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Per non Morire
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E-book235 pagine3 ore

Per non Morire

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Info su questo ebook

Stefano Accardi, famoso scrittore di romanzi hard, per una situazione delicata e difficile creatasi da una sua love story dal risvolto imprevedibile deve lasciare in fretta e furia la sua città. Casualmente si ferma in un paesino tranquillo distante dai fragori del gossip. Uno dei proprietari dell’albergo dove soggiorna è Gloria, avvenente giovane donna che ha deciso di chiudere la porta del suo cuore all’amore per seri motivi personali. L’incontro tra i due è folgorante come una scossa elettrica, capace di sconvolgere entrambi. Il destino imbroglia le carte, e la partita con più giocatori inizia…
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2012
ISBN9788866186427
Per non Morire

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    Anteprima del libro

    Per non Morire - Annunziata Scarponi

    Copyright © 2012

    YOUCANPRINT EDIZIONI

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    Tel. 0833.772652

    Fax 0832.1836533

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    ISBN: 9788866186427

    Prima edizione digitale 2012

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’editore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941

    L’ala del destino ci conduce

    verso mete lontane e sconosciute

    nell’irto percorso ci si perde

    E le ostilità rendono

    la felicità un’utopia

    Ci si ritrova per poi perdersi di nuovo.

    Ma il fine sublime resta

    sempre lo stesso sentimento

    per il quale vale la pena di vivere

    di soffrire, di lottare: amare

    Annunziata Scarponi

    INCIPIT

    «Cosa vuoi fare? Parla… non stare lì imbambolata come una scema, con quegli occhi sbarrati metti spavento! Che c’è, oltre che stupida sei diventata pure sorda? Mi vuoi dire cosa hai deciso? Il treno non aspetta, vieni o non vieni! Nessuno ti obbliga a seguirmi, e poi, vuoi sapere la sacrosanta verità? Tu sei per me solo una scocciatura. Ho in mente tanti progetti e tu stupida ragazzina in questi non entri! »sbraitò prendendo con furia la valigia; con la mano sulla maniglia della porta, aggiunse come per dare la parvenza di un’ultima chance da offrire: «Se non ti vedo nella hall tra cinque minuti esatti… vuol dire che hai deciso di restare. E non mi si venga a dire, poi, che ti ho abbandonata. Puah! Le ragazzine sono peggio… delle donne!»

    Il tonfo della porta coprì le ultime parole facendo sobbalzare i pochi oggetti posati su di una cassettiera e quel minuto giovane corpo. Lei non era né stupida né sorda ma scioccata, delusa e impaurita di sicuro. Si sentiva come un coniglio appena scampato alla cattura, un gattino terrorizzato da un cane enorme o un uccellino sbalzato dal nido e con un fucile spianato a pochi centimetri da lui. Il cuore batteva in un modo che non aveva sentito prima, come se un tamburo fosse entrato nel suo seno e un turbinio di sensazioni alle quali non riusciva a dare una spiegazione logica la stava avvolgendo; terrore o felicità, per la libertà insperata?

    Lui l’aveva aggredita con quel tono prepotente, implacabile, che più volte negli ultimi giorni era venuto fuori. Atteggiamento come di chi sa che deve farsi perdonare qualcosa e preferisce aggredire prima di essere aggredito, effimera illusione, a rispondergli non ci pensava affatto, non aveva più la forza di fare nulla, neppure di pensare e poi cosa avrebbe potuto replicare? Aveva ben capito che lui decideva, disfaceva, pianificava quella che era ormai diventata la sua vita. Chiamare vita, quella che lei conduceva? Un’offesa alla dignità umana! Aberrazione, la definizione giusta, lui il padrone e lei l’oppressa, la succube, colei che doveva sottostare ai suoi voleri. Era giunta in un punto dove c’è il non ritorno, non ne poteva più, di quella situazione. Continuare quella vita l’avrebbe portata alla distruzione totale, aveva deciso che non lo avrebbe seguito più, accadesse quello che doveva accadere. Da qualche giorno aveva iniziato a pregare, nella sua vita non l’aveva mai fatto, all’inizio non sapeva neppure come fare. Si limitava a parlare con quel Dio che non aveva imparato ad amare, ma sapeva o sperava con tutta l’anima che ci fosse e che potesse ascoltare le sue richieste. Dopo aver parlato con Lui, stranamente si sentiva ogni volta più forte, capace di prendere quella decisione difficile. Doveva dividere la sua vita da quel uomo, non voleva più vederlo, sentirlo, non sopportava più nulla di lui, il suo russare che le impediva di chiudere gli occhi per cinque minuti. Voleva con tutta se stessa che se ne andasse per sempre e così, solo così, forse, sarebbe stata libera, forse di sbagliare ancora, probabilmente! Forse sarebbe finita ancora peggio di come stava ora, ma almeno lo avrebbe deciso liberamente. Che stava inventando? Aveva intrapreso lei, quella strada, anche se inconsapevole di ciò che veramente significasse. Ingenua e stupida ragazzina abbindolata e illusa.

    Ora però sapeva con certezza che la porta si era richiusa e lei era lì, da sola. Non poteva essere vero, le sue sgangherate preghiere erano state forse esaudite? Quel Qualcuno aveva ascoltato le sue richieste, le sue maldestre parole? Allora Dio c’era, esisteva, non era un’invenzione, per non commettere i peccati! Ma dove era all’inizio di quella sudicia storia, dove s’era nascosto? Comprendeva che bisognava chiedere, implorare, o farsi riconoscere come una sua devota. Lui non poteva immaginare, né sapere che lei avesse bisogno di aiuto. Ora sapeva e stava esaudendo le sue richieste.

    Guardava con angoscia la porta chiusa. Era veramente sola? Oppure, lui sarebbe tornato indietro e ricondotta in giro come un cagnolino stupido? Si augurò con tutta se stessa che ciò che era appena accaduto fosse vero. Con lo sguardo svagato si sforzò di individuare attorno a sé, un particolare, magari un indumento del mostro, che le ricordasse ciò che era stato, per avere la conferma definitiva che fosse rimasta sola davvero. Niente, di lui non c’era più niente! Forse un odore sgradevole di dopobarba scadente al quale non s’era mai abituata e alcune cartacce gettate nel cestino. Doveva controllare di cosa si trattava, ma per il momento non ne aveva la forza.

    Attese qualche secondo per poter alfine respirare liberamente senza trattenersi e quindi permettersi di pensare al futuro, anche il cuore ora sembrava essersi fermato per adattarsi alla nuova situazione. Si sentiva come sospesa dentro una bolla d’aria, di quelle che fanno i bambini con la cannuccia e un po’ di sapone sciolto nell’acqua. Nulla sembrava reale. Un film muto, in bianco e nero, e lei era l’unica attrice e soprattutto immobile spettatrice. Finalmente era sola nella stanza, che lei aveva denominato delle torture. Di quello che era successo in realtà, non era veramente cosciente al cento per cento, come se lei non entrasse, o non facesse parte integrante in ciò che era successo in quel lurido ambiente. Seduta sul bordo del letto disfatto, quasi non si rendeva conto di dove si trovasse, sì, ora ricordava, era in una delle tante squallide camere di una pensione qualsiasi, di sesta o settima categoria, con nomi che sembravano usciti da romanzi classici e mitologici: Odeon, Olimpo e quello dove si trovava ora addirittura con un nome da alloggio per anziani, Il Bel Riposo. In quei giorni passati da una pensione all’altra, aveva afferrato bene una cosa, che in quel tipo di albergo tutto si faceva, meno che riposare. I rumori sommessi e neppure poi tanto, che sentiva durante la notte, mugolii, urla trattenute, che all’inizio la spaventavano a morte, dopo quell’esperienza sapeva bene cosa erano in realtà. Lei, che come tutte le ragazzine del mondo aveva sognato l’amore, nella forma più sublime, idealizzata all’estremo, aveva scoperto invece che era tutta un'altra cosa, un'altra verità. Una verità amara, sgradevole che non le piaceva, che l’aveva disgustata al punto di giurare a se stessa: se quello era l’amore, lei non avrebbe voluto più incontrarlo, mai più! Quello che aveva letto nei libri, o carpito dalle poesie, era un sentimento che purificava l’anima, che la saziava nel suo splendore più puro. Era stata una brutta scoperta, un sogno infranto. Qualcosa che non avrebbe più ripetuto, in tutta la sua vita. Non distingueva l’atto fisico, materiale, dal sentimento che invece si nutre per la persona amata, per lei erano la medesima cosa.

    Ora doveva cercare di dimenticare, di tagliare quel frammento di vita e gettarlo via lontano e che non contaminasse il suo futuro, sempre se ci fosse stato per lei un futuro.

    Sembrava che l’uscita di scena del suo aguzzino, tanto desiderata, però, non avesse cambiato quello che le stava intorno. Ambiente squallido era e ambiente più squallido ancora, restava.

    S’era immaginata più volte quel momento, semmai un giorno fosse giunto, domandandosi quale sensazione l’avrebbe invasa. Di liberazione, di esultanza oppure smarrimento e desolazione? Forse, per la gioia avrebbe persino cantato e ballato, gesti impensabili in quei frangenti. Invece si ritrovava immobile e con lacrime asciutte che non scorrevano lungo il volto dai lineamenti tirati. Piangeva, internamente. Amorfa e statica. Aveva perso la reazione alle situazioni, una forma di difesa che si era creata; non reagire per non soffrire, per non morire.

    La tristezza dei giorni passati senza un fine, senza uno scopo che le facesse provare gioia nel esistere, tornò crudelmente a lacerare le sue membra, come tanti cani affamati che dilaniavano le sue carni già martoriate abbondantemente dalle mani di quel uomo malvagio. Era stata un oggetto senza un minimo di valore nelle mani di una persona senza scrupoli, che aveva distrutto per sempre la sua spontaneità e la sua fiducia, che lei ingenuamente aveva sempre riposto negli esseri umani. Giurò per l’ennesima volta, a se stessa, che mai più si sarebbe fidata di alcuno e che nessuno mai, avrebbe giocato con la sua persona, con il suo corpo, con la sua anima. Aveva interrotto la sua adolescenza, in un modo brusco ormai era scomparsa per sempre insieme alla sua purezza, in una qualunque sudicia camera d’albergo. Una bettola buona solo per i senza speranza, i senza Dio, insomma per miseri disperati. Lei era tutto ciò, all’inizio senza un Dio in cui credere e la disperazione, fedele compagna, che non si separava mai da lei. Il posto giusto per me! riflettendo amara su ciò che era la sua condizione.

    Si sentiva svuotata da ogni energia, reclinò il capo sul cuscino come un cucciolo stanco di giocare e con quei sconsolati pensieri si addormentò; ma fu un sonno breve il suo, che durò pochi minuti, forse pochi istanti, si svegliò soprassalto ed ebbe l’immediata consapevolezza dell’estrema solitudine e abbandono in cui si trovava. A chi poteva chiedere aiuto e aggrapparsi con la poca forza rimasta per avere un po’ di sicurezza? Si sentiva immatura per affrontare il futuro da sola, senza poter contare su nessuno più adulto al quale fare affidamento, chiedere un consiglio.

    Distesa nel misero giaciglio, i suoi occhi curiosi ispezionarono il soffitto; un paio di mosche tranquille, indisturbate camminavano affaccendandosi in giri veloci attorno al filo del lampadario, altro capolavoro di inaudita bruttezza .

    Aveva inoltre iniziato ad aleggiare nella stanza l’immancabile odore acre e nauseabondo di cipolle fritte e rifritte. Una circostanza che succedeva tutti i giorni e sempre alla stessa ora. S’infiltrava al di sotto della finestra, la quale era ridotta piuttosto male, poche schegge di legno tenute insieme da molteplici strati di vernice verde, e tra i pezzetti di legno mancanti s’ intravedeva la luce dell’esterno. L’odore che diventava sempre di più rivoltante, nauseabondo saliva su dal cortile, dalla cucina del ristorante cinese, che stava proprio dietro la pensione. Fece un altro giuramento a se stessa: tanto ormai, non mi resta che giurare e promettere per non cadere più in una trappola; mai più cipolle e luride bettole per vivere.

    Si strinse attorno a sé le lenzuola, in un gesto di protezione, erano leggerissime e rese grigiastre da troppi lavaggi mal fatti, la sopracoperta, di un colore imprecisabile tra il celeste e il verde, non era da meno, talmente lisa che traspariva il lenzuolo di sotto e in vari punti tracce di vecchi rammendi, lacerati di nuovo.

    Ma nonostante lo squallore che era padrone di quell’ alloggio, si sentiva stranamente calma, forse era la sensazione giusta, ragionevole; sentirsi calma. Lui era uscito dalla sua vita e questa doveva essere una cognizione da far sembrare passabile anche quella sudicia stanza. Avrebbe iniziato a sorridere ancora, solo il futuro era ciò che i suoi occhi dovevano vedere, il passato era passato e basta, non doveva più ripensarci.

    Ma non aveva la forza di muoversi, si arrotolò su se stessa come faceva da bambina per proteggersi dalle ire di suo padre, dopo qualche secondo ci ripensò, togliendosi da quella che considerava una posizione da vittima. Per darsi un tono a voce alta si disse: «Cara mia, niente più atteggiamenti da oppressa, ora tocca a te tenere le redini in mano della tua vita e con l’aiuto di Dio e la tua forza ce la puoi fare!».

    Quel convincimento risoluto non le evitò la disperazione, anzi infuse in lei la voglia di piangere. Quell’affermazione espressa a voce le fece prendere coscienza. Pianse per un bel po’, era un vero pianto, necessario, quasi vitale, doveva scaricare tutto: il dolore, il disgusto, la vergogna. Per fortuna il suo carattere deciso, che per un po’ s’era modificato come in uno stato di inerzia, le venne in soccorso, senza ripensamenti la fece alzare quasi di scatto da quel lercio lettuccio. Non comprendeva se le lacrime che in quel momento scendevano dai suoi occhi fossero di compiacimento o di preoccupazione, le fece scivolare giù come tante perle di una collana spezzata. Fiumi di perle preziose per il suo futuro.

    E di nuovo a voce alta e con tono deciso, affermò: «Terzo giuramento, mi sa che dovrò scriverli, è una lunga lista, per non dimenticarli tutti. Mai più piangere, le lacrime non servono a nulla, e se vorrò piangere, giuro, saranno solo lacrime di gioia, di felicità».

    Si asciugò con il dorso della mano il viso stravolto e si accostò al lavabo in metallo, incrostato da vecchi strati di sporco e verderame, dove nemmeno una ranocchia di palude sarebbe vissuta volentieri. Fece scorrere l’acqua che uscì giallognola, maleodorante, poi scorrendo si schiarì e riprese il colore trasparente e solo a quel punto si gettò dell’acqua sul viso per rinfrancarsi un po’. Incurante degli schizzi che arrivavano fino a terra, sicura che quei mattoni le sarebbero stati grati, convinta che sporchi come erano, l’acqua e sapone non la vedevano da un bel pezzo. Tergendosi il volto tumefatto con un piccolo asciugamano, si guardò nel vecchio specchio dagli angoli anneriti dal tempo, attaccato sopra il lavabo. Al primo impatto si spaventò dall’immagine riflessa, non era lei quella mostrata lì dentro. Occhi cerchiati e spenti, pelle di colore grigiastro tendente al verdolino. Era molto tempo che evitava di guardarsi, provava troppa vergogna, come se il vedersi fosse la conferma della sua caduta in basso. Ora poteva farlo, il male era stato estirpato, come una pianta maligna.

    Si osservò con attenzione, facendo un piccolo esame fotografico: i capelli erano spenti, troppi pochi lavaggi, la sua pelle chiara con le lentiggini, invidia delle sue amiche, ora sembrava quella di un cadavere, aveva assunto anche un color verdolino poco piacevole alla vista, alcuni lividi che iniziavano a scomparire e che erano tra il verde e il blu non miglioravano il suo aspetto. Ma quello che più la colpì furono gli occhi, bellissimi un tempo, unico vanto, un colore non comune, ora spenti, come lampade folgorate che non emanavano più lo splendore che ricordava. Dov’era andata a finire la ragazza piena di vita e forse non bellissima, ma gradevole alla vista e soprattutto entusiasta e allegra, che era lei, fino a un paio di mesi prima? C’era quella lì, ora, al suo posto. L’altra, quella che ricordava, l’avevano soppressa, uccisa! Primi tra tutti i suoi genitori, con il loro atteggiamento di abbandono, di noncuranza del suo futuro e poi quell’uomo maledetto aveva finito il lavoro. Aveva strappato con arguzia e abilità, da esperto malfattore, la gioia di vivere, la sua ingenuità e in particolar modo i sogni dal suo cuore. Le assurde aspirazioni che aveva da sempre: cantare, diventare una famosa cantante. Ormai non cantava più e parlava pochissimo, solo qualche sillaba al giorno; un sì, un no, o un forse. Con quell’uomo non c’era dialogo, eppure, proprio il suo parlare, tipica parlantina dell’imbonitore, l’aveva affascinata, facendole perdere la testa.

    La sua esistenza con lui s’era spogliata come l’albero dalle foglie secche in autunno, s’era denudata dalle attese, dai sogni, dalle speranze che riteneva importanti per vivere, senza i sogni non si vive, si vegeta. Solo il tronco di legno corroso era rimasto a ricordare ciò che era stata. Il suo giovane, inutile corpo, che si sarebbe rinsecchito e piano, piano morto del tutto se non si dava una bella scrollata, come fanno i cagnolini dopo un bagno, per togliere l’acqua in eccesso.

    Una scrollata non sarebbe bastata, doveva darsi un vero scossone, ma uno di quelli ultra, per risalire la china, era scesa troppo in basso, ma nonostante tutto non poteva, anzi, non doveva piangersi addosso. Alla fine quale era la richiesta asfissiante nelle sue preghiere ? Voleva che lui, il mostro, se ne andasse? C’era riuscita, era sola! Adesso s’accorgeva di avere anche fame, la sera prima non aveva mandato giù niente. Si passò la mano sui capelli a mo’ di pettine, era importante un pettine, come tante altre piccole cose che le servivano e che non possedeva, ma le avrebbe rimediate in qualche modo. Certo senza soldi non sapeva immaginare come. Avrebbe rubato? C’era tanta gente che rubava in continuazione e non gli accadeva niente, perché sarebbe dovuto accadere qualcosa a lei, la prima volta? Ma non si sentiva bene con se stessa, mentre pensava a un’improbabile futura carriera di ladra, ma in quel momento non aveva alternative davanti ai suoi occhi, se non terribili e macabri finali di quell’assurda, orrenda storia, che era la sua vita.

    Mentre elaborava in maniera surreale il suo stile di sopravvivenza per il prossimo futuro, non s’accorse, presa dai foschi pensieri, di adagiarsi di nuovo sul letto e di addormentarsi in maniera diversa, esausta dal pianto di pochi minuti prima. Cadde in un sonno profondo che la fece sognare, come da tempo non le succedeva. Sempre all’erta, reclusa in un angolino del letto, per il timore che il mostro pretendesse le sue carezze. Negli ultimi giorni non s’era azzardato più a toccarla, gli ultimi ematomi erano ancora troppi evidenti, con una forza d’animo che aveva meravigliato se stessa, gli aveva sibilato con tono minaccioso: «se ci riprovi, la tua futura casa per i prossimi anni sarà una prigione, lo giuro!». Una frase così lunga non la diceva da quando era iniziato quel viaggio maledetto. Comunque sia fece l’effetto sperato, lui sembrò allarmato dalle minacce, forse non avevano valore, ma da allora non si era più avvicinato. Ed era accaduto solo cinque giorni prima.

    Nel sonno agitato e convulso, mille figure la spaventarono, girandole torno, torno come a volerla ghermire, acciuffare con un’espressione malefica, esseri dai volti emaciati, come zombi. Tentava di sfuggire, con la disperazione, ma con una lentezza inaudita, con una grande difficoltà di movimento. Poi si sentì afferrata per fortuna si svegliò, ma non riuscì a trattenere un grido, sudata e terrorizzata, aveva ancora la sensazione di sentire su di sé gli artigli e il suo corpo tremare dalla paura.

    Un filo di chiarore rossastro tipico del tardo pomeriggio si intravedeva dalle lastre di vetro, donando sinistri presagi all’ambiente che la circondava, la penombra le fece sembrare, se possibile, l’insieme ancora più brutto. Si alzò e dopo una brevissima perlustrazione scoprì che lui si era portato via tutto, lasciandole però i suoi indumenti e la sua biancheria personale, pochi stracci in realtà ma importanti come il corredo più bello. Il suo documento era lì, posato sul cassettone, di denaro nemmeno l’ombra, nemmeno un po’ di spiccioli, sono proprio nei guai pensò angosciata la ragazzina.

    Decise di controllare il cestino della carta, dispiegò con cura i fogli appallottolati e cercò di leggere per capirci qualcosa; si trattava di lettera indirizzata a lui, era scritta a mano

    E la scrittura minuta non

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