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Villette
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E-book777 pagine8 ore

Villette

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Info su questo ebook

Traduzione di Marcella Hannau Pavolini
Edizione integrale

Pubblicato nel 1853, Villette è l’ultimo romanzo compiuto di Charlotte Brontë, e da taluni è considerato il suo vero capolavoro. Un’opera percorsa da una forza straordinaria che si rispecchia nella determinazione della protagonista, la timida Lucy Snowe. Orfana e sola, Lucy ottiene un posto presso un collegio femminile nella città di Villette, dove spera di lasciarsi finalmente alle spalle le difficoltà del passato e iniziare una nuova vita. Ricco di elementi autobiografici, il romanzo ci regala il ritratto di un’eroina estremamente moderna, sensibile e combattiva, animata da una passione travolgente che la rende viva, reale. L’espediente del doppio, la lucidità d’introspezione, le molteplici sfaccettature dei personaggi, il loro modo di evolversi e definirsi gradualmente e con estrema precisione man mano che la vicenda si snoda, rendono Villette un piccolo gioiello della letteratura ottocentesca. «Villette! Villette!», scrisse George Eliot, «è un romanzo ancora più incredibile di Jane Eyre. C’è qualcosa di sovrannaturale nella sua forza».
Charlotte Brontë
(Thornton 1816 - Haworth 1855) trascorse nello Yorkshire la propria vita funestata da malattie e disgrazie familiari. Fu autrice di romanzi che hanno per protagoniste delle drammatiche figure di donne: oltre a Villette (1853), scrisse Jane Eyre (1847), Shirley (1849) e Il professore (1857). La Newton Compton ha pubblicato Jane Eyre e Villette.
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2016
ISBN9788854188952
Villette
Autore

Charlotte Brontë

Charlotte Brontë (1816-1855) was an English novelist and poet, and the eldest of the three Brontë sisters. Her experiences in boarding schools, as a governess and a teacher eventually became the basis of her novels. Under pseudonyms the sisters published their first novels; Charlotte's first published novel, Jane Eyre(1847), written under a non de plume, was an immediate literary success. During the writing of her second novel all of her siblings died. With the publication of Shirley (1849) her true identity as an author was revealed. She completed three novels in her lifetime and over 200 poems.

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    Anteprima del libro

    Villette - Charlotte Brontë

    Indice

    Nota biobibliografica

    Villette

    1. Bretton

    2. Paulina

    3. I compagni di gioco

    4. La signorina Marchmont

    5. Mutamento di vita

    6. Londra

    7. Villette

    8. Madame Beck

    9. Isidore

    10. Il dottor John

    11. La guardiola della portiera

    12. La cassettina

    13. Uno starnuto inopportuno

    14. La festa

    15. Le vacanze

    16. Tempo passato

    17. La Terrasse

    18. Litighiamo

    19. La Cleopatra

    20. Il concerto

    21. Reazione

    22. La lettera

    23. Vashti

    24. Monsieur de Bassompierre

    25. La contessina

    26. Un seppellimento

    27. L’hotel Crécy

    28. La sentinella

    29. La festa di Monsieur

    30. Monsieur Paul

    31. La driade

    32. La prima lettera

    33. Monsieur Paul mantiene la promessa

    34. Malevola

    35. Fraternità

    36. Il pomo della discordia

    37. Il sole splende

    38. Nuvola

    39. Conoscenze vecchie e nuove

    40. La coppia felice

    41. Faubourg Clotilde

    42. Finis

    547

    Traduzione di Marcella Hannau Pavolini

    Prima edizione ebook: gennaio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8895-2

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Immagine di copertina: © Mikel Casal

    Charlotte Brontë

    Villette

    Traduzione di Marcella Hannau Pavolini

    Edizione integrale

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    1812. L’irlandese Patrick Brontë, diplomatosi in belle lettere al St John College di Cambridge, si stabilisce come pastore anglicano a Hartshead, nello Yorkshire, e sposa una giovane metodista di Penzance, Cornovaglia, Maria Branwell. A Thornton, presso Bradford, dove nel frattempo i Brontë si sono trasferiti, nasce la terza figlia, Charlotte.

    1817. Nasce Branwell (Patrick Branwell).

    1818. Nasce Emily (Emily Jane).

    1820. Nasce Anne. Accoglie i Brontë il presbiterio di pietra grigia a Haworth. Tra cimitero e brughiera.

    1821. Muore di cancro la signora Brontë. La sorella di lei, Elizabeth Branwell, accorsa da Penzance, si assumerà il compito di badare ai bambini e all’andamento della casa. Nel tranquillo presbiterio non mancano stimoli. Il reverendo è un uomo colto, autore di volumetti di poesia (Cottage Poems, The Rural Minstrel), e di pagine in prosa su questioni teologiche e politiche. I piccoli mostrano interesse per la storia, la politica, la letteratura. Più tardi da una donna anziana del villaggio assunta come domestica, Tabby (Tabitha Aykroyd), ascolteranno favole, leggende, tragedie locali, resoconti di eventi e costumi e superstizioni dello Yorkshire.

    1824-1830. Il collegio per le figlie degli ecclesiastici poveri a Cowan Bridge nel Lancashire (l’orfanotrofio di Jane Eyre, Lowood) ospita le sorelle maggiori e poco dopo anche Charlotte ed Emily. Nel 1825 le prime due vi contraggono la tisi e, riportate a casa, muoiono. Da quando, sul finire dell’autunno, Charlotte ed Emily lasciano Cowan Bridge definitivamente, inizia per i quattro bambini superstiti – sotto la guida del padre e della zia – un’intensa vita di studio alla quale si aggiungerà in segreto l’elaborazione di storie fantastiche: Charlotte e Branwell creeranno la saga di Angria, Emily e Anne quella di Gondal. Rimangono, testimonianza del misterioso fervore inventivo, minuscoli manoscritti formato francobollo.

    1831. Nell’istituto della signorina Wooler a Roe Head, non lontano da Haworth, Charlotte trascorre qualche mese e si lega d’amicizia a due allieve, Mary Taylor ed Ellen Nussey. Il rapporto con loro durerà fino alla morte di Charlotte. Nel 1835 Charlotte torna nella scuola della signorina Wooler con un incarico d’insegnamento.

    1842. Dopo brevi ma dolorose esperienze come istitutrice in case private, Charlotte si reca a Bruxelles con Emily per frequentare la scuola diretta dai coniugi Héger. Una pausa a Haworth dovuta alla morte della zia, ed ecco Charlotte di nuovo a Bruxelles nel gennaio 1843. Nel dicembre dello stesso anno il reverendo Brontë, sul punto di perdere la vista, richiama la figlia.

    1844-1845. Le tre ragazze progettano di aprire nel presbiterio un istituto per cinque o sei convittrici, ma tutto va a monte; le condizioni fisiche e morali di Branwell angosciano la famiglia; Charlotte decide una scelta di liriche sue e delle sorelle da dare alle stampe.

    1846. Con gli pseudonimi di Currer, Ellis e Acton Bell (le ragazze serbano le loro iniziali) il libro esce ma passa inosservato.

    1847. Il primo romanzo di Charlotte, The Professor, non trova un editore mentre esce e riscuote un gran successo il secondo, Jane Eyre. An Autobiography, a cura di Currer Bell. Emily (Ellis) pubblica Wuthering Heights (Cime tempestose) e Anne (Acton) Agnes Grey.

    1848. Escono The Tenant of Wildfell Hall (L’inquilino di casa Wildfell), autrice Anne, e due nuove edizioni di Jane Eyre, la seconda con la dedica a Thackeray. Charlotte e Anne si recano a Londra e svelano la loro identità e quella di Emily agli editori che hanno lanciato Jane Eyre.

    1848-1849. Uno dopo l’altro muoiono Branwell (del quale ci rimane il bellissimo ritratto di Emily), Emily e Anne.

    1849. Pubblicazione di Shirley.

    1853. Esce Villette. Nel frattempo Charlotte incontra scrittori e letterati; stringe una salda amicizia con E. Gaskell, sua futura biografa.

    1854. Sposa il reverendo A.B. Nicholls, che da anni è l’assistente del padre e vive nel presbiterio.

    1855. Muore il 31 marzo, con un bimbo in grembo, dopo appena nove mesi di un matrimonio felice.

    1857. Escono la biografia della Gaskell e The Professor.

    1860. Viene pubblicato in aprile su «The Cornhill Magazine» il frammento Emma con una introduzione di Thackeray.

    1899. Inizia la Haworth Edition di tutte le opere delle Brontë, a cura di M. Ward.

    PRIME EDIZIONI

    Poems (di Currer, Ellis & Acton Bell), 1846

    Jane Eyre, An Autobiography ed. by Currer Bell, 1847

    Shirley, 1849

    Villette, 1853

    The Professor, 1857

    Emma, 1860

    Complete Poems, 1923

    Lettere: in C.K. Shorter, The Brontës: Life & Letters, 1908; M. Spark, The Brontë Letters, 1954

    The Glass Town Saga 1826-1832, 1987

    The Rise of Angria 1833-1835, 1991

    EDIZIONI ITALIANE RECENTI DI VILLETTE

    Villette, introduzione di Antonella Anedda, traduzione di Simone Caltabellota, Roma, Fazi, 2013. Villette, traduzione di Lucio Angelini

    ,

    Milano, Frassinelli, 1997.

    Villette

    1. Bretton

    La mia madrina abitava una bella casa nella linda e antica città di Bretton. La famiglia del marito vi risiedeva da molte generazioni e portava, anzi, il nome stesso del paese: Bretton di Bretton; se ciò fosse per una coincidenza o perché qualche remoto antenato era stato di tale autorità da imporre il proprio nome al paese che abitava, lo ignoro.

    Quando ero bambina andavo a Bretton un paio di volte l’anno e quelle visite mi piacevano assai. La casa e i suoi abitanti mi andavano particolarmente a genio. Le grandi camere tranquille, il mobilio ben distribuito, le limpide e larghe finestre, il balcone esterno che dava su una bella strada antica, dove sembrava prolungarsi senza fine il tempo delle domeniche e delle vacanze – tanto era placida la sua atmosfera e pulito il suo selciato –, queste cose mi davano gran piacere.

    Una bambina sola in una casa di gente adulta di solito viene molto coccolata, e in un certo modo tranquillo io infatti lo ero. Mi accarezzava la signora Bretton, la quale era rimasta vedova, con un unico figlio, prima ancora che io la conoscessi; suo marito, un medico, era morto mentre lei era ancora una donna giovane e bella.

    Non era più giovane, allora, così come me la ricordo io, ma era ancora bella, alta e ben fatta, e pur essendo eccezionalmente bruna per un’inglese, tuttavia la pelle delle sue guance olivastre era trasparente e sana, e la vivacità della salute si leggeva nei suoi begli occhi neri e allegri. La gente si rammaricava che non avesse trasmesso la propria carnagione al figlio i cui occhi erano azzurri – per quanto molto penetranti, anche quando era ancora un ragazzo –, e il colore dei propri ai lunghi capelli di lui, che gli amici non sapevano definire, tranne quando vi splendeva sopra il sole, perché allora li chiamavano senz’altro d’oro. Egli aveva ereditato, tuttavia, i tratti materni; e anche i denti sani, la statura (o la promessa della statura, giacché non aveva ancora finito di crescere) e, quel che più conta, la salute perfetta, e uno spirito vivace di quel timbro e di quell’equilibrio che valgono più d’un patrimonio per chi li possiede.

    Nell’autunno dell’anno … ero ospite dei Bretton, la mia madrina essendo venuta personalmente a prendermi da quei parenti presso i quali avevo dimora fissa in quell’epoca. Credo che già allora ella vedesse chiaramente avvicinarsi avvenimenti di cui invece io non indovinavo neppur l’ombra, ma il cui sospetto, benché indefinito, bastava a ispirarmi una vaga tristezza che mi rese ben contenta di cambiare scena e compagnia.

    Il tempo scorreva sempre senza scosse a fianco della mia madrina; non con velocità tumultuosa, ma con pigra lentezza, come la corrente d’un fiume ricco di acque quando attraversa una pianura. Le mie visite in casa sua somigliavano al soggiorno di Christian e di Hopeful¹ sulle rive di un certo piacevole ruscello con «verdi alberi su ambo le sponde e prati abbelliti da gigli durante tutto l’anno». Mancava il fascino della varietà e l’emozione degli incidenti; ma la pace mi piaceva tanto, e ricercavo così poco gli eccitamenti, che quando questi giunsero li giudicai quasi un disturbo, e rimpiansi che non fossero rimasti ancora lontani da me.

    Un giorno giunse una lettera il cui contenuto ispirò evidente sorpresa e qualche preoccupazione alla signora Bretton. Credetti lì per lì che venisse da casa mia, e tremai, aspettandomi non so quale disastrosa comunicazione; tuttavia non mi furono rivolte attenzioni speciali, e la nube mi sembrò dileguata.

    L’indomani, tornando da una lunga passeggiata, trovai, mentre entravo in camera mia, un mutamento inaspettato. Oltre al mio letto nascosto nella sua alcova ombrosa, era comparso in un angolo un lettuccio drappeggiato di bianco; e, in aggiunta al mio canterano di mogano, vidi un piccolo comò di legno di rosa. Rimasi immobile e pensosa a guardare.

    «Di che cosa costituiscono il segno e la prova, questi oggetti?», mi domandai. La risposta era ovvia: «Sta venendo un altro ospite; la signora aspetta altre visite».

    Quando scesi dabbasso per la cena, seguirono le spiegazioni. Una bambina, mi fu detto, mi sarebbe stata di lì a poco compagna; figlia d’un amico e lontano parente del fu dottor Bretton. Questa bambina, si aggiunse, aveva perduto recentemente la madre; per quanto, a dire il vero (riprese la signora Bretton), quella perdita non fosse così grave come si sarebbe potuto credere a prima vista. La signora Home – perché pare che il suo nome fosse Home – era stata una donna molto graziosa, ma sventata e leggera, che aveva trascurato la bambina e deluso e rattristato il marito. Così poco ben assortita era risultata la loro unione, che finalmente erano addivenuti a una separazione: separazione per mutuo consenso, non in seguito a procedimento legale. Poco dopo codesto avvenimento, la signora, essendosi stancata eccessivamente a un ballo, aveva preso freddo, le era sopraggiunta la febbre ed era morta dopo brevissima malattia. Suo marito, uomo dai sentimenti assai delicati per natura, e indicibilmente impressionato dalla comunicazione della notizia ricevuta troppo bruscamente, sembrava non riuscisse quasi a persuadersi che non fosse stato qualche eccesso di severità da parte sua – qualche mancanza di pazienza e d’indulgenza – a contribuire alla fine prematura della moglie. Si era così a lungo trattenuto su tale idea che la sua mente ne era rimasta gravemente colpita; i dottori insistettero perché tentasse il rimedio di un viaggio, e frattanto la signora Bretton si era offerta di ospitar la bambina. «E spero», soggiunse la mia madrina a mo’ di conclusione, «che la piccola non somigli a sua madre; la civettina più sciocca e frivola che mai uomo ragionevole abbia avuto la debolezza di sposare. Perché», disse, «il signor Home è veramente un uomo ragionevole, a modo suo, sebbene non molto pratico; ama la scienza, e passa metà della sua vita in un laboratorio a fare esperimenti… una cosa che quella farfallina di sua moglie non ha mai potuto né comprendere né sopportare. E veramente», confessò la mia madrina, «non sarebbe piaciuto neanche a me».

    Rispondendo a una mia domanda, m’informò inoltre che il suo defunto marito usava dire che il signor Home aveva ereditato quella passione per la scienza da uno zio materno, un dotto francese (perché, a quanto pareva, egli era di origine mista, francese e scozzese; e aveva parenti che attualmente abitavano in Francia, più d’uno dei quali metteva un de prima del proprio cognome, e si considerava nobile).

    Quella sera stessa, alle nove, un domestico fu mandato incontro alla diligenza con cui ci si aspettava dovesse arrivare la nostra piccola visitatrice. La signora Bretton e io, aspettando la sua venuta, ce ne stavamo sole sole in salotto, perché John Graham Bretton era assente, ospite d’un compagno di scuola che abitava in campagna. La mia madrina leggeva il giornale della sera mentre io aspettavo cucendo. Era una serata piovosa; l’acqua picchiava contro i vetri, e il rumore del vento sembrava irritato e inquieto.

    «Povera bambina!», diceva di quando in quando la signora Bretton. «Che brutto tempo per viaggiare! Magari fosse già qui, al sicuro».

    Poco prima delle dieci il campanello della porta annunciò il ritorno di Warren. Appena la porta fu aperta corsi giù; nell’atrio erano deposte, con un baule, alcune valigie, vicino alle quali stava in piedi una persona che all’aspetto sembrava una bambinaia, mentre ai piedi delle scale vi era Warren con un fagotto avvolto in uno scialle tra le braccia.

    «È codesta la bambina?», domandai.

    «Sì, signorina».

    Avrei voluto sollevare lo scialle per cercar di dare una sbirciatina a quel viso nascosto, ma questo si voltò bruscamente dall’altra parte, sulla spalla del domestico.

    «Mi metta giù, per favore», disse una vocetta quando Warren ebbe aperto la porta del salotto; «e mi levi lo scialle», riprese colei che parlava, togliendosi lo spillo con la minuscola manina e liberandosi con impazienza raffinata dalla grossa stoffa che l’avvolgeva. La creatura che ora comparve fece agilmente il tentativo di ripiegare lo scialle; ma questo era di gran lunga troppo pesante e voluminoso per essere sostenuto da quelle mani e da quelle braccia. «Lo dia a Harriet, per favore», ordinò allora. «Lo può riporre lei». Ciò detto si volse fissando gli occhi sulla signora Bretton.

    «Vieni qui, piccola cara», disse la signora. «Vieni a farmi vedere se hai freddo e se sei bagnata; e lascia ch’io ti scaldi accanto al fuoco».

    La bambina avanzò pronta. Liberata dalla coperta appariva straordinariamente minuscola; ma la sua figuretta era di bel disegno, perfettamente formata, leggera, esile e dritta. Seduta sull’ampio grembo della mia madrina, sembrava assolutamente una bambola; e il suo collo delicato come la cera, la capigliatura di riccioli serici accrescevano, a mio giudizio, la rassomiglianza.

    La signora Bretton pronunciava brevi frasi affettuose, stropicciando mani, braccia e piedi della bambina; la quale sulle prime la considerò con uno sguardo malinconico, ma ben presto le rivolse un sorriso. La signora Bretton di solito non era carezzevole per indole: anche col figlio, per quanto lo amasse profondamente, i suoi modi erano raramente, spesso anzi niente affatto sentimentali; ma quando la piccola estranea le sorrise, la baciò domandando:

    «Come si chiama la mia piccina?»

    «Signorinetta».

    «Ma oltre a signorinetta?»

    «Polly, la chiamava il babbo».

    «Sarà contenta Polly di vivere con me?»

    «Non per sempre sempre; finché il babbo non tornerà. Il babbo se n’è andato». Scosse il capo con molta espressione.

    «Tornerà da Polly… oppure la manderà a chiamare».

    «Davvero, signora? Lei lo sa?»

    «Ne sono sicura».

    «Ma Harriet crede di no; o, almeno, che ci vorrà molto tempo. È malato».

    Gli occhi le si empirono di lacrime. Ritirò la mano da quella della signora Bretton e fece un movimento come per scendere a terra. Lì per lì la signora la trattenne; ma la piccola disse:

    «Per favore, vorrei scendere; posso sedermi su uno sgabello».

    Avuto il permesso di scivolar giù dalle ginocchia della signora, prese uno sgabellino e lo portò in un angolo dove l’ombra era fitta e dove si mise a sedere. La signora Bretton, pur essendo autoritaria e, nelle cose gravi, anche perentoria, spesso si mostrava remissiva nelle piccole: permise alla bambina di fare a modo suo. Mi disse: «Non farle caso per ora». Ma io invece le badai; guardai Polly appoggiare il piccolo gomito sul piccolo ginocchio, posando il capo sulla mano; la osservai mentre cavava un fazzoletto di pochi centimetri quadrati dalla tasca da bambola della sua sottana da bambola, e poi la udii piangere. In genere i bambini che soffrono di mali morali o fisici piangono forte, senza vergogna né ritegno; ma questo esserino piangeva in silenzio. Soltanto un lievissimo tirar su col naso di quando in quando dimostrava la sua emozione. La signora Bretton non lo udì; e fu un bene. Poco dopo una voce, proveniente dall’angolo, domandò con tono sicuro:

    «Si può suonare perché venga Harriet?».

    Suonai; la bambinaia fu chiamata e si presentò. «Harriet, bisogna che mi corichi», disse la sua padroncina. «Devi domandare dov’è il mio letto».

    Harriet le spiegò di essersene già informata. «Domanda se dormirai con me, Harriet».

    «No, signorinetta», disse la bambinaia; «dividerà la camera con quella signorina», e indicò me.

    La signorinetta non si alzò in piedi, ma vidi che mi cercava con lo sguardo. Dopo qualche minuto di osservazione silenziosa, emerse dal suo angolo.

    «Le auguro la buonanotte, signora», disse alla signora Bretton; ma passò davanti a me senza una parola. «Buonanotte, Polly», dissi.

    «È inutile che ci diciamo buonanotte, se dormiamo nella medesima camera», fu la risposta con cui la piccola scomparve dal salotto. Udimmo Harriet proporle di portarla su in collo. «È inutile», fu di nuovo la sua risposta. «Inutile, inutile»; e col suo piccolo passo si avviò faticosamente su per le scale.

    Andando a letto un’ora dopo, la trovai ancora sveglia. Aveva sistemato i cuscini in modo da sostener la sua piccola persona in posizione seduta; le mani, posate una sull’altra, riposavano tranquille sul lenzuolo, con una placidità tutt’altro che infantile. Mi astenni dal rivolgerle la parola per qualche tempo, ma al momento di spegnere il lume la esortai a distendersi.

    «Più tardi», rispose.

    «Ma prenderai freddo, signorinetta».

    Tolse dalla sedia vicina al lettino non so quale minuscolo capo di vestiario, con cui si coprì le spalle. Le lasciai fare ciò che voleva. Ascoltando per un poco nell’oscurità, mi resi conto che piangeva ancora, in silenzio, con ritegno e cautela.

    Svegliandomi alla luce del giorno, mi colpì l’orecchio uno scorrer d’acqua. Quale sorpresa! La bambina si era alzata e, salita su uno sgabello vicino al lavabo, inclinava con fatica e difficoltà la brocca (che non riusciva a sollevare) per versarne il contenuto nella catinella. Era curioso osservarla mentre si lavava e si vestiva, così piccola, attiva e silenziosa. Evidentemente non era molto abituata a far toletta da sola; e i bottoni, i lacci, le asole e i ganci offrivano difficoltà che ella affrontava con divertente perseveranza. Ripiegò la camicia da notte e lisciò le coperte del letto con grande precisione; poi, ritiratasi in un angolo, dove le pieghe d’una tenda bianca la nascondevano, rimase immobile. Mi sollevai a metà sporgendo la testa per vedere che cosa stesse facendo. In ginocchio, con la fronte china sulle mani, mi accorsi che pregava.

    La bambinaia bussò alla porta. Polly si alzò bruscamente.

    «Sono pronta, Harriet», disse. «Mi sono vestita da me, ma non mi sento in ordine. Fa’ tu!».

    «Perché si è vestita da sé, signorinetta?»

    «Ssst! Parla piano, Harriet, per non svegliare la ragazza», alludendo a me che ora giacevo a occhi chiusi. «Mi sono vestita da me per imparare, per quando tu mi lascerai».

    «Vorrebbe che me ne andassi?»

    «Molte volte l’ho desiderato, quando sei arrabbiata con me, ma non adesso. Annoda per bene la mia fusciacca; lisciami i capelli per favore».

    «La sua fusciacca è abbastanza a posto. Che esserino schizzinoso è lei!».

    «Bisogna sistemarla meglio, ti prego».

    «Ecco fatto, allora. Quando me ne sarò andata dovrà farsi vestire da quella signorina».

    «Nemmeno per sogno».

    «Perché? È una signorina molto carina. E spero che vorrà comportarsi gentilmente con lei, signorinetta, senza darsi le solite arie».

    «Non mi vestirà mai».

    «Comica donnina!».

    «Il pettine, non me lo stai passando per dritto nei capelli, Harriet; la scriminatura verrà storta».

    «Eh, è difficile accontentarla. Va bene così?»

    «Abbastanza. Dove dovrei andare, adesso che sono vestita?»

    «L’accompagnerò nella stanza della prima colazione».

    «Andiamo, allora».

    Si avviarono verso la porta. La bambina si fermò.

    «Oh, Harriet, magari si fosse nella casa del babbo! Questa gente, io non la conosco».

    «Sia una buona bambina, signorinetta».

    «Sono buona, ma mi duole qui»; e si mise una mano sul cuore, ripetendo con un gemito: «Babbo! Babbo!». Mi scossi e balzai a sedere, per spezzar questa scena prima che uscisse dai giusti limiti.

    «Dica buongiorno alla signorina», la ammonì Harriet. Polly disse «Buongiorno», e subito uscì seguendo la bambinaia. Quello stesso giorno Harriet partì temporaneamente, per andare a trovare certi suoi amici che vivevano nei dintorni.

    Quando scesi dabbasso trovai Paulina (la bambina parlando di sé diceva Polly, ma il suo nome intero era Paulina Mary) seduta alla tavola della prima colazione, a fianco della signora Bretton; aveva dinanzi una tazza di latte e teneva un pezzetto di pane in una mano, appoggiata passivamente sulla tovaglia. Non mangiava.

    «Come faremo a conquistarci questa creaturina, non lo so», mi disse la signora Bretton. «Non assaggia nulla e, dall’aria che ha, direi che non deve aver dormito». Espressi la mia fiducia negli effetti del tempo e della bontà che la circondava.

    «Se potesse affezionarsi a qualcuno, in questa casa, si metterebbe presto tranquilla; ma non prima», rispose la signora Bretton.

    2. Paulina

    Trascorsero alcuni giorni e non parve probabile che la bambina avesse a simpatizzare con qualcuno in casa. Non era proprio capricciosa o disubbidiente; ma riusciva quasi impossibile immaginare una persona capace di creare un’atmosfera meno piacevole – o perfino meno tranquilla – di quella creata da lei. Se ne stava lì tutta aggrondata; nessun adulto avrebbe saputo assumere meglio di così un atteggiamento rattristante: mai viso rugoso di esiliato agognante la patria, in Europa o agli antipodi, portò più visibilmente di quel viso infantile i segni della nostalgia. Sembrava stesse diventando vecchia ed eterea. Io, Lucy Snowe, confesso di non possedere quella maledizione che è costituita da una fantasia troppo viva e parlante; eppure ogni volta che, nell’aprire una porta, la trovavo seduta sola sola, là in un angolo, col capo appoggiato a quella sua manina da pigmeo, la stanza non mi sembrava abitata da un essere umano ma da uno spettro.

    E ancora, quando, nelle notti di luna, svegliandomi, ne scorgevo la figura bianca, ben visibile nella camicia da notte, inginocchiata in posizione eretta sul letto, intenta a pregare come un’ardente cattolica o metodista – precoce fanatica o santa prematura –, non so dire quali fossero i miei pensieri; ma certo rischiavano di esser quasi altrettanto irrazionali e malsani di quelli che dovevano albergare nell’animo della bambina.

    Raramente afferravo una parola delle sue preghiere, perché le mormorava sottovoce; a volte, anzi, non le mormorava nemmeno, ma le rivolgeva al cielo senza pronunciarle; le rare frasi che giungevano al mio orecchio ripetevano sempre la solita antifona: «Babbo, mio caro babbo!». La sua, a quanto compresi, era una natura dedita a un’unica idea; e rivelava quella tendenza monomaniaca che ho sempre considerato la più disgraziata iattura che a un essere umano possa capitare.

    Quale sarebbe stato l’esito di una tale malinconia se fosse continuata senza freno, lo si può soltanto congetturare; perché d’un tratto sopravvenne una svolta improvvisa.

    Un pomeriggio, la signora Bretton, riuscita con le carezze ad attirar la bambina fuori dal suo angolo, l’aveva messa sul sedile davanti alla finestra, dicendole, per occuparne l’attenzione, di guardare la gente e contare quante signore percorressero la strada in un dato lasso di tempo. Paulina era rimasta malinconicamente seduta, quasi senza guardare i passanti e senza contarli affatto, quando i miei occhi, che erano fissi sui suoi, scorsero nell’iride e nella pupilla una trasfigurazione impressionante. Queste nature inaspettate, pericolose – sensibili, come si chiamano – offrono spettacoli sconcertanti a coloro che un temperamento più calmo ha messo al sicuro dal partecipare alle loro brusche stravaganze. Lo sguardo fisso e vitreo della bambina fluttuò, tremò, si accese; la piccola fronte aggrondata si schiarì; i tratti cupi e depressi s’illuminarono; ogni tristezza scomparve dalla fisionomia e al suo posto subentrò un’improvvisa vivacità, un’intensa attesa.

    «È lui!», furono le sue parole.

    E scomparve dalla stanza come un uccello, come una freccia, o come qualsiasi altro oggetto veloce. In che modo riuscisse ad aprire il portone, non saprei; probabilmente era socchiuso; o forse Warren si trovava lì e obbedì alla sua richiesta, che certo doveva esser stata abbastanza impetuosa da imporglisi. Io – osservando con calma la strada dalla finestra – la vidi, nel suo abito nero col minuscolo grembialino ornato di zagana (i grembialoni interi le erano antipatici) precipitarsi fino a metà della via; e, mentre stavo per voltarmi ad annunciare alla signora Bretton che la bambina, improvvisamente impazzita, era corsa fuori, e che bisognava seguirla immediatamente, la vidi sollevare da terra, scomparendo alla mia tranquilla osservazione e agli sguardi stupiti dei passanti. A compiere questo bel gesto era stato un signore; il quale ora, coprendola col proprio mantello, si avviò per riportarla nella casa donde l’aveva veduta uscire.

    Pensai che certamente l’avrebbe affidata a un domestico e che se ne sarebbe andato subito; invece entrò e, dopo essersi attardato un poco dabbasso, salì le scale.

    Il modo come fu ricevuto mi rivelò immediatamente che la signora Bretton lo conosceva. Lo riconobbe e lo salutò, ma era agitata, stupita, come colta di sorpresa. I suoi sguardi e i suoi modi esprimevano addirittura una protesta; e fu rispondendo più a questi che alle sue parole che egli disse:

    «Non ho potuto trattenermi, signora; mi è riuscito impossibile lasciare il Paese senza vedere con i miei occhi come fosse sistemata la bambina».

    «Ma lei tornerà a metterla in agitazione».

    «Spero di no. E come sta la piccola Polly del babbo suo?».

    La domanda fu rivolta a Paulina, mentre il padre si metteva a sedere deponendola dolcemente a terra dinanzi a sé.

    «Come sta il babbo di Polly?», fu la risposta, mentre la piccola gli si appoggiava al ginocchio, alzando gli occhi verso di lui.

    Non fu una scena chiassosa, loquace: e di ciò mi sentii grata; tuttavia era una scena troppo colma di sentimento e, appunto perché la tazza non schiumeggiava né spandeva furiosamente il proprio contenuto, riusciva più opprimente che mai. Tutte le volte che si verifica un veemente, sfrenato scoppio di passioni, il senso di disprezzo o di ridicolo che esso desta viene a sollevare lo stanco spettatore; mentre per parte mia ho sempre trovato più pesante quel sentimentalismo che si piega di propria volontà, come uno schiavo gigantesco sotto la sferza del buon senso.

    Il signor Home aveva tratti severi, o forse dovrei definirli duri: fronte nodosa, e zigomi marcati e prominenti. Il carattere del viso si denunciava subito per scozzese; ma vi era sentimento nei suoi occhi ed emozione nella sua fisionomia, in quel momento agitata. Quando parlava, l’accento nordico si armonizzava col suo volto. Aveva un’aria orgogliosa e semplice insieme.

    Posò la mano sul capo che la bambina alzava verso di lui. Essa chiese:

    «Baci Polly».

    Egli la baciò. Avrei preferito che la piccola emettesse un grido isterico, per poterne trar sollievo e sentirmi a mio agio. Ma invece rimaneva straordinariamente silenziosa; sembrava avesse avuto ormai ciò che desiderava – tutto ciò che desiderava – e che si trovasse in una specie di coma di felicità. Non nell’espressione, né nei tratti, quella creatura somigliava al padre, eppure era perfettamente all’unisono con lui: il suo cervello era stato riempito da quello paterno, come una tazza dalla caraffa.

    Indiscutibilmente il signor Home possedeva un virile controllo di sé, quali che fossero i suoi segreti pensieri riguardo a determinate questioni. «Polly», disse abbassando gli occhi sulla bambina, «va’ nell’atrio; vedrai il cappotto del babbo su una sedia; metti la mano nelle tasche e vi troverai un fazzoletto; portamelo».

    Ella obbedì; andò e tornò agilmente e con sicurezza. Il signor Home stava parlando con la signora Bretton quando Paulina tornò e restò in attesa col fazzoletto in mano. Era un quadretto, in certo modo, guardarla, con quella sua minuscola statura e la figurina ben disegnata e ben fatta, mentre stava immobile accanto alle ginocchia del padre. Vedendo che continuava a parlare come se non l’avesse veduta rientrare, gli prese la mano, ne aprì senza sforzo le dita, vi insinuò dentro il fazzoletto e ve le richiuse sopra pian piano. Ancora egli sembrò non accorgersi di lei né del suo contatto; ma dopo un poco la sollevò sulle proprie ginocchia; Polly gli si strinse accanto e per quanto né l’uno né l’altra si guardassero o si rivolgessero la parola per un’ora intera, credo tuttavia che ambedue si sentissero pienamente soddisfatti.

    Durante il tè, le mosse e il comportamento di quell’essere minuscolo furono, come al solito, continuo pasto per gli occhi. Per prima cosa impartì i propri ordini a Warren mentre questi disponeva le sedie.

    «Metti la sedia del babbo qui, e la mia vicino alla sua, tra il babbo e la signora Bretton; devo occuparmi io del suo tè».

    Messasi a sedere, chiamò il padre con un cenno.

    «Stia vicino a me, come se si fosse a casa nostra, babbo».

    E ancora, intercettata la tazza che gli veniva offerta, gli mescolava lei lo zucchero e gli versava la crema. «A casa ho sempre fatto io queste cose, babbo; nessuno potrebbe farle altrettanto bene, nemmeno lei stesso».

    Durante tutto il tempo continuò a prodigargli le sue cure: ed erano piuttosto ridicole. Le pinze per lo zucchero erano troppo larghe per una sua manina sola, e doveva adoperarle tutt’e due; il peso del recipiente d’argento per la crema, i piatti del pane e del burro, la tazza stessa col suo piattino mettevano a dura prova la forza e la destrezza della bambina; ma questa sollevava ugualmente un dato oggetto, un altro ne offriva, e per fortuna riusciva a far tutto questo senza rompere nulla. Per dirla sinceramente, io la trovavo una piccola ficcanaso; ma suo padre, accecato come lo sono molti genitori, sembrava perfettamente soddisfatto di farsi servire da lei, e ricavava una meravigliosa tranquillità dalle sue premure.

    «È tutto il mio conforto!», non poté trattenersi dal dire alla signora Bretton. E siccome costei possedeva un «conforto» e un toccasana su scala assai maggiore (benché temporaneamente assente), fu in grado di comprendere la debolezza dell’ospite.

    Questo secondo «conforto» entrò in scena nel corso della serata. Sapevo già che quello era il giorno fissato per il suo ritorno e mi resi conto che fin dalla mattina la signora Bretton ne era in attesa. Eravamo seduti intorno al fuoco, dopo il tè, quando Graham si unì al nostro circolo: anzi, dovrei dire che lo spezzò, perché, naturalmente, il suo arrivo determinò una certa confusione; senza contare che, il signor Graham essendo a digiuno, si dovette provvedere al suo ristoro. Egli e il signor Home si salutarono come vecchi amici; della bambina invece non prese nota, per il momento almeno.

    Finito di mangiar qualcosa e risposto alle numerose domande della madre, lasciò la tavola per avvicinarsi al caminetto. Di fronte al posto che scelse sedeva il signor Home, il quale aveva la bambina vicino al proprio gomito. Quando dico «bambina» uso un termine poco appropriato e che non la descrive esattamente, un termine che può evocare un qualsiasi bel quadretto ma non quello della personcina aggraziata che, con un abito da lutto e una camicetta bianca fatti a misura per una bambola un po’ grande, se ne stava arrampicata su una sedia alta di fianco a un tavolino su cui appariva la sua scatola da lavoro di legno bianco verniciato, simile a un giocattolo. Ella teneva in mano un piccolo straccio di fazzoletto che affermava di star orlando, e in cui difatti infilava con tenacia un ago – che tra le sue dita sembrava un punteruolo – pungendosi replicatamente e lasciando sulla batista una serie di macchioline rosse. Trasaliva tutte le volte che quell’arma perfida – sfuggendo al suo controllo – le infliggeva una pugnalata più profonda; ma sempre si manteneva silenziosa, diligente, assorta e femminile.

    Graham in quell’epoca era un giovane sedicenne, bello, ma d’aspetto infido. Dico d’aspetto infido non perché il suo carattere fosse realmente insincero, ma perché l’epiteto mi sembra appropriato per dare un’idea della sua bellezza bionda e di tipo assai più celtico che sassone, con quei capelli chiari, ramati e ondulati, l’agile simmetria del volto, il sorriso frequente e non privo di fascino né di furberia (uso il termine in senso buono). Era un ragazzo viziato e fantasioso a quei tempi.

    «Mamma», disse, dopo avere considerato in silenzio per un poco la figurina che gli stava dinanzi, in un momento in cui l’assenza temporanea del signor Home dalla stanza lo sollevava da un imbarazzo semischerzoso che era per lui il massimo della timidezza; «Mamma, vedo in questa compagnia una signorina alla quale non sono stato presentato».

    «Suppongo tu alluda alla bambina del signor Home», fece la madre.

    «Veramente, signora», rispose il giovane, «considero la sua frase assai poco cerimoniosa; per parte mia, avrei certamente detto la signorina Home, se avessi osato parlare apertamente della giovane gentildonna cui accennavo».

    «Orsù, Graham, non voglio che tu canzoni questa bambina. Non sperar ch’io sopporti che tu la prenda di mira con i tuoi scherzi».

    «Signorina Home», riprese Graham, senza lasciarsi impressionare dalle rimostranze materne, «posso aver l’onore di presentarmi da me, dato che nessuno sembra disposto a renderci questo servigio? Sono John Graham Bretton, schiavo suo».

    Paulina lo guardò; egli si alzò, inchinandosi con grande serietà. Lei depose con gesto deciso il ditale, le forbici e il lavoro; e, discesa con precauzione dall’alto sedile e facendogli una riverenza con indicibile serietà, gli disse: «Come sta?»

    «Ho l’onore di godere buona salute; sono soltanto un po’ stanco per aver compiuto un viaggio affrettato. Spero, signorina, che lei stia bene».

    «Tollerabilmente bene», fu l’ambiziosa risposta della donnina; la quale ora tentò di risalire sul proprio trono elevato, ma, accorgendosi di non potervi riuscire senza qualche sforzo per arrampicarsi fin lassù – sacrificio inconcepibile del decoro – e provando una totale avversione all’idea di farsi aiutare da altri in presenza d’un giovane signore conosciuto da poco, abbandonò l’alta sedia per uno sgabello di piccole dimensioni, verso il quale Graham spostò la propria sedia.

    «Spero, signorina, che l’attuale sua residenza, la casa di mia madre, le sembri un alloggio conveniente».

    «Non particolarmente; preferirei tornare a casa».

    «Desiderio naturale e lodevole, signorina; al quale, ciononostante, farò del mio meglio per oppormi. Conto trarre da lei un poco di quella merce preziosa che si chiama divertimento, e che mia madre e la signorina Snowe, qui presente, non riescono a fornirmi».

    «Dovrò ripartire tra poco col babbo; non rimarrò a lungo da sua madre».

    «No, no; resterà con me, ne sono sicuro. Ho un pony su cui lei cavalcherà, e un’infinità di libri illustrati da mostrarle».

    «E lei adesso vivrà qui?»

    «Infatti. La cosa le fa piacere? Le sono simpatico?»

    «No».

    «Perché?»

    «Mi sembra strano».

    «Che cosa le sembra strano, signorina? Il mio viso?»

    «Il suo viso e tutto lei. Ha i capelli lunghi e rossi».

    «Capelli ramati, prego; mia madre li chiama ramati o dorati, e altrettanto fanno tutte le sue amiche. Ma anche con i miei capelli lunghi e rossi», e agitò la fulva criniera con aria quasi di trionfo perché anche lui era fiero di quella tinta leonina, «non posso assolutamente essere più strano di vossignoria».

    «Mi trova strana?»

    «Senza dubbio».

    (Dopo un silenzio): «Credo che me ne andrò a letto».

    «Una cosina come lei dovrebb’essere a letto da molte ore; ma probabilmente è rimasta alzata in attesa di vedermi?»

    «No davvero».

    «Desiderava certamente godersi il piacere della mia compagnia. Sapeva che dovevo tornare a casa e ha voluto aspettare per darmi un’occhiata».

    «Sono rimasta alzata per il babbo, non per lei».

    «Benissimo, signorina Home. Ma io diventerò il suo prediletto; preferito tra poco anche al babbo, probabilmente».

    Paulina augurò la buonanotte alla signora Bretton e a me; sembrava incerta se i meriti di Graham gli dessero il diritto a una simile cortesia, quando il giovane la afferrò con una mano sola e la tenne sollevata in aria sopra la propria testa. La bambina si vide così, riflessa in alto nello specchio sopra il caminetto. Un’azione tanto improvvisa, disinvolta e irrispettosa accese la sua indignazione.

    «Vergogna, signor Graham!», gridò con orrore, «mi metta giù!». E come si ritrovò in piedi: «Vorrei sapere che cosa penserebbe di me se io la trattassi a questo modo, sollevandola con una mano sola», e mostrava quell’arto minuscolo, «come Warren alza il suo gattino». E così dicendo, se ne andò.

    3. I compagni di gioco

    Il signor Home si trattenne due giorni. Per l’intera durata della sua visita non lo si poté mai persuadere a uscire; se ne stava seduto tutto il giorno vicino al caminetto, a volte silenzioso, a volte ascoltando e partecipando alla conversazione della signora Bretton, la quale lo intratteneva proprio nel modo più adatto per un uomo del suo umore morboso – senza mostrarsi troppo impietosita, voglio dire, e nemmeno troppo indifferente, ma sensata; e perfino con una sfumatura materna – ed era abbastanza più anziana di lui perché tale sfumatura le fosse consentita.

    Quanto a Paulina, era tutt’insieme felice e silenziosa, attiva e assorta. Suo padre la prendeva spesso sulle ginocchia; e lei rimaneva lì seduta fino a che capiva, o le pareva di capire, che il padre si innervosisse; allora:

    «Babbo, mi metta giù», diceva; «la stancherò col mio peso».

    E quel grave pondo scivolava sul tappeto, sistemandosi per terra o su uno sgabello ai piedi del «babbo»; allora, ecco comparire la scatola da lavoro bianca e il fazzoletto punteggiato di rosso. Evidentemente quel fazzoletto doveva diventare un regalo d’addio per il «babbo», e bisognava fosse finito prima della sua partenza; la necessità d’un intenso lavoro da parte della cucitrice (la quale eseguiva una ventina di punti ogni mezz’ora) era quindi impellente.

    La sera, riconducendo Graham al tetto materno (il giovane passava la giornata a scuola), ci apportava una nuova animazione, tutt’altro che diminuita dalla natura delle scene che senza fallo si svolgevano tra lui e la signorina Paulina.

    Un atteggiamento distaccato e sprezzante era il risultato del trattamento indegno che quest’ultima aveva dovuto subire la sera dell’arrivo di Graham; e la sua risposta, di solito, quando il giovane le rivolgeva la parola, era:

    «Non posso occuparmi di lei; ho altre cose a cui pensare», e quando egli la implorava di definire quali cose, dichiarava: «Affari».

    Graham allora tentava d’attrarre la sua attenzione aprendo la scrivania e rivelando i molti oggetti che conteneva: sigilli, lucidi bastoni di ceralacca, temperini e una quantità d’incisioni – alcune delle quali gaiamente colorate – che era andato raccogliendo un po’ per volta. Né una così potente tentazione rimaneva del tutto inoperante: gli occhi della bambina, sollevandosi furtivamente dal lavoro, lanciavano più d’uno sguardo verso la scrivania, ricoperta d’illustrazioni sparse. Un’incisione, raffigurante un bambino che giocava con uno spaniel Blenheim, cadde casualmente a terra.

    «Che grazioso cagnolino!», esclamò Polly, ammirata.

    Graham prudentemente mostrò di non badarle. Poco dopo, staccandosi in silenzio dal proprio angolo, la bambina si avvicinò per esaminar più da vicino quel tesoro. I grandi occhi e le lunghe orecchie del cane e il cappello piumato del bambino risultarono irresistibili.

    «Che bel quadretto!», fu la sua critica favorevole.

    «Ebbene… può prenderlo», disse Graham.

    Polly parve esitare. Il desiderio di possesso era forte; ma, accettando, avrebbe compromesso la propria dignità. Depose l’incisione, voltandosi da un’altra parte.

    «Non lo vuole, dunque, Polly?»

    «Preferirei di no, grazie».

    «Vuole che le dica che cosa ne farò di questo quadretto, se lo rifiuta?».

    Paulina si voltò a mezzo per ascoltar meglio.

    «Lo taglierò a strisce per accendermi la candela».

    «No!».

    «Lo farò invece».

    «Per favore… no».

    Graham si mostrò inesorabile nonostante il tono supplichevole di lei; prese le forbici dalla scatola da lavoro della madre.

    «Ecco!», fece, con un largo gesto minaccioso. «Dritto sulla testa di Fido e attraverso il naso del piccolo Harry».

    «No! No!

    NO

    !».

    «Allora venga qui. E presto, altrimenti taglio».

    Polly esitò, tergiversò, ma alla fine ubbidì.

    «Adesso lo vuole?», domandò Graham, quando gli fu davanti.

    «Per favore».

    «Ma voglio essere pagato».

    «Il prezzo?»

    «Un bacio».

    «Prima mi metta in mano il quadretto».

    Così dicendo Polly sembrava a sua volta poco degna di fiducia. Graham le diede l’incisione, ma la bambina fuggì lontano dal proprio creditore, precipitandosi dal padre e rifugiandosi sulle sue ginocchia. Graham, con finta collera, la seguì. Polly affondò il viso nel panciotto del signor Home.

    «Babbo… babbo… mandalo via!».

    «Non mi lascerò mandar via», disse Graham.

    Col viso ancora voltato, la piccola tese la mano per respingerlo.

    «Allora bacerò la mano», disse il giovane; ma in quel momento la manina si tramutò in un pugno minuscolo che gli vibrò un pagamento in spiccioli che non erano davvero baci.

    Graham – capace di mostrarsi astuto a modo suo quanto la sua piccola compagna di gioco – si ritirò apparentemente avvilitissimo; buttandosi su un divano, appoggiò la testa sul cuscino, rimanendo disteso, quasi fosse in preda a terribili sofferenze. Accorgendosi del suo silenzio, dopo un poco Polly gli lanciò una sbirciatina, ma l’altro si copriva il viso e gli occhi con le mani. Polly si voltò sulle ginocchia paterne per osservare a lungo ansiosamente il proprio nemico. Graham emise un gemito.

    «Babbo, che cosa gli sarà successo?», mormorò la bambina.

    «Sarà meglio che tu lo domandi a lui, Polly».

    «Gli avrò fatto male?». (Secondo gemito).

    «A sentirlo, sembrerebbe di sì», disse il signor Home.

    «Mamma», fece con voce fioca Graham, «credo che farai bene a chiamare un medico. Oh, il mio occhio!». (Nuovo silenzio, spezzato solo dai sospiri di Graham).

    «Se dovessi diventar cieco?…», egli suggerì finalmente.

    La sua castigatrice non poté sopportare l’ipotesi. In un attimo gli fu vicina.

    «Lasci che veda il suo occhio; non intendevo toccarla; volevo solo colpirla sulla bocca. E non mi pareva d’aver dato una botta tanto forte».

    Non le rispose che il silenzio. Il viso le si contrasse. «Mi scusi, mi scusi!».

    Seguirono quindi emozione, balbettamenti, lacrime.

    «Smetti di tormentare codesta bambina, Graham», disse la signora Bretton.

    «Sta scherzando, tesoro», esclamò il signor Home.

    Graham allora la sollevò di nuovo bruscamente in alto e lei di nuovo lo colpì; e tirandogli le chiome leonine, lo andava chiamando: «La persona più cattiva, maleducata, malvagia e bugiarda che mai si vide al mondo».

    La mattina della partenza del signor Home, costui ebbe un colloquio con la figliola nel vano d’una finestra; io ne udii soltanto una parte.

    «Non potrei fare il mio baule e venire con lei, babbo?», mormorò la bambina con voce intensa.

    Il padre scosse il capo.

    «Le sarei di disturbo?»

    «Sì, Polly».

    «Perché sono piccola?»

    «Perché sei piccola e fragile. Soltanto le persone grandi e robuste possono viaggiare. Ma non avere l’aria così triste, bambina mia; mi spezzi il cuore. Il babbo tornerà presto dalla sua Polly».

    «Davvero, davvero non sono triste, quasi per niente».

    «A Polly dovrebbe dispiacere di dare un dolore al babbo; non è vero?»

    «Mi dispiacerebbe tanto tanto».

    «Allora Polly dev’essere allegra; non deve piangere nel salutarmi; né rimaner triste dopo. Deve aspettare con gioia il momento in cui ci ritroveremo, e intanto sforzarsi d’esser felice. Può farlo?»

    «Si sforzerà».

    «Vedo che lo farà. Addio, allora. È tempo di partire».

    «Adesso?… proprio adesso

    «Proprio adesso».

    La bambina tese le labbra tremanti. Suo padre pianse, ma, a quanto vidi, lei no. Dopo averla posata a terra, il signor Home strinse la mano a tutti i presenti e partì.

    Quando il portone si richiuse, la bambina cadde in ginocchio vicino a una sedia con un grido: «Babbo!».

    Fu un grido lungo e fioco; una specie di: «Perché mi hai abbandonato?», Per qualche minuto mi resi conto che la piccola era in preda a una terribile angoscia. In quel breve intervallo della sua vita infantile, dovette passare emozioni di tal violenza come molti non ne provano mai nella vita. Era fatta così; e altri momenti simili avrebbe passato se fosse vissuta a lungo. Nessuno parlò. La signora Bretton, da quella madre che era, sparse per lei qualche lacrima. Graham, il quale stava scrivendo, alzò gli occhi a osservarla. Io, Lucy Snowe, rimasi calma.

    Lasciata così a se stessa, quella creaturina fece da sé ciò che nessun altro avrebbe potuto fare per lei: combatté contro un sentimento intollerabile; e, poco dopo, riuscì, fino a un certo punto almeno, a domarlo. In tutto quel giorno non si lasciò distrarre da nessuno, e nemmeno il giorno successivo. In seguito, però, si fece più remissiva.

    La terza sera, mentre stava seduta per terra, stanca e silenziosa, Graham, entrando, la prese in collo dolcemente, senza una parola. La bambina non gli resistette; anzi si accoccolò tra le sue braccia, quasi si sentisse esausta. Quando il giovane si mise a sedere, Polly appoggiò il capo sulla sua spalla; dopo pochi minuti, dormiva, e Graham la portò su a letto. Non rimasi sorpresa quando, l’indomani mattina, la prima domanda della bambina fu: «Dov’è il signor Graham?».

    Accadde che, quel giorno, Graham non volle fare la prima colazione con noi; dovendo preparare certi compiti per le lezioni di quella mattina, aveva pregato la madre di mandargli una tazza di tè nel suo studio. Polly si offrì di portargliela; aveva sempre bisogno di darsi da fare per qualche cosa, di occuparsi di qualcuno. La tazza le fu affidata, perché, sebbene irrequieta, sapeva anche essere molto attenta. Siccome lo studio era di fronte alla camera della prima colazione, e le due porte l’una in faccia all’altra, nel corridoio, la seguii con gli occhi.

    «Che cosa sta facendo?», domandò Polly sostando sulla soglia.

    «Scrivo», rispose Graham.

    «Perché non viene a far colazione con la sua mamma?»

    «Troppo occupato».

    «Vuole far colazione, però?»

    «Certamente».

    «Ecco qui, allora».

    E posò la tazza sul tappeto, come un carceriere che consegnasse la brocca dell’acqua a un prigioniero attraverso la grata della cella, e si ritirò. Dopo poco, tuttavia fu di ritorno.

    «Che cosa vuole oltre al tè… per mangiare?»

    «Quello che vuole, purché sia buono. Ma porti qualcosa di particolarmente appetitoso, da brava donnina».

    La bambina tornò dalla signora Bretton.

    «Per favore, signora, mandi qualcosa di buono al suo ragazzo».

    «Scegli tu per lui, Polly. Che diresti di portargli, al mio ragazzo?».

    La piccola raccolse un assaggio di tutto ciò che vi era di meglio sulla tavola, ma poi tornò indietro chiedendo sottovoce della marmellata d’arancia. Questa però mancava. Essendosene procurata un po’ (la signora Bretton non rifiutava mai nulla a quei due) si udì poco dopo Graham alzare le lodi di Paulina fino al cielo; e prometterle che, quando avrebbe avuto una casa sua, l’avrebbe presa per governante, e forse – se avesse mostrato di possedere del genio per la cucina – addirittura per cuoca. Quando, vedendo che la bambina non tornava, andai a prenderla, la trovai che faceva colazione in tête-à-tête con Graham: in piedi all’altezza del suo gomito, ne condivideva il pasto, tranne la marmellata, che rifiutò – per delicatezza – di assaggiare, forse per non dar l’impressione che se la fosse procurata per sé oltre che per lui. Continuamente rivelava sottili percezioni come questa e istinti così delicati.

    La lega amichevole in tal modo iniziata non si sciolse tanto rapidamente; al contrario, tempo e circostanze parve servissero a cementarla invece che ad allentarla. Male accoppiati come erano per età, sesso, interessi, eccetera, tuttavia quei due trovavano sempre, chissà come, una quantità di cose da dirsi. Quanto a Paulina, notai che il suo piccolo carattere non si rivelava mai per intero altro che col giovane Bretton. Via via che si installava e si abituava alla casa, andò facendosi abbastanza trattabile con la signora Bretton; ma si limitava a starsene seduta tutto il giorno su uno sgabello ai piedi di lei, studiando le lezioni, o cucendo, o tracciando numeri su una lavagna con una matita, senza mai cedere a moti personali della sua indole. Allora io cessavo di osservarla: non era interessante. Ma la sera, appena si udiva Graham bussare alla porta, avveniva in lei un mutamento; immediatamente si trovava in capo alle scale. E di solito la sua accoglienza consisteva in un rimprovero o in una minaccia.

    «Non si è asciugato per bene i piedi sullo stuoino. Lo dirò alla sua mamma».

    «Piccola ficcanaso! È lassù?»

    «Sì… e non riuscirà a raggiungermi: sono molto più in alto di lei!». (E sbirciava di tra i ferri della ringhiera, non riuscendo a guardar dal di sopra).

    «Polly!».

    «Mio caro ragazzo!». (Così lo chiamava, imitando la madre del giovane).

    «Sono lì lì per svenire dalla stanchezza», dichiarava Graham appoggiandosi alla parete del corridoio come fosse in preda a un falso esaurimento. «Il dottor Digby» (il preside), «mi ha proprio ridotto a terra facendomi studiare troppo. Scenda e mi aiuti a portar su i miei libri».

    «Ah, è furbo, lei!».

    «Nemmeno per idea, Polly, è una verità assoluta. Sono debole come un uccellino. Scenda».

    «I suoi occhi sono tranquilli come quelli del gatto, ma poi farà un balzo come lui».

    «Io balzare? Macché! Non ce la farei. Scenda».

    «Forse scenderò, se mi promette di non toccarmi, di non sollevarmi all’improvviso in aria o farmi girare in tondo».

    «Io? Non ne avrei la forza!» (abbandonandosi su una sedia).

    «Allora posi i libri sul primo gradino e si allontani di tre metri».

    Obbedita, la bambina scendeva con cautela, senza togliere gli occhi di dosso al debole Graham. Naturalmente, al suo avvicinarsi, il giovane si galvanizzava in una nuova vita spasmodica: e subito esplodeva una chiassosa partita a rincorrersi. Qualche volta Polly si adirava; oppure la scena si svolgeva senza chiasso e la udivamo dire, mentre lo conduceva di sopra:

    «Adesso, mio caro ragazzo, venga a prendere il suo tè: sono sicura che ne ha bisogno».

    Era piuttosto comico osservarla, seduta vicino a Graham, mentre questi faceva la sua merenda. In assenza del giovane, Polly era un personaggio tranquillo, ma con lui appariva l’esserino più servizievole e agitato di questo mondo. Spesso rimpiangevo che non si dominasse; no, dimenticava se stessa in lui: Graham non poteva essere mai servito abbastanza, né curato con sufficiente attenzione; nella sua stima egli era più importante del Gran Turco. Un po’ per volta raccoglieva i vari piatti dinanzi a lui, e, quando si poteva credere che tutto quanto egli potesse desiderare fosse a portata di mano del giovane, le veniva in mente qualche altra cosa ancora:

    «Signora», sussurrava alla signora Bretton, «forse suo figlio vorrebbe un po’ di torta; quella torta dolce, sa: ce n’è là dentro» (indicando la credenza). Di solito la signora Bretton disapprovava che si mangiasse la torta dolce col tè, ma la richiesta le veniva ripetuta con maggior calore: «Una fettina… solo per lui… visto che va a scuola; le ragazze – come me e la signorina Snowe – non hanno bisogno di dolciumi, ma a lui piacerebbe mangiarne un po’…».

    A Graham infatti piaceva molto, e la torta gli veniva concessa quasi sempre. Per esser giusti, bisogna dire che l’avrebbe condivisa volentieri con colei alla quale ne era debitore; ma della cosa non c’era neanche da parlarne; e insistere presso di lei l’avrebbe messa di cattivo umore per tutta la sera. Potersene stare in piedi vicino alle sue ginocchia, monopolizzando la sua conversazione e la sua attenzione, era l’unico premio che la bambina desiderava; non le importava affatto di prendere una parte della torta.

    Con strana prontezza si adattava ai temi che maggiormente lo interessavano. Si sarebbe creduto che la bambina non avesse un cervello o una vita propria, ma necessariamente dovesse vivere, muoversi e trovare in altri la propria vera essenza: ora che il padre le era stato tolto, si era attaccata a Graham, e sembrava sentisse con i sentimenti di lui, esistesse con la sua esistenza. Imparò in un baleno il nome di tutti i suoi compagni di scuola; ne capì a menadito i caratteri ascoltandoli descrivere dalle sue labbra; una sola definizione sembrava bastarle per una persona. Non dimenticava mai né confondeva le diverse identità: tutta la sera gli parlava di persone che non aveva mai vedute, e sembrava rendersi perfettamente conto del loro aspetto, del loro modo di fare e delle loro qualità. Imparò perfino a imitarne qualcuna: un supplente, che riusciva antipatico al giovane Bretton, aveva, pare, alcune caratteristiche che la bambina afferrò subito dalla descrizione di Graham e che riproduceva per suo divertimento; la cosa, tuttavia, non piacque alla signora Bretton, che le proibì simili imitazioni.

    I due raramente litigavano; tuttavia una volta ebbe luogo una rottura che fece subire un forte trauma ai sentimenti di Paulina.

    Quel giorno Graham, in occasione del proprio compleanno, aveva invitato alcuni amici – ragazzi della sua età – a cena. Paulina si interessò molto alla venuta di costoro; li aveva uditi nominare spesso; erano anzi tra quelli di cui Graham parlava con più frequenza. Dopo cena, i giovanotti, lasciati soli in sala da pranzo, fecero presto a diventare un po’ troppo allegri e chiassosi. Passando per caso nell’atrio, vidi Paulina seduta sola sola sul primo gradino della scala, con gli occhi fissi sui pannelli lucidi della porta della sala da pranzo, dove si rifletteva la lampada dell’atrio; la sua piccola fronte era aggrottata in ansiosa meditazione.

    «A che pensi, Polly?»

    «A niente in particolare; solo vorrei che quella porta fosse di vetro trasparente, per poter vedere attraverso. I ragazzi sembrano molto allegri, e mi piacerebbe star con loro; vorrei essere con Graham e guardare i suoi amici».

    «Che cosa ti trattiene dall’andarci?»

    «Ho paura; ma crede che potrei provare? Posso bussare alla porta e domandar di entrare?».

    Pensai che forse i giovani non avrebbero avuto nulla in contrario ad accoglierla come compagna di giochi, e quindi incoraggiai il tentativo.

    Bussò, da principio troppo piano per essere udita; ma al secondo colpo la porta si aprì; si affacciò la testa di Graham; questi sembrava di ottimo umore, ma impaziente.

    «Che cosa vuole, scimmietta?»

    «Entrare».

    «Davvero? Come se mi lasciassi disturbare da lei! Corra da mia madre e dalla signorina Snowe, e dica loro che la mettano a letto». La testa ramata e il gaio viso infiammato scomparvero, la porta si chiuse perentoriamente. La bambina era rimasta senza fiato.

    «Perché mi parla così? Non mi ha mai parlato in questo modo», disse costernata. «Che cosa gli ho fatto?»

    «Nulla, Polly; ma Graham è indaffarato con i suoi compagni di scuola».

    «E li preferisce a me! Mi scaccia, adesso che ci sono loro!».

    Fui tentata di consolarla e di profittare dell’occasione per inculcarle qualcuna di quelle massime di filosofia di cui tenevo una riserva abbastanza abbondante sempre pronta per l’uso. Tuttavia la bambina me lo impedì, cacciandosi le dita nelle orecchie non appena ebbi pronunciato qualche parola, e buttandosi lunga distesa per terra sullo stoino, col viso contro le mattonelle, posizione dalla quale né Warren né la cuoca riuscirono a sradicarla. Perciò la lasciarono lì distesa finché non si decise a tirarsi su con i propri mezzi.

    Graham dimenticò subito la propria impazienza, pronto, quando i suoi amici se ne furono andati, a salutarla di nuovo come al solito; ma lei si liberò dalla stretta della sua mano; i suoi occhi mandavano lampi; non volle augurargli la buonanotte; non volle guardarlo in viso. L’indomani egli la trattò con indifferenza e Polly si fece gelida come un pezzo di marmo. Il giorno dopo Graham la stuzzicò per sapere che cosa avesse; la bambina non volle aprir bocca. Naturalmente per parte sua il giovane non poteva provare una vera collera verso di lei; la lotta era troppo impari da tutti i punti di vista; tentò di placarla con le buone: «Perché era così adirata? Che cosa le aveva fatto?». Dopo un poco ebbe per risposta le lacrime; egli la carezzò e tornarono amici. Ma la piccola non era creatura su cui incidenti simili passassero senza lasciar traccia: notai che dopo che Graham l’aveva respinta, Paulina non lo cercò più, non lo seguì né in alcun modo richiamò mai la sua attenzione. Le dissi di portare un libro o qualche altro oggetto a Graham una volta che questi era chiuso nel proprio studio.

    «Aspetterò che esca», fece la bambina orgogliosamente. «Non voglio dargli il disturbo di alzarsi per aprirmi la porta».

    Il giovane Bretton aveva un pony che gli era particolarmente caro e su cui spesso andava a cavalcare; dalla finestra Polly osservava sempre la sua partenza e il suo ritorno. Ambiva a ottenere il permesso di fare un giro del cortile sul pony; ma lungi da lei il chiedere un simile favore! Un giorno scese a guardare Graham che smontava; mentre stava appoggiata al cancello, il gran desiderio di divertirsi con una cavalcata le scintillava negli occhi.

    «Su, Polly, vuol fare una galoppata?», domandò Graham, con aria indifferente. Forse quell’indifferenza le parve eccessiva.

    «No, grazie», disse, volgendo la testa con la massima calma.

    «Perché no?», insisté il giovane. «Le piacerebbe, ne sono sicuro».

    «Non me ne importerebbe un fico», fu la risposta.

    «Non è vero. Ha detto a Lucy Snowe che aveva tanta voglia di fare una cavalcata».

    «Lucy Snowe è una chiacchierona», le udii rispondere (quel suo modo approssimativo di articolar le parole era il suo lato meno precoce); e con questo entrò dignitosamente in casa. Graham, seguendola poco dopo, fece osservare a sua madre:

    «Mamma, credo che quella creatura sia proprio un folletto: è una vera esposizione di stramberie; ma mi annoierei se non l’avessi qui; è molto più divertente di lei o di Lucy Snowe».

    «Signorina Snowe», mi disse Paulina (aveva preso l’abitudine di scambiare ogni tanto due parole con me, quando, di sera, eravamo sole in camera insieme), «sa in quale giorno mi piace di più Graham?»

    «Come potrei sapere una cosa tanto strana? Vi è dunque un giorno su sette in cui è diverso dagli altri sei?»

    «Ma certo! Non se ne accorge? Non lo capisce? Lo trovo eccellente la domenica; allora lo abbiamo per noi tutto il giorno, tranquillo, e, la sera, è così gentile».

    L’osservazione non era del tutto infondata: la domenica, con l’andata in chiesa, eccetera, manteneva tranquillo Graham, il quale di solito dedicava la serata a una sorta di passatempo sereno sebbene alquanto indolente, vicino al caminetto del salottino. Si impossessava del divano e poi chiamava Polly.

    Graham era un ragazzo un po’ diverso dai soliti; non traeva tutto il suo piacere dall’azione; era capace di dedicar qualche momento anche alla contemplazione; sapeva godere inoltre della lettura, né la sua scelta dei libri era del tutto indiscriminata: vi era qualche traccia d’una preferenza caratteristica, e perfino d’un gusto istintivo. Raramente, però, parlava di quel che aveva letto, anche se io l’ho veduto starsene seduto in silenzio a riflettervi su.

    Quando Polly, avvicinatasi a lui, s’inginocchiava su un piccolo cuscino o sul tappeto, aveva inizio una conversazione sussurrata, non del tutto inafferrabile benché sommessa. Udivo qualche parola di quando in quando; e sembrava davvero che una qualche influenza, migliore e più elevata di quelle degli altri giorni, placasse Graham in quei momenti, ispirandogli uno stato d’animo non privo di gentilezza.

    «Ha imparato qualche inno, questa settimana, Polly?»

    «Ne ho imparato uno molto bellino, di quattro versi. Devo recitarlo?»

    «Pronunci bene, allora: non abbia fretta».

    Recitato, o meglio cantilenato a metà l’inno con vocetta monotona, Graham, trovando qualcosa da criticare nel modo di esporlo, incominciava a impartirle una lezione di recitazione. La bambina era svelta a imparare, abile nell’imitare; e, inoltre, era suo piacere di far piacere a Graham: si mostrava quindi una scolara pronta. All’inno seguiva un po’ di lettura, forse un capitolo della Bibbia; e qui raramente vi era occasione di correggerla, perché la bambina era capace di legger benissimo qualsiasi semplice capitolo narrativo. Quando poi l’argomento era tale da poter comprenderlo e interessarsene, la sua espressione, la sua enfasi erano notevoli. Giuseppe gettato nella cisterna; la vocazione di Samuele: Daniele nella fossa dei leoni… questi erano i suoi brani preferiti; soprattutto del primo Polly sembrava cogliere perfettamente il pathos.

    «Povero Giacobbe!», diceva a volte, con labbra tremanti. «Come amava suo figlio Giuseppe! Altrettanto», soggiunse una

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