergere tra la moltitudine anonima dei suoi giovani colleghi, in brevissimo tempo si lasciò sedurre dal lavoro gettandovisi con la stessa caparbietà e affascinante arroganza con cui, anni prima, aveva condotto la sua sregolata giovinezza. Durante questo periodo di cambiamenti esistenziali, se anche lui fu il maggior responsabile dell’affievolirsi della relazione con Rosa, non per questo si macchiò di assenza nei confronti della piccola Sara. Al contrario: la bambina era l’unico motivo di giocondità, l’unica nota di colore nel grigiore delle tristi vicende umane con le quali aveva a che fare per tutto il resto del tempo. Con i suoi avversari Francesco aveva imparato a essere freddo e spietato, ma con Sara… Oh, con Sara si scopriva tutt’altro uomo. Fin dall’inizio aveva preteso di partecipare alla sua vita, imparando a farle il bagnetto, cambiandole i pannolini e cullandola con amore anche le rare volte che, durante la notte, la bambina si svegliava piangendo. Aveva imparato a prepararle le pappette e a imboccarla durante lo svezzamento, guardandola sempre negli occhi meravigliato. E se la piccola qualche volta faceva i capricci, era facile per lui distrarla raccontandole favole strampalate o, al limite, facendole mille  versacci e strane boccacce.  Nel tempo libero dal lavoro aveva gattonato con lei, l’aveva sorretta nei primi passi, l’aveva portata sulle spalle e, più tardi negli anni, l’aveva guidata alla scoperta dei nostri misteriosi coabitanti del pianeta Terra passeggiando per i viali del giardino zoologico.

    Inutile dire quanto la bambina ricambiasse quell’amore meravigliato: Guarda, papà. Faccio le capriole! Papà, mi fa male la pancia. Posso venire con te al lavoro? Posso, papà? Quando sarò grande ti sposerò e sarò la tua principessa, vero papà?

    Rosemarie sorrideva di tutte quelle scemenzuole e, orgogliosa della propria bimba, aveva tentato di ristabilire con Francesco la complicità dei loro primi anni. Perché, forse grazie a un oscuro istinto, sentiva che qualcosa d’indefinito aveva cominciato a frapporsi tra loro. Esclusi i momenti in cui Francesco si dedicava alla figlia, per il resto del tempo in casa era spesso distratto, oppure perso in piccole incombenze manuali; ma in definitiva assente.

    «Il lavoro». Si giustificava Francesco.

    Ma Rosa era inquieta, nervosa, preoccupata. Nella sua mente di giovane donna un tarlo iniziò a scavare complicate gallerie, e non serviva a nulla che lei lo scacciasse, infastidita, facendo appello a tutte le sacrosante buone ragioni per cui il marito potesse essere così distratto. Il tarlo continuava a scavare. In superficie il tempo scorreva senza increspature, come una sostanza liquida che scivolasse sopra un levigato piano inclinato. Ma in profondità era come se incombesse una minaccia oscura che il minimo squilibrio avrebbe potuto portare a galla. Sembrava che tutti fossero molto attenti perché nulla potesse turbare quella precaria situazione.

    Finché, un giorno, alle dieci della mattina, il telefono squillò:

    «Pronto», articolò una voce di donna, «buongiorno, mi scusi, potrei parlare con la signora Rosemarie».

    «Sono io», rispose Rosa titubante e incuriosita.

    «Mi scusi ancora. Lei non mi conosce. Mi chiamo Giovanna Negri. Sono l’amante di Francesco, suo marito. Da due anni».

    Quando, qualche rara volta, Rosa ripensava ai momenti e ai giorni che seguirono quella telefonata e non lo faceva né spesso, né molto volentieri, aveva come l’impressione che, non solo lei stessa, ma anche tutti i protagonisti di quella assurda storia, avessero subito una sorta di anestesia totale. La tal Giovanna che si scusava per la propria illecita iniziativa; lei che la ringraziava per la sua onestà; Francesco che, la sera, tornato a casa, abbassava lo sguardo e confessava l’addebito, con quella sorta di sollievo di chi, con la confessione, si sgrava da una colpa indicibile; ancora lei che, tremante, intimava al proprio marito di lasciare la casa; Francesco che radunava alcuni capi essenziali, salutava la figlia con un lungo abbraccio e si chiudeva la porta alle spalle; la famiglia di lui che, compresa la gravità della situazione, si premurava di farle sapere che, comunque sia, lei e la bambina non avrebbero mai dovuto preoccuparsi di nulla. E Sara… Sara che sembrava non aver registrato nulla. Più buona e servizievole del solito. Che non chiedeva. Non piangeva. Non urlava. Che la notte sembrava dormire tranquilla nel suo letto.

    La spiegazione, Papà starà via! Per un po’di tempo!, sembrava esserle stata sufficiente.

    Solo un poco più inappetente del solito. Più capricciosa nei gusti alimentari, già troppo ricercati. Sempre pronta ad allontanarsi da tavola, oppure, a trastullarsi per un tempo infinito con il cibo. Tagliuzzandolo. Studiandolo. Eliminandone delle parti in base a chissà quale parametro. Componendo ciò che restava in figure astratte. Enumerandone le diverse componenti: trentasette pisellini, sedici rondelline di carota, otto spicchi di patata e cinque bocconcini di carne.

    Rosemarie non aveva dato eccessiva importanza alla cosa. Anche perché, nel preciso momento in cui Francesco aveva chiuso la porta di casa, i condizionamenti educativi svizzero-tedeschi avevano ripreso il possesso della sua personalità. Ricordava la sequenza: la porta si era appena richiusa e lei, ancora tremante, si era rifugiata in bagno. Si era guardata a lungo nello specchio poi, in maniera quasi automatica, aveva stirato i lunghi capelli che da anni, ormai, portava sciolti sulle spalle e li aveva radunati in una crocchia sulla parte posteriore della testa. Della bella ragazza che aveva lottato per sperimentare la propria spontanea gaiezza, per affidarsi ottimista e tranquilla al corso degli eventi, per apprezzare l’imprevedibile ed essere sempre fiduciosa negli altri e nella forza magica dell’amore, in un attimo, di quella bella ragazza non era rimasto più nulla. Lo specchio le rimandò l’immagine di Frau Rosemarie Krüger, trentuno anni, bellissima e glaciale, irreprensibile, distante da se stessa prima ancora che dagli altri, competente, sicura di sé, efficiente.

    Il giorno dopo aveva già inviato il suo curriculum a novantatre importanti hotel della città perché, così aveva deciso, il disordine, la sporcizia e la follia della capitale d’Italia avrebbero ben compensato il rigore nel quale, come giovane donna separata, d’ora in poi avrebbe dovuto rinchiudersi. E poi, soprattutto, non intendeva strappare la piccola Sara alle sue prime e significative amicizie scolastiche e alla maestra che lei tanto amava. Né, tanto meno, intendeva precluderle il rapporto con il padre o quello coi nonni che la adoravano. No! Sarebbero rimaste a Roma. Lei avrebbe trovato lavoro e, in un qualche modo, sarebbero sopravvissute. Al diavolo Francesco. Al diavolo gli uomini, tutti!

    Rosa, così oramai la chiamavano tutti, ci aveva messo poco meno di una settimana per trovare il lavoro che ancora svolgeva al Grand Hotel Vittoria. E la sua professionalità, la sua precisione e serietà, la sua abnegazione, le valsero un ruolo di prestigio tra il personale dell’hotel. Così gli anni avevano iniziato a scorrere. Impegnativi da un certo punto di vista, ma anche molto monotoni. Giorni e mesi che scorrevano senza far registrare niente di significativo. I suoi rapporti personali con Francesco e con i genitori di lui furono limitati al minimo indispensabile ma, davvero, non ebbe alcuna responsabilità se anche quelli della figlia con il proprio padre e con i propri nonni piano piano si diradarono fino a dissolversi in un nulla. L’apatia e il disinteresse di Sara nei confronti dei Fabriani furono del tutto originali e più tardi, quando la ragazzina superò l’età critica dei dodici anni, come spesso accade nell’adolescenza, divennero senza appello.

    Nonostante i suoi più severi propositi, nel corso del tempo Rosa ebbe qualche altra storia: ma per lo più si trattò di igiene sessuale, almeno per lei. Rapporti gratificanti sotto tutti gli aspetti - gli uomini facevano a gara per starle dietro e impazzivano per la sua bellezza - ma a nessuno, mai, Rosa permise più di invadere la propria intimità affettiva.

    L’eccessiva rigidità, tuttavia, finì per contagiare almeno in parte anche il suo rapporto con Sara. La figlia aveva preso molto dal padre assente. Se si escludevano alcuni momenti, durante i quali si ritirava in se stessa ed era afferrata da una profondissima tristezza, Sara era una ragazzina vivace, estroversa, comunicativa, impaziente di conoscere il vasto mondo. Esuberante e fantasiosa non faceva in tempo a progettare qualcosa che già lo aveva realizzato. Non a caso fu durante la sua adolescenza che i dissidi con la madre si fecero più assidui, più significativi e, lentamente, presero la forma di un amore-odio reciproco.

    L’adolescenza di Sara fu terribile, soprattutto per Rosa: per un periodo - molto breve in verità - la ragazzina si era fatta di hashish e marijuana, si era tinta i capelli di viola e si era vestita solo di nero. Tutto questo durò quasi un anno. Poi, all’improvviso, aveva radunato tutti i vestiti neri, i giubbotti con le borchie, gli anfibi, le catene, gli smalti, i trucchi pesanti e li aveva buttati nella spazzatura, aveva tagliato cortissimi i capelli riportandoli al loro colore naturale, e aveva vestito in un modo sexy e provocante: camicette aperte sul seno pieno e impertinente, minigonne mozzafiato, magliette tagliate subito sotto il seno, pancia scoperta, jeans aderenti e scarpe con il tacco a spillo. Con il risultato di aver collezionato un bel numero di ragazzi che, gira che ti rigira, finivano nella sua camera da letto durante i turni di lavoro di Rosa. La quale non per questo rimaneva all’oscuro di tutte quelle grandi manovre. Madre e figlia avevano cominciato a fare scintille e, oramai da molto tempo, si sopportavano a stento.

    Il tempo aveva continuato a scivolare, imperturbabile. Per seguire i propri ideali Sara si era laureata in letteratura moderna, contro il parere di Rosa e, come la madre aveva previsto, per lungo tempo era rimasta disoccupata prima di trovare un triste impiego come cameriera in un pub. Per fortuna il proprietario del locale l’aveva presa a ben volere e, quando le mance erano generose, il guadagno era sufficiente ai suoi fabbisogni personali. Ma la triste verità era che non si prevedevano vere e proprie alternative.

    Questo era il clima teso e ostile che si respirava in casa Fabriani-Krüger. Un clima che le abbuffate e le successive vomitate di Sara, iniziate da più di sei mesi, non avevano certo contribuito a distendere. Questa era la compressa condizione di ostilità e rabbia che le due donne covavano l’una verso l’altra e che quella mattina minacciava di innescare un’esplosione nucleare.

    Sara, ancora esausta per i conati di vomito, si alzò in piedi a fatica. Si lavò mani e viso, dette una pettinata ai capelli che, una volta ricresciuti, era tornata a portare sciolti e lunghi fino alle spalle, si fece una boccaccia allo specchio, alzò gli occhi al cielo e si preparò ad affrontare la madre. 

    La trovò in cucina, intenta a rimirare lo sfacelo: il frigorifero ancora aperto, i gusci delle uova sparsi sul lavandino, le confezioni del pane, del burro e del prosciutto che giacevano lì dove erano cadute. Il cartone del latte rovesciato e gocciolante sul piano di formica.

    «Non potevi proprio farne a meno?», domandò sarcastica non appena la sentì entrare.

    «Evidentemente no». Le rispose con tono subito alterato e astioso la figlia.

    «Ma certo, è ovvio! Tu non hai alcuna responsabilità del disastro che hai appena orchestrato. Cronometrato perfettamente sul mio arrivo». Continuò Rosa sempre più sprezzante e derisoria. 

    «Sì ecco!», attaccò Sara alzando la voce e portando le mani aperte all’altezza delle spalle. «Adesso ci manca solo che tu pensi che lo abbia fatto apposta. Magari per farti rabbia».

    «Non vedo molti altri motivi».

    «Ma certo, perché io a comportarmi in questo modo mi diverto. Prima mi imbottisco lo stomaco, quasi fino a farlo scoppiare; poi vado al bagno e mi diverto a vomitare. E quando ho finito di rigettare il cibo che prima ho ingurgitato, continuo. Per vedere se riesco a vomitare pure l’anima. E tutto questo lo faccio per te, per farti rabbia, come prima mi facevo scopare apposta dai ragazzi e prima ancora, invece, mi facevo le canne».

    «Potresti cercare, almeno, di non essere volgare?», la riprese acida Rosa, davvero allergica a qualunque forma di scurrilità e maleducazione.

    «Ma vai a fare in culo, mamma!» Le urlò Sara con soddisfazione, contenta che la madre le avesse ricordato qual era la tecnica migliore per offenderla e ferirla. «Non ti ha mai sfiorato il dubbio che forse e dico solo forse, mamma, io possa stare molto male. Che tu non c’entri un cazzo con tutto questo ma che forse potresti aiutarmi».

    «Non ho alcuna intenzione di sorvolare sulla tua incapacità di controllarti, soprattutto se continui a usare questo linguaggio triviale. E non credo…»

    «E allora fai come ti pare!», continuò Sara, inviperita. «Non sorvolare e non credere. Non me ne frega un cazzo di quello che pensi. Così come non credo che tu te ne sia mai sbattuta di quello che penso io, di quello che sto vivendo, di quello che provo».

    «Non venire a fare la vittima, Sara. Se ti fai sbattere da un uomo sposato e poi te ne innamori perdutamente, la colpa non è certamente mia».

    «Ecco la fine che fanno le mie confidenze!», urlò ancora Sara. E poi, subito dopo, imitando la voce suadente che Rosa, qualche rara volta, aveva usato con lei: «Parla con me, tesoro, non ti fa bene tenerti tutto dentro. Confidati, non avere pudore. Mamma vuole solo aiutarti. Sì! Certo, come no? E poi usi tutto questo contro di me».

    «Non credo che tu abbia mai dato ascolto ai miei consigli».

    «Forse perché i consigli dovrebbero essere, appunto, solo consigli? E non ordini?»

    «Forse perché non sai avere alcun controllo su di te?»

    «Controllo! Controllo. Ma quale controllo? Per essere come te, mamma? Per diventare uno stoccafisso congelato come sei diventata tu? Almeno da quando papà se n’è andato».

    «Non ti permetto di parlarmi in questo modo, Sara!», Rosa era furibonda e la sua voce si era fatta glaciale. Sembrava che da un momento all’altro avrebbe potuto congelare la figlia.

    In fondo, questo era il vero conflitto che animava le due donne: la diversità profonda e inconciliabile dei rispettivi tratti temperamentali e caratteriali. Nascendo, forse con la complicità del proprio segno zodiacale la Vergine, Rosa aveva ricevuto una attitudine alla precisione e alla criticità che l’educazione elvetica non aveva certo ammorbidito. E per quanto in gioventù si fosse sforzata di lasciarsi andare, di aprirsi, di imparare a vivere momento per momento e di camminare in equilibrio precario sul filo tirato tra la razionalità e il sentimento, era bastata la profonda ferita inferta da Francesco alla sua anima per farla retrocedere verso stili di vita che le erano più congeniali. Sara, al contrario, oltre ad aver preso il temperamento del padre, aveva ricevuto un’educazione tipicamente italiana: genialità e sregolatezza, creatività, fantasia e mancanza di qualunque tipo di progettualità. Come Rosa, tuttavia, che per amore aveva tentato di varcare i limiti della propria natura, così anche Sara aveva provato a varcarli. Per inconscia, estrema difesa. Ma la rigidità di Sara era interna, invisibile, in profondo contrasto con la sua più autentica natura e, dunque, motivo di conflitto e dolore.

    «Io parlo come mi pare, mamma. E non ti preoccupare, me ne andrò dalla tua casa. Costi quello che costi. Piuttosto sul marciapiedi».

    «Non ho difficoltà a crederti. Il mestiere ti è sempre riuscito bene». Si lasciò scappare Rosa, trascinata da un oscuro bisogno di fare male pur senza davvero volerlo fare proprio a lei. 

    «Vai al diavolo, mamma!» Urlò Sara, tremante di rabbia, con le vene del collo in evidenza e che pulsavano, come fossero percorse da lava incandescente. «Anzi: vaffanculo! Vai a fare in culo tu e la tua compassata vita di merda. Controllata, precisa, inappuntabile e nauseabonda!»

    Come una furia Sara abbandonò la cucina. Si precipitò in camera, s’infilò i primi jeans che le capitarono in mano, indossò una maglietta e, sopra, un vecchio giubbotto di pelle. Si rigirò una sciarpa tre volte intorno al collo, buttò il cellulare nella borsa, afferrò le chiavi dell’auto, attraversò più rumorosamente che poté il corridoio, aprì la porta di casa e, dopo essere uscita sul pianerottolo, se la sbatté alle spalle con tutta la violenza di cui fu capace. Vaffanculo, mamma!, urlò dentro di sé.

    II 

    AFFINITÀ SEDUTTIVE

    Nonostante l’uscita di casa rabbiosa, le mani di Sara ancora tremavano e quando raggiunse la propria auto, parcheggiata davanti casa, la chiave non voleva proprio saperne di infilarsi nella serratura della portiera. Sara chiuse gli occhi. Si obbligò a fare due o tre respiri profondi:

    «Stai calma», comandò a se stessa: «Calmati ora. E respira».

    Riaprì gli occhi. Si costrinse a rallentare i movimenti. Aprì la portiera. Si sedette e provò a mettere in moto. Il motorino di avviamento girò per più di dieci secondi ma il motore  non partì.

    «Cazzo!» Imprecò Sara, sottovoce, tirando un pugno violento sul volante. Poi di nuovo chiuse gli occhi. Riversò il capo all’indietro, sul poggiatesta dell’auto, respirò a fondo e ritentò.

    Questa volta il motore partì. Peccato che Sara non avesse la più pallida idea di dove andare.

    Le sue migliori e care amiche, Alessandra e Monica, erano partite per il lungo ponte festivo. All’invito di unirsi a loro, per mantenere fede alla promessa fatta di tenere nascosta la relazione con Luca, aveva accampato la solita scusa del lavoro inderogabile. E adesso non aveva la più pallida idea di dove andare né tantomeno cosa fare. Tuttavia, come se niente fosse, innestò la prima, mise la freccia e si allontanò dal marciapiede.

    Mentre guidava, nel consueto traffico impazzito della città, avvertì un sorriso amaro affiorarle sulle labbra. Ancora pochi giorni e avrebbe compiuto ventotto anni. Ventotto anni buttati. Pensò tra sé e sé. 

    La piega amara delle labbra si accentuò. Quell’andare senza meta, tra mille altri automobilisti che partivano, si fermavano, suonavano il clacson, ripartivano per fare sì e no cinque metri, s’intralciavano a vicenda e a vicenda si odiavano, le apparve all’improvviso la metafora vivente della sua stessa vita.

    Ma che cosa sto facendo? Dove sto andando?, chiese a sè stessa

    Ventotto anni entro pochi giorni. Laureata in letteratura moderna. Una laurea senza futuro, almeno in Italia, conseguita per dare fiducia alle proprie passioni e, non da ultimo, per contraddire e indispettire Rosa, che le aveva consigliato l’istituto alberghiero. Tuttavia, proprio grazie all’inflessibilità della madre, che fin da quando era piccolissima si era ostinata a comunicare con lei in quattro lingue diverse, oggi Sara parlava abbastanza correttamente italiano, tedesco, inglese e francese. Al momento faceva la cameriera in un pub dove lavorava, dalle diciannove alle due, tutte le notti, lunedì escluso, per novecento euro al mese. Un locale abbastanza alla moda, per giovani e non più giovani, dove molti clienti nella penombra le toccavano il culo. Sara non possedeva la bellezza impeccabile della madre. La natura, però, le aveva elargito un dono rarissimo: un fascino irresistibile che solo in parte poteva essere il risultato della somma dei suoi tratti somatici. Un metro e sessantotto di altezza, viso ovale come quello di tante altre donne, capelli biondi, occhi castani, grandi, un po’ a mandorla. Sopracciglia folte ma ben disegnate. Un naso volitivo che in un qualunque altro accostamento sarebbe stato, forse, imbarazzante, ma che nell’insieme del suo volto era tutt’altro che inadeguato.  La bocca grande, con labbra fin troppo carnose e provocanti. Magra e slanciata, come la madre, Sara usufruiva però di una rotondità morbida e aggraziata delle proprie forme femminili e, pur senza fare niente di speciale per accentuare la sua grazia, non sarebbe mai passata inosservata. Superate la fase fricchettona e la fase sexy, da molti anni oramai, si curava pochissimo del proprio aspetto esteriore. In un certo qual senso era trascurata o, meglio ancora, disinteressata. Ma aveva il dono di un’eleganza naturale che tutte le amiche le invidiavano. Se avesse indossato un sacco di juta stretto in vita da una cintura rimediata, tutti avrebbero giurato che si trattasse di un capo firmato. Sara era sempre stata così, fin da ragazzina. Il fascino che emanava prescindeva del tutto dalla ricercatezza degli abiti che portava e, soprattutto, dalla sua volontà di apparire. Al contrario: l’inconsapevolezza con cui lo esercitava non faceva altro che amplificarlo.

    Aveva avuto molte storie. Storie importanti e meno importanti. Dalle cotte struggenti e non corrisposte dei tredici anni alle avventure occasionali di una sola notte, vissute tanto per togliersi il capriccio. Aveva avuto amori appassionati e delusioni cocenti, aveva preso in giro e si era lasciata prendere in giro, aveva sedotto e si era lasciata sedurre. Ma nessuna storia, mai, aveva avuto l’intensità della relazione con Luca.

    «E guarda dove vai, puttana!»  

    La gentilezza degli automobilisti romani la risvegliò bruscamente dai propri pensieri. Si girò verso l’educato guidatore che, pur venendo da sinistra, non avrebbe voluto farla passare. Lo guardò fisso negli occhi sfilandogli davanti e poi alzò il dito medio al di là del finestrino. Sentì un clacson furioso suonare alle sue spalle, ma lei ormai era in seconda, incolonnata in un flusso di auto che lui di certo non avrebbe potuto risalire. Guidò attenta e presente per una decina di minuti, fino a prendere la decisione improvvisa di andare a vedere la mostra per il centenario di Renato Guttuso ai Musei Capitolini. Tra soste interminabili e file che procedevano a passo d’uomo, arrivò nei pressi di piazza Venezia e, per pura fortuna, trovò un posto nei parcheggi a pagamento. Poi si avviò a piedi, salì le scale che portavano alla piazza del Campidoglio, acquistò il biglietto d'ingresso alla mostra ed entrò. Erano anni che desiderava approfondire le opere del pittore siciliano e quella mattinata disgraziata, che in realtà avrebbe dovuto essere riservata a ben altri scopi, ma che si trascinava invece senza senso alcuno nel traffico puzzolente di Roma, le sembrò rivelare all’improvviso una fortunosa, doppia opportunità: soddisfare la propria curiosità artistica e, nel contempo, distrarla dalla lite con la madre e dal pensiero ossessivo di Luca.

    Iniziò a trascinarsi da un’opera all’altra: le luci e le ombre dei quadri, i temi sociali spesso presenti sullo sfondo, l’autoritratto che sembra dipingersi da sé, le donne e l’erotismo, il bordello di Arles, il bosco d’amore, la spiaggia. All’inizio riuscirono a interessarla e a distrarla dai propri pensieri. Poi però, a poco a poco, senza poterlo registrare in maniera consapevole, vi si ritrovò di nuovo impelagata. La prima volta che se ne accorse era di fronte alla Pietà, un’opera che Guttuso aveva realizzato in commemorazione del terremoto di Messina, in cui una donna scarmigliata teneva tra le braccia un’altra giovane donna, morta o ferita. La miniatura, con il suo intenso significato simbolico, aveva fatto da stimolo e la sua mente era rimasta stregata al ricordo delle liti feroci con sua madre. Si era scrollata, e aveva ripreso a curiosare tra i quadri esposti. Ma poi, di nuovo, senza accorgersene, si era nuovamente persa di fronte a un nudo di donna, e si era risvegliata solo quando una voce, accanto a lei, le aveva sussurrato con insistenza:

    «Straordinaria, non trova? La forza evocativa dell’eros in quest’immagine».

    Sara sussultò ritornando bruscamente in sé. Osservò senza alcuna indulgenza l’uomo che le aveva rivolto la parola e concluse che di straordinario c’era solo l’interesse che il suo interlocutore mostrava di avere verso di lei.

    Si girò senza dire una sola parola e risolse di abbandonare la visita della mostra. Era troppo arrabbiata e dispiaciuta, troppo distratta dalle proprie vicende interiori, si sentiva troppo ferita per dedicare la giusta attenzione alle opere del maestro siciliano.

    Uscì all’aperto, attraversò piazza Venezia e in un piccolo bar di via del Corso ordinò un piatto freddo e bevve una Coca Cola. Si era fatto mezzogiorno. Sempre sovrappensiero recuperò l’auto, attraversò il centro e s’immise sull’Aurelia dirigendosi verso Fregene, la seconda spiaggia di Roma dopo Ostia Lido. La giornata era splendida: il cielo azzurro terso e il sole caldo, come in tempi oramai remoti accadeva a Roma, nel mese di ottobre. Tuttavia non era il tempo libero che aveva a disposizione né lo splendore della giornata che la guidavano in quella direzione. Bensì una sorta di rituale nostalgico e rievocativo: era proprio lì che, diciassette mesi prima, aveva conosciuto Luca. Ricordava con precisione ogni dettaglio di quella indimenticabile giornata, ogni minimo particolare.

    Erano i primi di maggio e i suoi amici l’avevano invitata a trascorrere un sabato di estate anticipata sulla spiaggia libera davanti al Villaggio dei Pescatori, dove una cooperativa di ragazzi intraprendenti aveva ottenuto il permesso di aprire un piccolo chiosco che serviva aperitivi e piatti freddi. Sara aveva accettato anche se, Cenerentola come sempre, alle diciassette e trenta si sarebbe eclissata per poter prendere servizio alle diciannove nel pub dove lavorava, nel centro di Roma. 

    Gli altri avrebbero terminato la serata con una grigliata sulla spiaggia e un bagno notturno.

    Saranno state le dodici e mezza, poco più o poco meno, quando Marco si presentò tra i lettini degli altri con un amico sconosciuto.

    «Ragazzi vi presento Luca. Luca, questi sono i miei amici. Sorvolo sui loro nomi, tanto non li ricorderesti mai».

    Il nuovo arrivato fu accolto da un coro di Salve, ciao, ben arrivato, piacere di conoscerti.

    «Ma almeno presentami le donne». Esordì provocatorio il nuovo arrivato.

    «Giusto, non si sa mai. Allora vediamo: quella lì, antipatica, si chiama Francesca. L’intellettuale con gli occhiali, invece si chiama Monica. La bomba sexy che vedi lì, distesa come una Venere si chiama Alessandra. Ma non ci provare, altrimenti Matteo, quel colosso palestrato che le sta vicino, come minimo ti rompe il muso».

    Ci furono assensi divertiti, pacche sulle spalle di Francesco e risata collettiva.

    «Questa qui invece è Sara. La nostra Cenerentola fascinosa».

    Nel preciso momento in cui gli occhi di Luca incontrarono quelli di Sara fu come se due stelle erranti avessero avvicinato le proprie orbite e fossero perciò rimaste imprigionate l’una nella forza gravitazionale dell’altra.

    Rimasero congiunti per almeno due secondi di troppo, in silenzio, prima che Luca, con una domanda, interrompesse il sortilegio: «Perché Cenerentola?»

    «Non farci caso. Mi prendono in giro». Si schermì Sara, sorridente. «Perché tutti i giorni, verso le diciassette, saluto tutti e sparisco. Devo essere al lavoro alle diciannove. Tutti i giorni», aggiunse, con una smorfia deliziosa sulle labbra e una alzataccia di spalle.

    Rimasero incantati, l’uno di fronte all’altra. Sarebbe stato imbarazzante se Marco non fosse intervenuto invitando l’amico a seguirlo per andare ad affittare e ritirare un paio di lettini da spiaggia. La tensione si sciolse. Il chiacchiericcio scherzoso e disimpegnato del gruppetto di amici riprese come prima.

    Sara si sdraiò sul lettino ma da sotto gli occhiali sbirciò Luca che si allontanava. Alto, longilineo, forse fin troppo magro. Capelli castani forse un po' troppo lunghi; sul braccio sinistro, un unico piccolo tatuaggio tribale non tanto originale. Occhi scuri curiosi, penetranti, indiscreti, scanzonati, irridenti. Sulle labbra un sorriso provocatorio da canaglia patentata.

    «Però!», pensò Sara, tra sé e sé.

    Avrebbe potuto finire tutto lì. Ma non fu così. Da quel momento in poi e durante tutto il primo pomeriggio, i loro occhi continuarono a cercarsi qualunque altra cosa stessero facendo: Sara era sdraiata sul lettino, con gli occhi chiusi, a prendere il sole. Luca discuteva con Marco e Matteo della miglior difesa che la squadra della Roma avrebbe potuto schierare. Sara apriva per un attimo gli occhi e, subito, incontrava quelli di Luca che, come per caso, si erano girati proprio in quel momento su di lei. Sara andava al bar a prendere una bibita e quando tornava indietro lui la seguiva passo dopo passo, estasiato da quell’incedere morbido e aggraziato. O magari Luca tirava due calci al pallone insieme a tutti gli altri ma, se alzava appena gli occhi, incontrava quelli di lei che sembravano studiarlo con attenzione. Per abbassarsi, non appena si sentivano colti in flagrante curiosità. Come se non bastasse, ogni occasione sembrava a entrambi buona per scambiare due parole, per sfiorarsi, per isolarsi dagli altri: sembrarono decidere autonomamente ma, guarda caso, nello stesso preciso momento, di andare a fare il bagno. Insieme fecero anche la doccia. Insieme tornarono tra gli amici.

    Alle diciassette, con il cuore in gola per la confusione mentale, Sara annunciò che entro una mezz’ora se ne sarebbe andata. Si alzò dal lettino e andò

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