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La casa delle cose celate
La casa delle cose celate
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E-book348 pagine5 ore

La casa delle cose celate

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Info su questo ebook

Di una madre dovresti ricordare il profumo, gli abbracci, il sorriso. Da una madre ti aspetti la sicurezza di una guida forte. Di mamma ce n'è una sola. Morgana ama osservare lo scorrere del mondo, che fluisce insieme alla sua fantasia. Ha una sensibilità spiccata, eppure dentro di sé macera un passato che non riesce a portare a galla. Affinché i ricordi non la facciano più soffrire, aveva deciso di seppellirli, di lasciarli andare in balìa del tempo e della vita. Eppure certi incubi sono ricorrenti, certe ansie asfissianti. Morgana decide così di sottoporsi a delle sedute di ipnosi regressiva per riappropriarsi di quella vita passata che ha allontanato e che è rimasta sepolta nel suo cuore e nella sua memoria. Queste sedute la aiuteranno a comprendere meglio se stessa e gli altri, ad accettare l'amore, ma soprattutto a trovare la forza di mettere insieme i tasselli mancanti di quel gigantesco puzzle chiamato vita e fare fronte a verità in cui non avrebbe mai pensato di imbattersi.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ago 2021
ISBN9791220353458
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    Anteprima del libro

    La casa delle cose celate - Valentina Morpurgo

    PRIMA DI…

    «Quella puttanella mi ha rovinato la vita».

    La voce proveniva dalla camera matrimoniale, risuonando forte e stridula. Sua madre stava chiusa in quella stanza da troppo tempo ormai. Morgana si sentiva svenire dalla fame ed era sicura che l’ora del pranzo fosse passata da un pezzo. La nutriva quando ne aveva voglia se erano sole, mentre se nella grande casa ci fosse stata anche solo l’ombra di qualcuno, si sarebbe trasformata nella madre perfetta che ogni figlio vorrebbe avere. La novità fu sentirle pronunciare quella frase che non comprese, visti i suoi quattro anni, ma che si fissò indelebile nella sua mente. Fu proprio quella frase che emerse prepotente, durante la terza seduta ipnotica. Il medico gioì per primo, finalmente, dopo due ipnosi regressive nel buio più totale. Lei invece provava incredulità perché quella bambina e quella frase si erano presentate in punta di piedi.

    Come le precedenti sedute, si era sentita avvolgere da un limbo nero e mentre scivolava sempre più in basso, aveva chiaramente sentito la sua stessa voce dirle terzo fallimento. Percepiva il suo respiro in modalità stereo HD. Le sembrava di galleggiare, quasi inconsistente ma allo stesso tempo viva, e il battito cardiaco riempiva l’intero buio. Non veniva da dentro di lei, sembrava piuttosto battere tutto intorno, ma oltre non era riuscita ad andare. Nonostante le domande del dottor Cusin, non vedeva nulla. L’aveva avvertita fin dalla prima seduta che ci sarebbe voluto molto tempo. Le resistenze inconsce sembravano essere ai massimi livelli anche se non se ne era mai resa conto. Ci sarebbe arrivata piano piano perché l’inconscio è fatto così, ci preserva. Certi ricordi sepolti avrebbero potuto nuocere definitivamente.

    Vide quella bimba bionda, scalza nel suo pigiamino con gli orsetti blu. La vide pulirsi il naso con la manica, mentre avanzava verso la porta della camera matrimoniale chiusa sua madre era solita passare molto tempo lì dentro e raramente la faceva entrare. La vide appoggiare l’orecchio e subito indietreggiare tremante. La vide prendere coraggio e ritentare, quasi a sfidare una probabile sorte dolorosa se quella porta si fosse spalancata all’improvviso. La vide girarsi per tornare ai suoi giochi, con un’aria perplessa e accigliata. La vide chiudere le spalle per fare scudo al suo cuore, quello scudo che non aveva mai abbandonato. Le scese una lacrima. Avrebbe voluto prenderla in braccio per dirle che andava tutto bene, che ora c’era lei a tenerle la mano.

    Il Dottor Cusin le spiegò molto dettagliatamente cosa succedeva anche quando le regressioni sembravano non funzionare. Le diede un contenitore pieno d’acqua con due dita di sabbia depositata sul fondo.

    «Agitalo, cara, più forte che puoi. Mettilo sul tavolo ora, siediti e guardaci attraverso.»

    Lui si posizionò esattamente dalla parte opposta della stanza proprio davanti a lei.

    «Cosa vedi?» chiese quasi subito.

    «Nulla» rispose Morgana.

    «Benissimo» proseguì «è ciò che vedi ora dentro di te quando ripensi alla tua infanzia, quando ti spingi oltre ai ricordi felici che il tuo subconscio ha voluto conservare in bellavista. Noi andremo a cercare il resto, tutto ciò che è rimasto in ombra e che non ricordi più, e accadrà proprio come si comporterà, tra poco, l’acqua torbida nel vaso.»

    Era incantata da ciò che non vedeva, immobile, con il mento appoggiato sulle mani congiunte e gli occhi fissi su quel liquido opaco che non faceva trasparire niente. Piano piano le apparvero delle ombre, dapprima leggerissime e poi via via sempre più nitide. Intravide la sagoma scura del divano in pelle a due posti e percepì l’alone rosso della bizzarra giacca del medico. L’orologio a muro sulla destra e la piantana di carta, di quelle che ricordavano lo stile giapponese, a sinistra, vicino a un alto vaso con una radiosa pianta di falangio dai rami in caduta libera. Certo, conosceva lo studio e il suo cervello associava senza fatica le sagome ancora indistinte.

    «Ecco, Morgana, tra una seduta e l’altra ti capiterà questo, esattamente come il vaso d’acqua con la sabbia. A volte resteranno figure impalpabili legate a sensazioni fisiche lontane. Altre volte, la sabbia potrebbe depositarsi velocemente e mostrarti un frammento di vita, all’improvviso. Potresti ricordare frasi che non leghi a nulla in particolare oppure riconoscere brevi episodi che ti possono apparire come i flash di paparazzi deliranti alla Mostra del Cinema di Venezia».

    «Mi sento come se avessi perso la memoria. Cioè, non proprio persa. Ho tanti bei ricordi ma anche la sensazione che manchi una grossa fetta di una me che di cui non ho ricordi» disse con la voce velata da una profonda malinconia.

    «Cara, mi raccomando. Ora che siamo riusciti a rompere il buio, dovrai tenere un diario dove annotare ogni cosa vorrà salire dal tuo subconscio, anche se potrà sembrarti non avere senso. Ci rivediamo tra un mese esatto. Lasciamo che quella bimbetta bionda si faccia conoscere. Tra una settimana invece ci sentiamo su Skype per gli aggiornamenti».

    UNO

    Il viaggio fino a Padova e ritorno stava diventando una parentesi piacevole. Amava viaggiare in treno perché il movimento dondolante tipico dei vagoni le regalava un grande relax. C’era questo scorrere del mondo, ora lento ora veloce, che la aiutava a navigare con la fantasia, cosa che amava fare fin da bambina. Il suo gioco preferito era immaginare cosa si celasse dietro i vetri di anonime finestre illuminate o che tipo di atmosfera potesse esserci dentro negozi dalle vetrine spesso appannate in inverno, che superava in prossimità delle varie stazioni. Non mancava mai un libro a farle compagnia, intenzionata a sfruttare il tempo del viaggio per leggere, ma poi finiva sempre per restare chiuso, a favore del finestrino ipnotico.

    Non aveva mai preso la patente, avendo sempre avuto paura della velocità e anche di sé stessa alla guida, nonostante si fosse sempre sentita una persona prudente, razionale, calma e competente.

    Quando aveva 17 anni, metà della compagnia di amici che Morgana frequentava prese in pieno il guardrail della curva della morte che si immette in Via Colombo e che si trasformò in un trampolino, facendo volare l’auto per almeno 10 metri oltre la strada, incendiandosi nell’impatto. Gli abitanti del Lido di Venezia gli avevano affibbiato questo nomignolo proprio per la facilità con cui si innescavano incidenti, a volte anche gravi. Non si chiamava curva della morte a caso.

    Il gruppo tornava da una festa in spiaggia a cui lei non aveva potuto partecipare. Era stata punta, il giorno prima, da un pesce ragno e, oltre a non riuscire a camminare a causa del gonfiore, le avevano ordinato assoluto riposo. Erano dieci, sempre assieme, i dieci storici. Altri andavano e venivano ma loro erano indissolubili e inseparabili, alcuni fin dalla scuola materna. Due di loro avevano già i 18 anni canonici per la patente e usavano spesso la macchina dei genitori.

    Quella sera la festa era alla spiaggia di Paolino, verso la diga di S. Nicoletto, e la strada senza illuminazione aveva convinto tfrancesca e Riccardo, i neopatentati, a chiedere in prestito le auto. Di solito si dividevano in modo tale da raggruppare chi abitava nella stessa zona in un’unica vettura. A lei sarebbe toccata proprio quella di tfrancesca. Il percorso invitava tutti a correre. Si trattava di una striscia dritta che costeggiava la spiaggia ed era possibile raggiungere velocità da brividi prima di sfidare la sorte, scalando le marce in prossimità del grande curvone. Perfino un bus, quando Morgana era molto piccola, si schiantò contro un palo della luce in cemento, sul lato opposto, alla fine della curva, in una serata da lupi novembrina carica di nebbia, di quelle che ti entrano nelle ossa anche se sei in casa. Ci furono diversi feriti ma per fortuna nessuno in modo grave. Francesca era spudoratamente imprudente e troppo sicura di sé. A quel tempo erano tutti ancora adolescenti e scollegati con la signora delle tenebre; semplicemente la morte non esisteva, loro erano immortali.

    Le era successo altre volte di tornare a casa accompagnata proprio da tfrancesca e la sfida era sempre quella di rallentare solo all’altezza della torre telemetrica, giusto prima di imboccare la curva. Un brivido orgasmico lungo pochi secondi, la sterzata senza respiro e via di nuovo fino alla rotatoria. C’erano altri tratti dove tfrancesca spingeva l’acceleratore ma nessuno procurava quella forte scarica di adrenalina. Un’associazione di cittadini aveva più volte segnalato la pericolosità di quel tratto alle autorità, invitando a mettere dei dissuasori di velocità ma invano. Li installarono subito dopo il tragico evento.

    Ricordava il suono del telefono che svegliò i suoi nonni, vivevano con lei in villa già da due anni. Si erano trasferiti quando sua madre se ne era andata per tornare in Russia. Era Riccardo, la voce quasi un sussurro. Da casa sua aveva visto i pompieri, le ambulanze e i carabinieri passare quasi volando. Era appena rientrato dopo aver accompagnato il gruppo.

    «Morgana, tfrancesca ha avuto un incidente alla curva della morte. Ci sono almeno quattro persone, sono morti carbonizzati».

    Nonostante fossero passati tanti anni, continuava a sentirsi una miracolata.

    Non prese nemmeno più in considerazione la patente mai fatta. Contava i giorni all’epoca. Aspettava il suo compleanno con la stessa ansia della notte di Natale. Si sarebbe iscritta praticamente allo scattare della mezzanotte se solo avesse potuto. Divenne invece una frequentatrice abituale dei treni, gli unici mezzi che riuscissero a infondere in lei un senso di protezione quasi materno.

    DUE

    «Dove siete? Pinco Panco, Panco Pinco, ho paura» sussurrò quasi senza voce. Non vedeva nulla, era tutto buio e stava tremando come una foglia. Tirò il più possibile verso il mento la coperta e scivolò un po’ più giù. I mostri potevano attaccarla anche alle spalle. Si sentiva indifesa con il letto al centro della stanza, vulnerabile da tutti e quattro i lati. La mamma desiderava che fosse sempre tutto perfetto. Era un desiderio che Morgana non aveva il coraggio di controbattere perché sapeva di non doverla mai fare arrabbiare. Il suo letto era uguale a quello delle principesse, a baldacchino, con stoffe e seta rosa, grandi fiocchi e cuscini in piuma d’oca. Era talmente grande che lei quasi spariva. In quel momento però non sapeva proprio cosa fare. I suoi amici della nanna se ne erano andati, lasciandola da sola, in quel nero-petrolio. Non poteva chiamare la mamma, l’ultima volta si era così arrabbiata che aveva fatto pipì nel letto e per punizione l’aveva chiusa a chiave in cameretta fino all’ora di pranzo. Se almeno ci fosse stato papà, sarebbe venuto subito a salvare la sua piccola principessa.

    «Papà, vieni, ti prego» mormorò con più coraggio, speranzosa. Alcune volte si svegliava che la stanza era buia. La mamma pensava che la lampada dei suoi amici fosse difettosa.

    Un giorno il suo papà, di ritorno da un viaggio di lavoro in Svezia, le aveva portato un regalo bellissimo, un carinissimo oggetto quadrato, in legno e carta di riso, con delle figure che si muovevano al calore sprigionato dalla lampadina posta al centro, quando era accesa. Se si fosse spenta la luce centrale, sarebbero apparsi sul soffitto i due buffi gemelli panciuti della favola di Alice nel Paese delle Meraviglie. Si muovevano allegramente girando in tondo lungo tutta la parte alta della stanza. Da qualche giorno la lampada aveva iniziato a fare le bizze, lasciando Morgana al buio; aveva paura, tanta paura, e tremava fino al momento in cui la mamma la veniva a svegliare per portarla alla scuola materna.

    La mamma non voleva essere disturbata quando dormiva, diceva che non c’era bisogno di lei, diceva che se la poteva cavare da sola, ma non sapeva che il buio era pieno di mostri e lei era solo una bambina. Nel rumore affannato del suo respiro, sentì un debolissimo scatto metallico. Trattenne il fiato più che poté e nascose il viso sotto le coperte. Gli armadi erano posizionati alla sua sinistra, vicini alla porta d’ingresso; davanti a lei, due enormi finestre a bovindo, oscurate da pesanti serrande e arredate con tende e drappi che impedivano alla luce di filtrare. Mamma non voleva che l’illuminazione notturna del giardino potesse disturbare il sonno del suo piccolo angelo biondo. Anche lei aveva le stesse tende e in più indossava una mascherina da notte, di quelle che metti in frigo e che poi rinfrescano il contorno occhi. Morgana a volte ci giocava, quando la trovava in cucina, ma senza mai farsi vedere. A destra c’era la scrivania con libreria annessa e la porta del suo bagno personale, tutto rosa anche quello. Dietro il letto i giochi e lo spazio dedicato al gioco. Ogni cosa aveva una funzione precisa e lei aveva imparato presto che si doveva ubbidire alla mamma. Si era convinta, però, di non essere abbastanza brava, perché veniva continuamente sgridata.

    Le sembrò che il rumore provenisse proprio dagli armadi. Le battevano i denti così forte che temette di romperli. Tremò e scivolò ancora più giù. Poi, all’improvviso, qualcosa di caldo e liscio le sfiorò una gamba da sotto le coperte. Raggomitolandosi convulsamente, urlò con tutto il fiato pressato nei polmoni e trattenuto per troppo tempo. Un urlo infinitamente poderoso che si propagò attraverso i muri. L’urlo del terrore più nero, il grido disperato di una bambina di quattro anni che stava per essere mangiata dal mostro degli armadi. E lei era lì, ferma in piedi davanti a quel piccolo fagotto avvolto da un pigiamino rosa a pois bianchi. Riaprì gli occhi, consapevole di percepire un debole fascio di luce da sotto le coperte e con la certezza di essere finita in guai più seri. La vide, la sua dolce mammina dagli occhi di pietra, incastonati in quel viso rigido come gli inverni russi. Le mani serrate a pugno stretto si agitarono lungo i fianchi. Ansimava di rabbia e Morgana, nel vederla, urlò ancora più forte.

    Dio Santo fu sicura di aver pronunciato quella esclamazione a voce alta. Era fradicia. La canottiera sembrava appena tirata fuori da una lavatrice con la centrifuga rotta. I capelli le si erano appiccicati al viso, le mani tremavano. Le venne in mente angoscia ma era una parola troppo debole per spiegare lo stato confusionale da cui era stata avvolta. Ci sarebbe voluto un rafforzativo o forse una parolaccia, ma aveva nebbia al posto della materia grigia e non riusciva a trovarne una che facesse al suo caso. Le martellava un mortaio genovese pieno di basilico, aglio e pinoli tra il petto e le orecchie.

    Ma che ore sono? mugolò a fatica, facendo a pugni con la grattugia che si sentiva in gola. La lampada di Pinco Panco e Panco Pinco era accesa, il più tenero ricordo di suo padre ancora vicino a lei, grazie anche a quei due buffi personaggi che giravano instancabili. Dalla finestra filtrava sia la luce notturna del giardino sia quella della luna piena.

    Non male, dai, Morgana disse alla versione più ansiogena di sé stessa, sono quasi le 4 del mattino.

    Si alzò per andare in bagno, instabile su gambe diventate improvvisamente budini. Cercò di mettere a fuoco il sogno in modo da dargli un senso, ma non riuscì a trovare un nesso logico. Ero io? chiese a voce alta, sperando che qualcuno di non ben definito le potesse rispondere. Era tutto così velatamente scuro. Di certo quella era la sua cameretta ed era proprio lei quella che percepiva pensare a voce alta, ma non riusciva ad attribuirli a nessun accadimento appartenuto alla sua infanzia, anche se il terrore che aveva provato mentre sognava era così reale che le parve di conoscerlo già. C’era un nesso familiare che in quel momento non la conduceva da nessuna parte. Quei sogni così anomali erano diventati talmente frequenti che era comparsa una strana inquietudine ogni volta che si preparava per andare a dormire.

    Da un anno e mezzo andava così. Il primo incubo era arrivato all’improvviso, poi uno ogni mese circa e successivamente sempre più spesso fino ad arrivare a quasi tutte le notti. Ogni volta le appariva una situazione diversa dove però le protagoniste erano quasi sempre lei e la mamma. Sembravano essere tutti episodi legati alla sua infanzia e adolescenza, cogliendo Morgana sempre impreparata perché non le era possibile collegarli a nulla del suo trascorso. Da una parte si sentiva curiosa, ma l’ansia durante quei viaggi onirici era tale che restava poi notevolmente turbata per tutto il giorno seguente e questo stato d’animo la destabilizzava parecchio, nel quotidiano. La dottoressa Vianello, il suo medico di base, era riuscita a convincerla a incontrare il suo collega di Padova, uno psicologo specializzato in ipnosi regressive, affermando che forse avrebbe potuto essere la strada giusta per capire qualcosa in più, visto che tutto il percorso diagnostico intrapreso in quell’ultimo anno non aveva portato a nulla. Entrambe però avevano maturato la certezza che ad attivare quei sogni fosse stata una miccia molto potente, l’attentato all’aeroporto Marco Polo del 29 gennaio 2017. Non poteva esserci altra spiegazione.

    All’epoca Morgana si occupava della supervisione del personale di terra proprio di quell’aeroporto, ma in seguito all’incidente ebbe poi una promozione una volta rientrata dalle ferie premio forzate. La sua mansione era quella di far filare liscio il lavoro dei suoi subalterni in servizio e della risoluzione in tempo reale di qualsiasi problema legato a voli, passaporti, check-in e imbarco. Con in aggiunta la qualifica di H24, si attivava anche da casa, in ferie, in malattia, in piena notte e pure mentre faceva sesso, le rare volte che le capitava di trovare il partner affine all’occasione. Ed era rimasta H24 anche nel nuovo incarico.

    Non fu un vero e proprio attentato progettato per colpire la nazione ma il gesto di un folle che, imbottito di dinamite, si fece esplodere a 50 metri da lei. Aveva raggiunto l’ex moglie in partenza all’imbarco che Morgana stava supervisionando e, posizionato dietro di lei, ultima della fila, si era fatto saltare in aria riducendo in poltiglia oltre a sé stesso anche altre dieci persone che con i suoi disturbi mentali non avevano nulla a che fare se non prendere lo stesso volo della sua ex.

    Morgana si risvegliò sette giorni dopo in un letto di ospedale, basita e attonita nel trovarsi lì. Non ricordava nulla dell’accaduto, nemmeno una sensazione legata al momento della deflagrazione. Era integra, nessuna ferita a parte un vistoso livido sul femore destro, punto del suo atterraggio e unica parte ammaccata. Un miracolo, le ripeterono più volte. Lo spostamento d’aria la fece volare lontana provocando subito la perdita di conoscenza. Fu quasi un sonno antico, piuttosto che un coma.

    Si risvegliò spontaneamente dopo una settimana, sana come un pesce. Dopo altri dieci giorni di tormentosi esami approfonditi, girata e rigirata come un calzino, la spedirono a casa. Incolume nel corpo e nella mente, al suo rientro trovò una dolce nonnina ad attenderla a braccia aperte, la sua dura roccia, la sua forza. Era seduta sulla poltrona automatizzata, in compagnia della sua assistente personale. Di sua madre non vide nemmeno l’ombra, ma non poteva essere diversamente. Mandò costose rose, scrisse alcuni messaggi a cui non seguì risposta da parte di Morgana e chiamò i suoi colleghi dell’aeroporto, per sincerarsi delle condizioni della figlia visto che con la suocera aveva interrotto i rapporti il giorno in cui aveva deciso di rientrare in Russia. Morgana la vedeva in foto da allora. Alitalia le regalò dieci mesi di ferie pagate oltre a un cospicuo indennizzo. Così, al suo rientro, trovò pure la sorpresa della promozione. Venne trasferita in ufficio a occuparsi dell’assistenza e della manutenzione del sistema di prenotazione della compagnia stessa. Stava bene, non aveva riportato nessun trauma emotivo anche se alla gente che incontrava piaceva pensare il contrario. Da dopo l’incidente si era accorta che qualsiasi cosa facesse veniva trasformata in cosa strana, collegata al trauma dell’accaduto. Se canticchiava, se sorrideva di più, se era visibilmente felice in una giornata di nebbia. Il fatto di non aver subìto conseguenze turbava quasi tutte le persone che incontrava; la sua sola presenza le metteva a disagio, anche se facevano di tutto per mascherare lo stato d’animo. Alla fine smise semplicemente di occuparsi delle inquietudini altrui e tirò un sospiro di sollievo per sé. Continuava a sentirsi felice, anche se non aveva ancora incontrato la sua anima gemella e la sua adorata nonna sedeva sempre lì, sulla poltrona preferita. Era tutto ok. L’unico angolo velato della sua vita era costituito dai sogni che stavano mettendo a dura prova la sua pazienza. Si compiacque da sola per aver ascoltato il consiglio della sua dottoressa, fissando poi un appuntamento con il dottor Cusin, lasciandosi convincere che quella fosse la strada giusta per svelare l’arcano mistero che aleggiava celato dentro di lei.

    TRE

    Suo padre incontrò l’amore, quello vero, nel 1985 a Milano. Fu un caso raro che avesse partecipato a una sfilata di moda inserita all’interno del galà, organizzato dalla holding di cui lui era il presidente. Lo era perché anche in altre occasioni i vari galà si concludevano o con concerti o con altre forme di spettacolo, ma non si era mai trattenuto oltre le formalità di rito e le cene obbligate. Era un giovane uomo di 43 anni all’epoca, con un matrimonio finito 10 anni prima in modo consensuale. Si era sposato con una dottoressa ricercatrice, una specie di topo da laboratorio che passava quasi tutto il suo tempo circondata da provette cariche di batteri e virus osservati al microscopio. Non si vedevano mai, nessun figlio a fare da collante né a complicare gli accordi del giudice che firmò il loro divorzio. L’unica cosa che lei accettò fu la casa coniugale, un appartamento in centro a Milano in una zona molto esclusiva; non volle altro, nonostante il padre di Morgana fosse già uno degli amministratori delegati della tfUTURA immobiliare, azienda leader nel campo degli immobili extra lusso. Si dissero semplicemente buona fortuna a vicenda, prendendo due direzioni diverse.

    In quei dieci anni nessuna donna al suo fianco, qualche sporadica avventura sessuale e solo dedizione totale al lavoro. Era un bellissimo uomo, alto un metro e 80, occhi verdi e capelli neri molto corti. La cura che dedicava a sé e al suo benessere fisico e mentale era quasi maniacale, al pari di quella che applicava al suo adorato lavoro. Aveva tutte le qualità che ogni donna sognava di trovare nel suo principe azzurro, compresa un’ottima posizione lavorativa con annessa agiatezza economica. Forse per quello a 32 anni Morgana era ancora una zitella convinta. Forse, inconsciamente, non aveva mai reputato all’altezza nessuno, tendendo a valutare con dovizia ogni singolo dettaglio degli uomini che avevano fatto capolino nella sua vita e che non uguagliavano mai le qualità del suo adorato papà. La sera dell’evento, suo padre decise di restare. Essendo stato nominato da poco presidente dell’azienda, che negli anni si era poi trasformata in una holding, erano cambiate molte delle sue abitudini in merito alla riservatezza che tanto bramava e coltivava gelosamente. Dovette, suo malgrado, accettare il ruolo di rappresentanza pubblica come unica spina nel fianco, rispetto a tutte le nuove responsabilità acquisite con la promozione. Non amava la mondanità, punto! Sembrava impossibile ma era proprio così. Da amministratore delegato, delegava, da presidente non avrebbe più potuto farlo.

    Quella sera a Milano si festeggiava il nuovo direttivo e l’entrata di tfUTURA nel campo dell’alta moda internazionale, dopo l’acquisto della storica Maison Agata delle viole. Fu un colpaccio, una sfida voluta proprio da suo padre e che diede inizio a uno dei più grandi successi dell’azienda. Morgana chiedeva sempre ai nonni di raccontarle la storia che però sapeva praticamente a memoria. Lui stesso amava molto raccontargliela, tutte le volte che poteva. Il tempo che passava con sua figlia era sempre troppo poco e faceva il possibile, quando era a casa, per renderla felice.

    L’8 giugno del 1985 il padre di Morgana si trovava nella sua bella villa di Ca’ Bianca al Lido di Venezia, la sua isola. Quattro giorni di relax, per modo di dire visto che era sempre e comunque diviso tra telefono e fax anche quando si ritirava per rigenerarsi. Pranzò con i genitori, poi si preparò di tutto punto e si diresse al piccolo aeroporto dell’isola dove ad attenderlo c’era l’elicottero aziendale che lo avrebbe condotto a Milano. Lì possedeva un attico che usava durante la settimana lavorativa, le rare volte che non era in viaggio in giro per l’Europa.

    Boogie e Cora, i suoi due lupi cecoslovacchi, erano gli unici esseri viventi a dividere con lui il suo mondo più intimo; di loro si occupava l’addestratore dell’allevamento dove erano nati. Manuel era il solo estraneo ad avere accesso alla casa, in assenza del padre di Morgana. Soggiornava in una deliziosa dependance di 35 mq che col tempo e con l’evolversi degli eventi divenne lo studio di Morgana, situata nella parte sud del parco, verso i murazzi, a due passi dal mare. Curava il suo allevamento di giorno e si dedicava ai cani della famiglia Bordignon di sera. Fratello e sorella avevano entrambi un portamento maestoso, erano splendidi ma allo stesso tempo guardie severe, non si avvicinava nessuno. Manuel aveva dieci anni in meno del padre di Morgana ma l’esperienza acquisita iniziando a lavorare con gli animali fin da piccolo l’aveva portato a conquistare totalmente la fiducia di uno degli uomini più facoltosi e riservati dell’isola. Appariva come la persona perfetta che ogni famiglia avrebbe voluto con sé.

    Volò a Milano avvolto dalla rassegnazione per quel nuovo ruolo legato anche al dovere di intrattenere relazioni cordialmente frivole da cui di solito fuggiva a gambe levate e si inoltrò nell’esclusivo evento.

    Tutti i nomi dell’alta moda internazionale erano presenti, compresi gli alti vertici aziendali della grande famiglia di cui era a capo. Quasi 2000 persone vi presero parte, senza contare le centinaia tra giornalisti, addetti stampa e tv presenti fuori dalla tenuta.

    Cascina tfavola, il sito scelto per l’evento, era stata preparata nei minimi particolari. Nel parco, in una zona tenuta segreta fino all’ultimo, era stata montata una passerella lunga 200 metri dove si sarebbe svolta una sfilata di vestiti creati solo per l’occasione, da parte di tutte le maison invitate. Quando i nonni

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