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I grandi romanzi
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E-book1.827 pagine28 ore

I grandi romanzi

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Info su questo ebook

Piccole donne • Piccole donne crescono • Piccoli uomini • I ragazzi di Jo • Un lungo, fatale inseguimento d’amore

Introduzione di Chiara Gamberale
Premesse di Berenice e Silvano Ambrogi
Edizioni integrali

Intorno al 1860, più o meno quando l’americana Louisa May Alcott cominciava la sua carriera letteraria, gli Stati Uniti venivano chiamati ancora il Nuovo Mondo, e da questo grande Paese la vecchia Europa si aspettava molte cose veramente nuove. Forse l’autrice non immaginava che Piccole donne, dedicato alle adolescenti del proprio tempo, diventato subito e rimasto per sempre famoso, avrebbe rappresentato una di queste novità, scavalcando i confini della nazione e dell’epoca in cui la scrittrice visse per trasmetterci intatti il fascino della sua vicenda e il messaggio della sua forza educatrice. La Alcott seppe dimostrare, col suo primo romanzo, con quanta vitale energia anche le ragazze fossero capaci di affrontare le difficoltà della famiglia e i disagi e le perturbazioni dell’età; ma fu una novità anche leggere un libro per fanciulle tanto aderente alla realtà in pieno secolo romantico; un’epoca in cui le giovani donne in età da marito, almeno nei romanzi, dovevano svenire per un’emozione e accogliere lo sguardo di un ragazzo come pegno di amore eterno. Un lungo, fatale inseguimento d’amore, uno dei suoi primi scritti, è ancora più trasgressivo dei capolavori: racconta infatti certamente e soprattutto una storia romantica ma torbida e sensuale, fatta di fughe, sospetti e colpi di scena. Piccole donne e Piccole donne crescono usciranno con grande successo a breve distanza l’uno dall’altro; seguirà Piccoli uomini, scritto a Roma; ultimo della serie, I ragazzi di Jo.


Louisa May Alcott

nacque a Germantown (Pennsylvania) nel 1832. Nutrita degli ideali educativi del padre, filosofo e pedagogista, iniziò a scrivere giovanissima. Pubblicò diversi volumi di novelle e romanzi non solo per ragazzi (tra cui, nel 1866, Un lungo, fatale inseguimento d’amore, firmato con lo pseudonimo A. M. Barnard) e divenne scrittrice affermata con Piccole donne (1868), al quale poi seguirono Piccole donne crescono (1869), Piccoli uomini (1871) e I ragazzi di Jo (1886). Morì a Boston nel 1888.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854140004
I grandi romanzi
Autore

Louisa May Alcott

Louisa May Alcott was a 19th-century American novelist best known for her novel, Little Women, as well as its well-loved sequels, Little Men and Jo's Boys. Little Women is renowned as one of the very first classics of children’s literature, and remains a popular masterpiece today.

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    Anteprima del libro

    I grandi romanzi - Louisa May Alcott

    Introduzione

    Ahimè. Troppo spesso, nella vita (soprattutto mentre non ce ne accorgiamo) ci ritroviamo a ferire i bambini che siamo stati: spezziamo le loro illusioni, ribadiamo i loro traumi, barattiamo sicurezze con la loro smania d’avventura.

    Ma a volte abbiamo la straordinaria occasione di fare un regalo a quei bambini.

    Ecco per me che cosa rappresenta occuparmi di questa prefazione. Il regalo migliore che mi sia permesso di fare alla bambina che sono stata.

    Non la risarcirà di tutte le incoerenze e i tradimenti di cui sopra che (soprattutto mentre non me ne accorgo) le infliggo, certo.

    Però la emozionerà talmente tanto, che rischierà uno dei suoi pericolosi attacchi d’asma.

    Perché era una bambina strana, quella lì. Caratteriale, la definirebbe oggi uno psichiatra infantile, se la visitasse. Rompipalle, credo che la definissero i suoi genitori.

    Una bambina, insomma, che non stava mai bene da nessuna parte. Che all’asilo invece di giocare con i suoi compagni di classe s’aggrappava alla gonna della bidella, che non voleva mangiare, non sapeva dormire e che se ogni tanto, libera dai suoi mostri, rideva, lo faceva in una maniera così esagerata da cadere vittima, appunto, di misteriosi e abnormi attacchi d’asma.

    I suoi genitori non erano pronti a una maledizione del genere come figlia: ben lontani da quelle coppie di oggi così addestrate a riconoscere in un labbruccio abbassato del loro piccolo l’insorgere di una qualche forma patologica maniaco-depressiva, l’uno ingegnere, cresciuto fra le montagne del Molise, l’altra ragioniera, cresciuta in un minuscolo centro affondato nella pianura padana, si limitavano ad amarla, la bambina. Ma non la capivano.

    Una cosa però l’avevano intuita: che niente, niente, niente la metteva tranquilla (o giù di lì) come un racconto. Bastava quello di come si erano conosciuti. O di che cosa avevano fatto durante la giornata. La piccola nevrotica a quel punto mollava le sue paturnie, magicamente, e li ascoltava, con bocca e occhi sbarrati.

    Naturalmente, quei poveretti di genitori si affrettarono a fare incetta di tutti i libri di favole possibili e immaginabili in commercio, perché arrivata la sera forse anche loro preferivano distrarsi con una qualche vita immaginata, piuttosto che mettersi a sciorinare il resoconto della loro – non così esaltante a guardarla bene.

    Insomma avevo cinque anni quando, esaurite tutte le favole a disposizione, una sera mia madre si presentò nella mia cameretta con quel libro lì.

    Piccole donne.

    «È bellissimo, vedrai che ti piacerà», mi disse. E attaccò, come al solito, a leggere.

    Che fosse un intero romanzo non solo non avevo gli strumenti per accorgermene. Non ne ho avuto il tempo: perché sono bastate poche righe.

    «Natale non sarà Natale senza regali», borbottò Jo, stesa sul tappeto.

    «Che cosa tremenda esser poveri!», sospirò Meg, lanciando un’occhiata al suo vecchio vestito.

    «Non è giusto, secondo me, che certe ragazze abbiano un sacco di belle cose e altre nulla», aggiunse la piccola Amy, tirando su col naso con aria offesa.

    «Abbiamo papà e mamma, e abbiamo noi stesse», disse Beth, col tono di chi s’accontenta, dal suo cantuccio.

    Poche righe: e, subito come solo subito possono cominciare le storie d’amore più importanti della nostra vita, è successo. Avevo trovato finalmente un posto che non si limitava a darmi un rifugio da quello (il mondo) dove mi sembrava così impossibile vivere. Avevo trovato un posto dove proprio mi piaceva stare: la casa delle sorelle March.

    Un posto dove tutto, tutto, tutto mi tornava familiare tanto quanto mi risultavano estranei e ostili l’asilo, la piscina, i giardinetti sotto casa.

    «Leggi leggi». Assalivo mia madre, appena tornava dal lavoro, le buste della spesa ancora da svuotare, il soprabito addosso. «Leggi!».

    E non credo fu un soprassalto di pietà nei suoi confronti, ma l’impazienza di doverla aspettare e l’insofferenza di dipendere da lei, che mi portarono, proprio in quei giorni, a imparare a leggere da sola.

    Ricordo come fosse ieri, come fosse adesso, la vertigine che mi ha dato lo scoprire di poter entrare a casa March senza il permesso di nessuno.

    E se di nessuno avevo bisogno per entrare, va da sé che nessuno poteva obbligarmi a uscire: così mi sono definitivamente trasferita lì. Dalle mie quattro amiche.

    Non so dire con esattezza che cos’è che mi facesse sentire così irrimediabilmente attratta da quel libro. Credo che ancora prima di un cosa, la risposta fosse e continui a essere un come: laddove mi risultavano totalmente incomprensibili le regole che scandivano l’esistenza dei miei coetanei e le loro esigenze, laddove quei modi di comunicare così facili e spontanei a me parevano complicatissimi e irraggiungibili, mi ritrovavo ad abbracciare quelli dei personaggi di Piccole donne istintivamente. Condividevo nel profondo le loro ragioni, mi dispiacevo dei loro dispiaceri, mi rallegravo delle loro conquiste. E mentre esplodeva la guerra fredda, io mi angosciavo per quella civile americana. Mentre le mie compagne si scambiavano gli accessori di Barbie Paninara, io mi preoccupavo di un guanto smarrito al ballo dei Laurence, i magnanimi, sorprendenti vicini delle March.

    Non che le quattro sorelle mi fossero tutte, indistintamente, simpatiche. Anzi.

    Rimproveravo a Meg un’esagerata compostezza, oscillavo fra la rabbia e l’assoluta tenerezza per le ritrosie timide di Beth, sono arrivata a detestare Amy, quando, per un semplice moto di stizza, dà alle fiamme del caminetto il manoscritto di Jo.

    Perché poi c’era lei. Oh, sì. Lei: Josephine March. L’alter ego di Louisa May Alcott. Ma ancora prima, se è possibile, l’alter ego di tutte noi, donne inquiete di oggi, adolescenti arrabbiate di ieri, bambine rompipalle dell’altroieri.

    Jo che era uguale solo a se stessa e che implicitamente ti suggeriva che sì, se lo faceva lei, lo potevi fare anche tu. Jo che non si rassegnava, che non stava mai bene da nessuna parte, che sicuramente, fosse andata all’asilo, si sarebbe aggrappata alla gonna della bidella invece di giocare con gli altri bambini. Perché odiava tutto quello che non fosse imposto da un qualche suo desiderio, Jo. Ma che tutto quello che desiderava fare e incontrare, lo faceva e lo incontrava con passione.

    Così, dove non era riuscito ad arrivare nemmeno l’amore dei miei genitori, ci arrivava lei: che mi dava l’autorizzazione a procedere. A non sintonizzarmi su niente che non venisse da dentro di me. A non sentirmi sempre diversa, sempre fuori fuoco, sempre fuori luogo: ma a concentrarmi sui miei, luoghi, sul mio, fuoco. Fuoco che, guarda caso, condividevo con lei. Perché: certo! Era così chiaro... Se anche Jo, come me, preferiva i libri alla realtà, anch’io, come Jo, non potevo che sognare, da grande, di diventare una scrittrice!

    Fatto sta che, nello stesso periodo in cui ho imparato a leggere da sola, ho deciso (capito? sentito?) che l’unico destino adatto a me sarebbe stato quello di scrivere.

    Parecchi anni dopo, sarei riuscita a pubblicare il mio primo romanzo: e a riguardarli adesso, quegli anni, hanno sempre, da qualche parte, avuto qualcosa a che fare con Piccole donne.

    Perché da piccola non potevo capire, non potevo sapere. Ma oggi capisco e so: che per realizzare un sogno, una persona deve superare tante prove.

    E così, sempre più lucidamente, le prove della mia Jo, che a cinque anni mi limitavo a seguire con il fiato sospeso e un’indecifrabile partecipazione, mi sono sembrate e mi continuano a sembrare delle prove metaforiche, iniziatiche, a cui tutti noi dobbiamo prima o poi sottoporci.

    Perché se vogliamo realizzare non solo i nostri sogni, ma prima di tutto noi stessi, dobbiamo essere pronti a tagliarci i capelli cortissimi, anche e in particolar modo se sono il nostro vanto maggiore. Dobbiamo accettare che nostro padre sia ferito in guerra. Dobbiamo perdere la nostra sorella più amata. Deludere il nostro migliore amico. Dobbiamo partire, dobbiamo andare lontano da casa: e scoprire quanta casa può esserci in un accento straniero.

    Io senza dubbio ancora non ho conquistato tutte le tappe per potermi definire davvero e pienamente realizzata.

    Ma non credo sia un caso se la Alcott ha intitolato Piccole donne crescono, e non Donne cresciute, la seconda parte del suo romanzo.

    Allora, voi che per la prima volta vi trovate in mano questo libro: leggetelo. Non finirà quando finisce, vi avviso. Durerà per sempre.

    E un giorno potrebbero affidare proprio a voi la prefazione della sua ennesima ristampa.

    La dedicherete a quella bambina che siete state.

    Una bambina difficile: ma a cui sembrava tutto facile, fra le pagine di Piccole donne.

    CHIARA GAMBERALE

    Nota biobliografica

    Louisa May Alcott nasce a Germantown (Pennsylvania) il 29 novembre 1832, seconda di quattro sorelle (Anna, Beth, May), da Amos Bronson Alcott e Abigail «Abba» May. Il padre Amos vi dirige dal ’30 la scuola «Little Paradise» applicando i princìpi del Pestalozzi, ma anche di Jefferson, Rousseau e Socrate. E socratica è la sua via: dialogo continuo, osservazione della natura, favorire e indirizzare il talento individuale, correzione dell’errore tramite l’autointrospezione essendo banditi il «senso di colpa» e la punizione; educazione sessuale, trattata con grande discrezione. Morto nel ’34 il suo protettore, il quacchero Reuben Haines, la comunità manifesta dissenso verso di lui.

    Si trasferisce a Boston con la famiglia a dirigere la «Temple School».

    Anche qui per il suo insegnamento moderno e le manifeste idee abolizioniste è inviso e nel 1839 è letteralmente cacciato dallo sceriffo.

    Gli Alcott emigrano nuovamente: Hosmer Cottage a Concord, a ovest di Boston. E se prima erano ristrettezze, ora è miseria. Amos fa vita di contadino aiutato dalla moglie Abba. Louisa cresce in questo clima dove si parla di tutto, ci si aiuta l’un l’altro; e quando le ragazze Alcott imparano a scrivere cominciano un diario seguito e annotato dai genitori.

    Nel 1840 scrive la prima poesia: To the First Robin («Al primo pettirosso»). Nel ’41, Amos trasforma la casa in un cenacolo di filosofi trascendentalisti: David Thoreau, Margareth Fuller, Nathaniel Hawthorne e soprattutto Ralph Waldo Emerson alla cui biblioteca la Alcott accederà liberamente e che si rivelerà fondamentale. Legge di tutto, da Platone a Dickens.

    Con una piccola eredità e un aiuto da Emerson gli Alcott comprano Hillside Cottage. Oltre alle letture, al diario e ai lavori di casa, Louisa discute animatamente col padre e i filosofi. La voglia di lavorare la porta a organizzare una scuola per le figlie di Emerson. Alla piccola Ellen dedicherà (1848) una raccolta di poesie e brevi racconti, la Flower Fables (Fiorita di favole). Intorno al 1850 gli Alcott si stabiliscono a Boston. Louisa vi rimane sei anni lavorando furiosamente (anche quattordici ore al giorno) come governante, ricamatrice, infermiera, domestica e continua a scrivere e a stendere progetti di scrittura.

    Venduta Hillside a Hawthorne, gli Alcott comprano Orchard House a Concord. Nel marzo del ’58 muore Beth. Nell’estate Louisa scrive tre racconti; tenta con scarso successo la via della recitazione. La prestigiosa rivista Atlantic Monthly pubblica nel novembre del ’59 un suo racconto pagandola 50 dollari.

    Louisa è tornata a Boston e nell’estate del ’60 inizia il suo primo romanzo, Moods (Capricci), che viene rifiutato dagli editori. Mentre lo rielabora esplode la guerra civile e Louisa va a lavorare come infermiera nell’ospedale di Georgetown. Prende il tifo, e nella lunga convalescenza scrive molte lettere alla famiglia descrivendo le situazioni vissute. Il padre ne riunisce alcuni brani e li fa pubblicare a puntate sul giornale Commonwealth. Il titolo è Hospital Sketches. È la popolarità. Riprende Moods, subito stampato con buon successo.

    Nella primavera del 1865, durante un viaggio in Europa come dama di compagnia (Londra, Ginevra, Costa Azzurra), conosce il musicista Ladislav Wisiniewsky (il Laurie di Piccole donne) con il quale vive un amore. Matura l’idea di un’autobiografia familiare. Richiesta dall’editore Thomas Niles per scrivere per le adolescenti, recalcitra. Si convince, dopo aver tuffato ispirazione e memoria nei ricordi della sua famiglia. È il 1868, l’anno di Piccole donne, guadagno e fama sono grandi. Annota sul diario: «Fu il primo uovo d’oro del brutto anatroccolo». Sette mesi più tardi ne scriverà il seguito.

    Dirige dal ’67 un periodico per ragazzi, il Merry’s Museum. Nel ’69 segue fin dalla nascita la «National Woman Suffrage Association». Il 1870 vede un nuovo romanzo, Una ragazza fuori moda e un secondo viaggio in Europa, con la sorella May. Sono in Francia, poi vengono bloccate in Svizzera dalla guerra franco-prussiana. Ottobre sul lago di Como e poi Milano, Bologna, Firenze e sei mesi a Roma, dove scrive e spedisce in America Piccoli uomini.

    Gli anni ’70 sono anni ricolmi di lavoro: Otto cugini, Rosa in fiore e Sotto i lillà. Prende parte a battaglie sociali, partecipa al «Congresso delle donne di Syracuse» (1875), si batte per il diritto di voto alla donna ed è la prima ad averlo nel distretto di Concord. Ma sono anche anni di lutti: morte del marito della sorella Anna, di Abba, e della sorella May, spentasi dopo aver partorito Lulu.

    Pubblica anonimamente Un moderno Mefistofele (1877). Dal ’72 all’82 vedono la luce i sei volumi di novelle Il sacco degli stracci della zia Jo e negli anni Ottanta i tre della Lulu’s Library (Biblioteca di Lulu) e gli ultimi due romanzi Jack e Jill e I ragazzi di Jo. Avuta notizia del progressivo indebolimento del padre oramai ottantanovenne, che si trovava a Boston, nel correre a trovarlo è colta da un’infreddatura e muore il 6 marzo 1888 ignara che Amos si è spento due giorni prima. Viene sepolta nel cimitero di Concord, lo Sleepy Hollow (Valle del sonno) dove riposano Thoreau, Hawthorne ed Emerson.

    OPERE

    Racconti, fiabe e poesie dal 1848 al 1869

    1848. Comic Tragedies, written by «Jo» and «Meg» and acted by the «Little Women» Boston.

    1855. Flower Fables (Novelle e poesie), Boston.

    1863. Hospital Sketches (6 bozzetti), Boston.

    1864. The Rose Family. A Fairy Tale, Boston.

    1864. On Picket Duty, and Other Tales (4 racconti), Boston.

    1867. The Mysterious Key and What It Opened (5 racconti), Boston.

    1867. The Skeleton in the Closet, Boston.

    1868. Morning-Glories, and Other Stories (14 racconti), Boston.

    1868. Three Proverb Stories, Boston.

    1869. Hospital Sketches and Camp and Firesides Stories (i 6 bozzetti di H.S. più 8 racconti), Boston.

    Romanzi

    1864 ca. Moods, Boston.

    1865. A Marble Woman or The Mysterious Model (pubblicato con lo pseudonimo di A.M. Barnard), Boston.

    1873. Work; a Story of Experience, Boston.

    1877. A Modern Mephistopheles (pubblicato anonimamente), Boston. Romanzi per la gioventù

    1868. Little Women; or Meg, Jo, Beth and Amy, Boston.

    1869. Little Women; or Meg, Jo, Beth and Amy Part II, Boston.

    1870. An Old-Fashioned Girl, Boston.

    1871. Little Men; Life at Plumfield with Jo’s Boys, Boston.

    1875. Eight Cousins; or The Aunt-Hill, Boston.

    1876. Rose in Bloom; a Sequel to «Eight Cousins», Boston.

    1878. Under the Lilacs, Boston.

    1880. Jack and Jill, a Village Story, Boston.

    1886. Jo’s Boys, and How They Turned Out. A Sequel to «Little Men» Boston.

    Racconti (serie di raccolte)

    1872-82. Aunt Jo’s Scrap-Bag, 6 voll. (66 racconti), Boston.

    1886-89. Lulu’s Library, 3 voll. (42 racconti), Boston.

    Racconti (volume unico)

    1876. Silver Pitchers: and Independence, a Centennial Love Story (9 racconti), Boston.

    1882. Proverb Stories (8 racconti, 3 dei quali editi nel 1868), Boston.

    1884. Spinning-Wheel Stories (12 racconti), Boston.

    1888. A Garlandfor Girls (7 racconti), Boston.

    TRADUZIONI

    Romanzi per la gioventù

    Jack e Jane, Milano, Treves, 1885.

    Piccoli uomini, Lanciano, Carabba, 1905.

    Piccole donne. Da un Natale all’altro, Lanciano, Carabba, 1908.

    Sotto i lillà, Lanciano, Carabba, 1928.

    Una signorina di vecchio stampo, Lanciano, Carabba, 1929.

    Jack e Jill. Storia di villaggio, Lanciano, Carabba, 1929.

    I figli di Jo, Firenze, Bemporad, 1936.

    Buone mogli, Firenze, Bemporad, 1937.

    Gli otto cugini, Firenze, Marzocco, 1951.

    Rosa in fiore, Torino, SAS, 1953.

    Polly, Milano, Bietti, 1963.

    Il ragazzo del circo, Bologna, TEG, 1969.

    I quattro libri delle «Piccole donne». «Piccole donne»; «Le piccole donne crescono»; «Piccoli uomini»; «I ragazzi di Jo», Milano, Mursia, 1972.

    Rosa e gli otto cugini, Ozzano Emilia, Malipiero, 1973.

    I ragazzi di Jo, Milano, AMZ, 1982.

    Una ragazza fuori moda, Ozzano Emilia, Malipiero, 1982.

    Piccoli uomini, Bologna, Capitol, 1983.

    Sotto i fiori di lillà, Ozzano Emilia, Malipiero, 1984.

    Incontro alla vita. Jack e Jill, Milano, Mursia, 1985.

    Piccole donne, Milano, Mondadori, 1985.

    Le piccole donne crescono, Milano, Fabbri, 1986.

    Fanciulle in fiore, Milano, Mursia, 1987.

    Piccole donne, Novara, De Agostini, 1994.

    Piccole donne, Roma, Newton Compton, 1995.

    Romanzi

    Una donna di marmo o il misterioso modello, Torino, La Rosa, 1980.

    Racconti

    Il viaggio fantastico di Lilì, Milano, Treves, 1887.

    Gli ultimi racconti di Luisa Alcott, Milano, Treves, 1889.

    Il sacchetto degli stracci della zia Jo, Lanciano, Carabba, 1928.

    Lontano. (Borse da viaggio), Lanciano, Carabba, 1934.

    Trudel e altre novelle, Milano, Carroccio, 1963.

    FILMOGRAFIA

    I romanzi della Alcott sono stati varie volte adattati per il grande e per il piccolo schermo. Tra le versioni cinematografiche ricordiamo:

    Little Women, 1918, diretto da Harvey Knoles, che fu girato nelle case di Ralph Waldo Emerson e di Louisa May Alcott;

    Little Women (Piccole donne), 1933, diretto da George Cukor, con Katherine Hepburn nel ruolo di Jo, Joan Bennett-Amy, Jean Parker-Beth, Frances Dee-Meg;

    Little Women (Piccole donne), 1949, diretto da Mervin Le Roy, con June Allison nel ruolo di Jo, Janet Leigh, Elizabeth Taylor, Rossano Brazzi, Peter Lawford;

    Little Women (Piccole donne), 1994, diretto da Gillian Armstrong, con Winona Ryder nel ruolo di Jo, Gabriel Byrne, Susan Sarandon.

    Uno sceneggiato televisivo dal titolo Piccole donne fu realizzato in Italia nel 1955 per la regia di Anton Giulio Majano, con Lea Padovani-Jo, Emma Danieli-Meg, Vera Silenti-Amy, Maresa Gallo-Beth; nel 1989 ne andò in onda un remake, Quattro piccole donne, nella riduzione di Lidia Ravera, per la regia di Gianfranco Albano.

    Piccole donne

    Premessa

    Intorno al 1860, quando l’americana Louisa May Alcott stava scrivendo Piccole donne, gli Stati Uniti venivano chiamati ancora il Nuovo Mondo, e da questo grande paese la vecchia Europa si aspettava molte cose veramente nuove.

    Forse la dolce Louisa non immaginava che il suo romanzo, dedicato alle adolescenti del proprio tempo, diventato subito e rimasto per sempre famoso, avrebbe rappresentato una di queste novità, scavalcando i confini della nazione e dell’epoca in cui la scrittrice visse per arrivare intatto fino ad oggi col fascino della sua vicenda e il messaggio della sua forza educatrice.

    La novità del libro era davvero notevole per i tempi in cui venne scritto e sarebbe rimasta tale fino ai giorni nostri. Perché fino a quel momento, e per molti decenni ancora, la letteratura per ragazzi non aveva avuto che protagonisti al maschile. Gli eroi dell’Isola del tesoro, di David Copperfield, di Senza famiglia, di Pel di Carota, di Tom Sawyer, di Pinocchio, del Piccolo Lord erano sempre maschi.

    Anche qualche bambina entrava nelle loro storie, ma come personaggio marginale. I veri protagonisti in realtà restavano sempre loro: i piccoli uomini.

    Questa linea sarà seguita anche tra fine Ottocento e primo Novecento, e in pieno XX secolo, con libri per ragazzi altrettanto famosi che si chiameranno Peter Pan, I ragazzi della via Paal, Giamburrasca, Il piccolo principe e su, fino al Cipollino di Gianni Rodari. I più moderni fumetti non cambieranno le regole. Dai primissimi (italiani) apparsi sul Corriere dei Piccoli, dove i protagonisti erano Mio mao, Gambadilegno, il sor Pampurio, il signor Bonaventura ecc., arriviamo fino ai celebri eroi di Walt Disney, coi protagonisti delle strips che si sono chiamati Topolino, Paperino, Paperone, Pippo, Bracciodiferro, Qui Quo e Qua. È vero che ci sono anche Minnie, Paperina, Olivia, Clarabella, ma sono figurette molto secondarie rispetto alla personalità che Disney conferì ai propri eroi.

    Solo il mondo della favola sarà sempre quasi interamente dedicato alle bambine. In bene e in male, le protagoniste principali sono le fate e le streghe. Le eroine delle fiabe si chiamano Biancaneve, Cappuccetto Rosso, la Bella Addormentata, Fantaghirò, la Regina delle Nevi, Alice nel Paese delle Meraviglie.

    Ma quando si tratta di abbandonare la favola ed entrare nella realtà, che nella consuetudine di tutti i giorni qualche volta è anche dolorosa, allora i narratori hanno sempre immaginato al maschile i protagonisti dei racconti per ragazzi, forse per assegnare a spalle meno fragili il carico delle fatiche e delle durezze che si incontrano in quella straordinaria avventura di tutti che si chiama la vita.

    Ma quanto reale è questa fragilità femminile nei confronti della vita e come le adolescenti di ieri, di oggi e di ogni paese riescono a sopportarne i pesi?

    Louisa May Alcott ha saputo dimostrare, col suo romanzo, con quanta vitale energia anche le fanciulle siano capaci di affrontare le difficoltà di una famiglia e i disagi dell’età breve: la svagata adolescenza straordinariamente definita dal Manzoni nei Promessi sposi quando parla di «quell’età così critica, nella quale par entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte le idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto».

    Ma fu una novità anche leggere un libro per fanciulle tanto aderente alla realtà in pieno secolo romantico; un’epoca in cui le ragazze, almeno nei romanzi, dovevano svenire per un’emozione e accogliere lo sguardo di un ragazzo come un pegno di amore eterno.

    Non a caso si teneva a distinguere la vita così com’era e come veniva descritta nei romanzi. Nacque proprio in quell’epoca la definizione di «romanzesco», e di «realtà romanzesca» per indicare situazioni e personaggi privi di rapporto con la realtà della gente com’è, e dei fatti come accadono normalmente nella vita.

    Della realtà di Piccole donne non c’è da dubitarne: non è un mistero che Louisa May Alcott prese a modello del suo romanzo la sua famiglia, se stessa, la casa in cui visse la propria adolescenza con la madre e le sorelle in un mondo familiare tutto al femminile. Per esempio nel romanzo il signor March, il padre delle piccole donne, non c’è; è lontano da casa per prendere parte alla guerra di Secessione dalla parte degli antischiavisti e farà ritorno, stanco e malato, solo alla fine del romanzo. Più o meno come il padre dell’autrice, il professor Amos Bronson Alcott, educatore rimasto famoso nella storia della pedagogia americana, che fu più che altro assente all’interno della famiglia per il suo andare da uno Stato all’altro a predicare le proprie teorie innovatrici sull’educazione dei fanciulli.

    Anche il personaggio centrale di Piccole donne, la vivace Josephine detta Jo, non lascia dubbi sul suo rapporto di identità con l’autrice del romanzo. Jo ha la vocazione di scrivere, e a un certo punto del libro, quando ancora non ha pubblicato il suo primo racconto, confessa i propri sogni dicendo che vorrebbe: «[...] camere colme di libri e scrivere con un calamaio magico perché i miei scritti diventassero famosi come la musica di Laurie».

    Scrivendo queste parole, Louisa non sapeva ancora che con questo libro il suo sogno si sarebbe avverato.

    Ma entriamo nel mondo delle Piccole donne e cominciamo a conoscerlo.

    Le giovanissime sorelle March sono quattro, ma le donne della vicenda in realtà sono sette: la signora March, la madre; le sue quattro figlie, che in ordine di età si chiamano Meg, Jo, Beth e la piccola Amy; la fedele Hannah, donna di servizio, governante e parte affettuosa della famiglia, e la zia March, parente ricca e bisbetica, per quanto bonaria, che vive sola, ma è molto presente nella vita delle giovani nipoti.

    I March hanno conosciuto l’agiatezza, ma per aiutare un amico sfortunato hanno perso tutto ritrovandosi a un tratto molto vicini alla povertà. Tuttavia questa condizione è vissuta dalla famiglia con dignità e coraggio. Ciascuna delle donne di casa, grandi e piccole, si ingegna nell’arte del risparmio cercando di trovare nelle difficoltà un motivo per sentirsi ancora più unite, spinte a impegnarsi tutte in una gara generosa a fare sempre meglio, e a farlo con allegria. La signora March ha trovato un’occupazione in un laboratorio di sartoria. Meg esercita la sua cultura scolastica e la sua pazienza di ragazza educata e gentile lavorando come istitutrice presso una famiglia che ha quattro ragazzini protervi e indisciplinati. Jo assiste la zia March come dama di compagnia, impegnata più che altro a leggerle qualche libro e a raccogliere le sue lamentele.

    Beth e Amy sono troppo piccole per potersi impegnare in qualche lavoretto, ma Beth suona il pianoforte, conquistando l’animo del vecchio vicino di casa, il signor Laurence, al quale la sua musica e la sua figuretta ricordano la nipotina scomparsa. Un incontro che subito si farà prezioso per tutta la famiglia March.

    E Amy, la piccola del quartetto, che già rivela un sicuro talento nel disegno e nel colore, rallegra la casa con i suoi schizzi e i suoi quadretti, a molti dei quali la madre ha già concesso l’onore della cornice.

    In casa March circola un’aria primaverile, tutta percorsa da quelle vibrazioni del sentimento che la giovinezza reca in sé come la più delicata delle sue energie.

    E come la primavera, anche gli umori di Meg, Jo, Beth e Amy sono mutevoli, con burrasche sempre brevi e schiarite lunghe e intensamente luminose.

    Fra le quattro piccole donne, la figura che domina è quella di Jo. È come se questa storia di un anno (un anno molto formativo per tutte, senza dubbio decisivo per la vita di alcune di loro, che si svolge da un Natale all’altro) fosse raccontata in prima persona dalla stessa Jo. Voglio dire che la parte di se stessa che la Alcott ha messo nel libro si sente, e si sente quanto tutto ciò che accade in questa limpida storia sia specchio di una realtà fatta di episodi in cui generazioni di adolescenti si sono riconosciute.

    Un anno di vita è sempre qualcosa di compiuto. Accadono spesso fatti negativi che mai si ripeteranno uguali. Ma, nel corso della nostra esistenza, quegli stessi fatti che ci hanno ferito, o solo fatto un po’ soffrire, potranno tornare a ripetersi sotto altre forme, in altre situazioni, e se la prima volta abbiamo saputo affrontarli ci faranno soffrire di meno.

    In questo anno che Louisa May Alcott ha ritagliato nella vita delle sue piccole donne accadono molti fatti, alcuni anche dolorosi. Per tre volte la morte sfiora la famiglia March. A minacciarla sono tre eventi fra quelli che con più frequenza colpiscono la vita dell’uomo: la guerra, l’incidente, la malattia. Eppure, anche quando il dramma sembra sul punto di compiersi, le energie della speranza, della preghiera, della volontà di allontanare il pericolo vengono rese avvertibili, a chi legge, dalla sensibilità della Alcott che in questo romanzo ha messo tanta parte di sé.

    Naturalmente nella vicenda delle piccole donne entrano anche gli uomini. Laurie, il solitario e sensibile nipote del ricco signor Laurence – l’anziano vicino che tanto ama la musica di Beth – che presto diventerà amico di Jo e di tutte le ragazze March. Il giovane John Rook, povero, ma serio e assennato amico di Laurie, che si innamorerà di Meg e ne sarà ricambiato; con viva disapprovazione della zia ricca e un po’ di rammarico da parte di Jo, che con la prospettiva del matrimonio di Meg teme di perdere per sempre l’affetto di una sorella che è anche la sua amica migliore. Questi contrasti tuttavia non saranno di ostacolo ai due giovani. La stima per la persona di John e il rispetto dei suoi sentimenti da parte dei March, padre e madre, e delle piccole Beth e Amy, renderanno semplici le cose, e il libro si concluderà in un clima di serena armonia.

    Animato da una fervida grazia giovanile, acceso da quella luce dei buoni sentimenti che in tempi recenti da qualche parte sono stati giudicati eccessivi, Piccole donne è in realtà, nel suo genere, un libro esemplare; piccolo capolavoro che non a caso ha resistito ai tempi e alle mode, scavalcando un secolo e preparandosi a entrare in quello futuro.

    Perché l’adolescenza è l’età preparatoria all’ingresso nella vita, e mai forse come oggi la vita è stata più esigente e difficoltosa; facilitata (spesso anche troppo) dal benessere, ma povera di sentimenti. Mai parole come bontà, obbedienza, rispetto, così necessarie al vocabolario dei giovani, erano state tanto umiliate.

    Ma queste parole sono ancora nell’animo dei giovani come il dono prezioso di un’eredità che non potrà disperdersi, troppo spesso tuttavia costrette a non uscire dal celeste deposito di tanti trepidi cuori, respinte nel loro profondo da una male intesa necessità di apparire diversi dalle generazioni che li hanno preceduti.

    Convinti che la disinvoltura giovanile sia rappresentata dalla capacità di eludere i sentimenti, molti giovani si mostrano spesso incapaci di dire a una madre, a un fratello, a un’amica parole semplici come: scusa, grazie, ti voglio bene.

    Ma sarebbe sbagliato classificare Piccole donne come un libro moralistico. Nella vicenda narrata dalla Alcott (che come sappiamo avrà molti seguiti), dialoghi, episodi, piccole vicende della quotidianità sono sempre animati dal fervore di vita delle quattro sorelle, che alle loro recite, letture, giochi e iniziative riescono a imprimere il segno felice di un’innocente poetica e il senso confortante e raro dell’humour. Nelle piccole donne, la magia di questo fervore trasforma sempre in fatto straordinario ciò che è comune, e fa diventare evento naturale quello che spesso è drammatico. Il libro non impone precetti moralistici: la signora March dice poche cose che sanno di ammaestramento (il discorso più lungo, in questo senso, sono le poche parole in cui dichiara: «Conosco, per esperienza, quanta vera felicità può esserci in una casa modesta, dove si guadagna il pane quotidiano, e dove qualche privazione rende più dolci i pochi piaceri. Sono contenta di vedere Meg cominciare modestamente, perché, se non mi sbaglio, possiederà come ricchezza il cuore di un uomo onesto e ciò vale quanto un capitale».

    Sono parole semplici e sagge pronunciate in vista del matrimonio di Meg. O come quando dice alla figlia Jo, che per la sorella vorrebbe un tipo di matrimonio diverso: «Non fare progetti, Jo; ma lasciamo fare al tempo e al cuore».

    Libro dunque non moralistico; ma con una sua morale tuttavia che non scaturisce dalle parole, ma dai fatti che determinano la vicenda. E allora in questo senso, sì: abbiamo il dovere di definirlo (è uno dei suoi meriti) libro anche educativo oltre che splendido romanzo per adolescenti.

    Perché è la necessità di sentirsi unite nelle difficoltà come negli svaghi che fa di quattro sorelle spensierate per età e per temperamento come Meg, Jo, Beth e Amy quattro piccole donne, e sarà proprio quella maturità a renderle consapevoli di quanto di buono ci sia nelle piccole cose della vita. Consapevoli fino al punto di avere cognizione perfino della bellezza dell’età fuggevole che stanno vivendo. Ce lo rivela tutto il loro modo di essere. Ce lo dicono le schiette parole di Jo quando esclama: «Vorrei che portassimo ferri da stiro sulla testa per impedirci di crescere».

    BERENICE

    1. Giocando ai «Pellegrini»

    «Natale non sarà Natale senza qualche regalo», brontolò Jo, sdraiata sulla stuoia del caminetto.

    «È così triste esser poveri», sospirò Meg, guardando il suo vecchio abito.

    «Non trovo giusto che certe ragazze abbiano tante belle cose e altre nulla del tutto», soggiunse la piccola Amy, con una smorfia di disprezzo.

    Dall’angolo dove si trovava, Beth osservò, lieta:

    «Abbiamo però un babbo, una mamma e noi tutte siamo l’una per l’altra».

    I volti giovanili illuminati dalla luce del fuoco si rasserenarono a quelle confortanti parole, ma di nuovo si rabbuiarono quando Jo esclamò con tristezza:

    «Il babbo non l’abbiamo e non l’avremo per molto tempo». Non precisò «forse mai più», ma ognuna di esse mentalmente formulò quel pensiero, riflettendo sul fatto che il padre si trovava al fronte dove si stava combattendo.

    Per un momento nessuna parlò; poi, cambiando tono, Meg proseguì:

    «Voi conoscete la ragione che ha indotto la mamma a consigliare di non scambiarci regali per Natale; quest’inverno sarà duro per tutti ed essa pensa che non dobbiamo spendere denaro in cose piacevoli quando i nostri uomini stanno soffrendo sotto le armi. Noi non possiamo molto, ma dobbiamo fare i nostri piccoli sacrifici e senza rimpianti. Tuttavia, temo di non riuscirvi», e Meg scosse la testa come se rimpiangesse tutte le cose graziose che desiderava.

    «Non credo, però, che il poco di cui disponiamo servirebbe a qualche cosa. Possediamo un dollaro per una e ritengo che l’esercito non trarrebbe un gran vantaggio dalla nostra offerta. Mi rendo conto di non dovermi aspettare nulla dalla mamma e da voi; ma gradirei comprarmi la storia di Ondina e Sintram; lo desidero da tanto tempo», disse Jo, che amava molto la lettura.

    «Io penserei di acquistare qualche nuova musica», mormorò Beth con un sospiro così lieve che l’udirono solo la scopetta del camino e la presa di feltro del bricco.

    «Io comprerò una bella scatola di matite Faber da disegno, ne ho realmente bisogno», affermò Amy, risoluta.

    «La mamma non ha affatto parlato del nostro denaro e non vuole che rinunciamo a tutto. Ognuna di noi compri quello che desidera e si procuri un piacere; mi sembra che lavoriamo abbastanza per meritarcelo», esclamò Jo, osservando con un gesto maschile i tacchi delle sue scarpe.

    «Ne so qualcosa, io, che devo insegnare tutto il giorno a quei noiosi ragazzi, mentre mi piacerebbe tanto restare a casa», ricominciò Meg, in tono lamentoso.

    «Non puoi neanche confrontare il tuo lavoro con il mio», rispose Jo. «Vi piacerebbe star rinchiuse per ore con una vecchia signora nervosa, irrequieta, che vi obbliga a trottare, mai soddisfatta e che non vi lascia in pace finché non siete sul punto di buttarvi dalla finestra o di gridare?»

    «È un brutto affare doversi tormentare; ma credo che lavar piatti e mettere in ordine una casa sia il peggior lavoro del mondo. Mi mette di cattivo umore; e le mie mani si irrigidiscono a tal punto da non poter più studiare il piano». Beth si guardò le mani ruvide con un sospiro che questa volta tutte poterono udire.

    «Credo che nessuna di voi patisca quanto me», gridò Amy, «perché voi non siete costrette ad andare a scuola con ragazze impertinenti che vi prendono in giro se non sapete la lezione, vi burlano per i vostri vestiti fuori moda, sfamano vostro padre se non è ricco, o vi insultano se non avete un profilo greco».

    «Faresti meglio a dire diffamano e non sfamano, come se papà fosse un morto di fame», suggerì Jo, ridendo.

    «So quel che dico, e tu non dovresti fare della statira al riguardo. È corretto usare le parole e ampliare il proprio vocabolario», replicò Amy con dignità.

    «Non bisticciate, ragazze. Non preferiresti, Jo, avere il denaro che papà ha perduto quando eravamo piccoline? Mio Dio, come saremmo felici e contente se non avessimo avuto tante disgrazie!», osservò Meg, che poteva ricordare tempi migliori.

    «L’altro giorno hai detto che ci consideri più felici dei piccoli King, perché litigano e sono noiosi tutto il giorno, nonostante il loro denaro».

    «Infatti, Beth. E penso che sia così; perché, pur avendo da lavorare, sappiamo divertirci da sole e formiamo una bella banda, come direbbe Jo».

    «Jo usa simili parole di gergo!», osservò Amy, lanciando un’occhiata di rimprovero alla lunga figura stesa sul tappetino. Jo immediatamente si mise a sedere, infilò le mani nelle tasche e cominciò a fischiettare.

    «Non fare così, Jo; sono modi troppo da ragazzi!».

    «Per questo lo faccio».

    «Non mi piacciono le ragazze sgarbate, che non sembrano signorine».

    «E io odio le gatte morte, affettate».

    «Gli uccellini vanno d’accordo nei loro piccoli nidi», canticchiò Beth, la pacificatrice, con un viso così comico che le due voci stridenti si spensero in una risata, e il bisticcio per quella volta finì.

    «Veramente, bimbe, siete tutte e due da biasimare», disse Meg, cominciando la sua solita predica da sorella maggiore. «Tu sei abbastanza grande per smettere gli scherzi da ragazzi e per comportarti meglio, Josephine. Non aveva grande importanza quando eri bambina; ma ora che sei così alta e ti annodi i capelli, dovresti ricordare di essere una signorina».

    «Non sono una signorina e se annodarsi i capelli mi costringe a diventarlo, porterò due code fino a venti anni!», esclamò Jo, togliendosi la reticella dal capo e sciogliendo la folta capigliatura castana. «Mi disgusta pensare che devo crescere, essere la signorina March, portare gonne lunghe e apparire composta come un fiore cinese. È già abbastanza noioso che io sia nata femmina, quando mi piacciono tanto i giochi, le occupazioni e le abitudini dei ragazzi. Non posso dimenticare il dispiacere di non essere un maschio, ora più che mai, perché muoio dal desiderio di andare a battermi con papà e invece non mi rimane che stare a casa a lavorare a maglia come una vecchia rammollita», e Jo agitò il calzino azzurro da soldato in modo che i ferri crepitarono come nacchere e il gomitolo rotolò per la stanza.

    «Povera Jo, che disgrazia! E senza rimedio! Perciò cerca di consolarti con il cambiare il tuo nome in uno maschile e far da fratello a noi ragazze», disse Beth, accarezzando sulle sue ginocchia la testa scarmigliata della sorella con una mano che tutto il lavare e lo spolverare del mondo non avrebbero reso inadatta alla dolce carezza.

    «Quanto a te Amy», continuò Meg, «sei proprio troppo manierata e inappuntabile. Le tue arie, oggi, divertono, ma crescerai come un’ochetta affettata se non ci pensi. Mi piacciono i tuoi modi garbati e il tuo parlar raffinato, quando non cerchi di fare l’elegante; ma le espressioni assurde sono sgradevoli quanto il gergo di Jo».

    «Se Jo è un monello e Amy un’ochetta, che cosa sono io, per piacere?», chiese Beth, pronta a ricevere la sua parte di predica.

    «Tu sei una cara ragazza e null’altro», rispose Meg con impeto; e nessuna la contraddisse perché la «Topolina» era la beniamina della casa.

    Poiché alle giovani lettrici piace conoscere l’aspetto dei personaggi, approfitteremo di questo momento per far loro la descrizione delle quattro sorelle che stavano lavorando a maglia al crepuscolo, mentre fuori cadeva lenta la neve di dicembre e dentro il fuoco scoppiettava allegramente.

    Margaret o Meg, la più anziana delle quattro, aveva sedici anni ed era molto carina, con il volto paffuto e luminoso, grandi occhi, folti e morbidi capelli scuri, bocca dolce e mani candide, delle quali andava piuttosto orgogliosa. Jo o Josephine, di quindici anni, era alta, magra e bruna ed evocava un puledro perché sembrava non saper mai che cosa fare delle sue lunghe estremità che spesso la imbarazzavano. Aveva una bocca risoluta, il naso spiritoso; gli occhi grigi e furbi, a cui nulla sembrava sfuggire, erano, volta a volta, fieri, scherzosi o pensosi. La folta e lunga capigliatura rappresentava la sua bellezza; ma, di solito, era raccolta in una rete perché non le desse fastidio. Teneva le spalle curve; i piedi e le mani apparivano grandi; sembrava che i suoi abiti dovessero sempre volar via e presentava l’aspetto di una ragazza che sta mutandosi rapidamente, e suo malgrado, in donna. Elizabeth – o Beth come la chiamavano tutti – era una fanciulla di tredici anni, dal volto roseo, i capelli lisci, gli occhi luminosi, di modi riservati, di voce timida e con un’espressione serena che di rado si alterava. Suo padre la chiamava «Piccola Tranquillità»: il che le si confaceva a meraviglia, perché sembrava vivere in un suo felice mondo, osando avvicinare soltanto quelle poche persone che riscuotevano la sua fiducia e il suo affetto. Amy, sebbene fosse la più giovane, era un personaggio molto importante, almeno secondo la sua opinione. Una figura angelica dagli occhi azzurri, dai ricci biondi sciolti sulle spalle; pallida e snella, aveva un comportamento da signorina mai dimentica dei suoi modi. Lasceremo indovinare quale fosse il carattere delle quattro sorelle.

    L’orologio suonò le sei; allora, dopo aver scopato il focolare, Beth pose un paio di pantofole a scaldare vicino al fuoco. D’improvviso, la vista di quelle calzature produsse un ottimo effetto sulle ragazze; la madre stava per rientrare e ognuna di esse si rallegrò al pensiero di riceverla. Meg smise di predicare, e accese la lampada; Amy si alzò dalla poltrona senza che glielo dicessero, e Jo dimenticò la sua stanchezza sedendosi per tenere le pantofole più vicino al fuoco.

    «Queste pantofole sono proprio consunte; la mamma ne ha bisogno di un nuovo paio».

    «Ho pensato di comprarglielo con il mio dollaro».

    «No, glielo comprerò io», gridò Amy.

    «Io sono la maggiore», cominciò Meg, ma Jo la interruppe decisamente:

    «Io sono l’uomo della famiglia, ora che papà è lontano, e io provvederò alle pantofole, perché egli mi pregò in modo speciale di aver cura della mamma durante la sua lontananza».

    «Ti dirò io come dobbiamo fare», intervenne Beth. «Regaliamole ognuna di noi qualche cosa per Natale e non compriamo nulla per noi».

    «Sei sempre la stessa, cara! Ma, dimmi, che cosa le compreremo?», chiese Jo.

    Ognuna rifletté un momento e poi Meg annunciò, come se il consiglio le fosse stato suggerito dalle sue belle mani:

    «Io le prenderò un elegante paio di guanti».

    «Io delle pantofole, le migliori che esistano», gridò Jo.

    «Io qualche fazzoletto già orlato», disse Beth.

    «E io, una boccetta di acqua di colonia; le piace e non costerà molto; così mi resterà qualche cosa per comprare le mie matite», aggiunse Amy.

    «Come le presenteremo i regali?», domandò Meg.

    «Li metteremo sulla tavola, condurremo la mamma nella stanza e la guarderemo mentre aprirà le sue scatole. Non vi ricordate come facevamo per i nostri compleanni?», rispose Jo.

    «Ero così spaventata quando veniva il mio turno di sedere sulla grande sedia con la corona in testa, mentre voi avanzavate verso di me per darmi i regali, dandomi un bacio. Mi piacevano i regali e il bacio, ma era terribile vedervi sedute attorno a me mentre aprivo i regali», disse Beth che si stava abbrustolendo il volto insieme al pane per il tè.

    «Lasciamo credere alla mamma che compriamo regali per noi e prepariamole l’improvvisata. Dobbiamo andare a fare gli acquisti domani dopo pranzo, Meg, così abbiamo tempo di pensare alla recita della notte di Natale», continuò Jo, camminando su e giù con le mani dietro la schiena e il naso per aria.

    «Non intendo recitare più dopo questa volta», osservò Meg che faceva sempre la bambina quando si trattava di mascherarsi.

    «Tu non smetterai, lo so, finché potrai trascinare lo strascico di un vestito bianco, con i capelli sciolti sulle spalle, adorna di gioielli di carta dorata. Sei la migliore attrice che abbiamo e tutto sarebbe finito se tu abbandonassi le scene», disse Jo. «Noi dovremmo provare questa sera. Vieni qui, Amy, e ripeti la scena dello svenimento perché in quella ti tieni rigida come se avessi inghiottito un bastone».

    «Non so che farci; non ho mai visto qualcuno svenire e non voglio ridurmi piena di lividi, cadendo distesa come fai tu. Se posso lasciarmi andare giù comodamente, cadrò; altrimenti mi abbandonerò sopra una sedia restando in una graziosa posizione; e non mi preoccuperò se Hugo si getta contro di me con una pistola», replicò Amy, che non era dotata di qualità drammatiche, ma che era stata scelta perché abbastanza piccola per essere trasportata via, svenuta, dal protagonista.

    «Regolati in questo modo; stringi le mani così e barcolla per la stanza gridando freneticamente: Roderigo, salvami, salvami!», e Jo si mosse con un tragico urlo che fece davvero rabbrividire.

    Amy si provò a imitarla, ma allungò le mani rigide davanti a sé e procedette come un automa e il suo «ah» suggerì più l’idea che si fosse punta con una spilla invece d’esser tormentata dall’angoscia o dalla paura. Jo emise un sospiro disperato, Meg rise di cuore e Beth lasciò bruciare il pane mentre osservava con interesse la divertente prova.

    «Non c’è niente da fare! Quando arriverà il momento farai del tuo meglio e se il pubblico riderà non prendertela con me. Forza, Meg».

    Le cose andarono avanti speditamente, Pedro sfidò il mondo con un discorso di due pagine senza una sola interruzione; Hagar, la strega, lanciò un terribile incantesimo a un recipiente di rospi in ebollizione; Roderigo fece virilmente a pezzi le sue catene, e Hugo morì in un’agonia di arsenico e rimorso con un selvaggio «Ah! Ah!».

    «È la miglior prova che abbiamo fatto», disse Meg.

    «Non so come fai a scrivere e mettere in scena così splendidi drammi, Jo: sei un vero Shakespeare!», esclamò Beth, la quale credeva fermamente che le sorelle fossero dotate di un genio meraviglioso in ogni cosa.

    «Non del tutto», ribatté Jo modestamente. «Penso che la tragedia lirica La maledizione della strega sia piuttosto riuscita; ma mi piacerebbe provare Macbeth se avessimo un trabocchetto per Banquo. Ho sempre desiderato recitare la parte dell’uccisore. È un pugnale quello che vedo davanti a me?», mormorò la ragazza, roteando gli occhi e impugnando l’arma a vuoto, come aveva visto fare da un famoso attore tragico.

    «No, è la forchetta per abbrustolire il pane sulla quale sono infilzate le pantofole della mamma. Beth è rimasta colpita dalla scena», gridò Meg e la prova ebbe fine in un generale scoppio di risa.

    «Sono contenta di trovarvi così allegre, figliole mie», disse una voce festosa alla porta: e attori e pubblico si volsero a salutare un’alta materna figura, dall’espressione veramente deliziosa. Non era vestita con eleganza, ma aveva l’aspetto di una nobile signora e le sue figliole, quando la vedevano con il suo abito grigio e il cappello fuori moda, la ritenevano la più bella madre del mondo.

    «Allora, bambine, come avete trascorso la giornata? Ho avuto tanto da fare per preparare i pacchi da spedire domani che non sono potuta rientrare per pranzo. Nessuno è venuto, Beth? Come va il tuo raffreddore, Meg? Jo, sembri stanca morta. Vieni a darmi un bacio, piccola».

    Mentre chiedeva queste materne informazioni, la signora March si spogliava degli abiti bagnati, infilava le pantofole calde e, sedendosi sulla poltrona, prendeva Amy in grembo, preparandosi a godere l’ora più felice della sua faticosa giornata. Le ragazze si affrettarono, cercando ciascuna, secondo il suo compito, di rendersi utile e Meg preparò la tavola per il tè; Jo prese la legna e mise a posto le seggiole, gettando a terra, rovesciando e sbattendo quanto toccava; Beth trottava avanti e indietro tra il salotto e la cucina, tranquilla e affaccendata, mentre Amy dirigeva tutte, seduta con le mani in mano.

    Appena furono radunate intorno alla tavola, la signora March disse, con un’espressione di particolare felicità: «Ho una bella cosa per voi dopo il pranzo».

    Un vivo, splendente sorriso brillò da un volto all’altro come un raggio di sole. Beth batté le mani senza curarsi del biscotto che reggeva e Jo gettò in aria il suo tovagliolo, gridando: «Una lettera! Una lettera! Tre evviva per il papà!».

    «Sì, una bella e lunga lettera. Sta bene e spera di sopportare il freddo meglio di quanto temessimo. Manda un sacco di auguri per Natale e un pensiero speciale a voi, ragazze», disse la signora March, battendo sulla sua tasca come se vi nascondesse un tesoro.

    «Affrettatevi e finiamo! Smetti di alzare il ditino e di fare gesti affettati sulla tua tazza, Amy», gridò Jo, soffocandosi con il tè e facendo cadere sul tappeto il suo pane spalmato di burro, nella fretta di arrivare al momento atteso.

    Beth non mangiò più e andò a sedersi timidamente nel suo angolo scuro a pregustare il piacere futuro finché le altre fossero pronte.

    «Penso che papà abbia compiuto un gesto molto bello partendo volontario, dal momento che era già troppo vecchio e non più tanto robusto per essere arruolato», osservò Meg calorosamente.

    «Se potessi almeno andare al campo come tamburino o come vivan... come si dice? o come infermiera, gli sarei vicina e potrei aiutarlo», osservò Jo con un lamento.

    «Non deve essere molto piacevole dormire sotto una tenda, mangiare ogni specie di cose disgustose e bere in una tazza di latta», sospirò Amy.

    «Quando tornerà a casa, mamma?», chiese Beth con un leggero tremito nella voce.

    «Tra molti mesi, cara, a meno che non si ammali! Egli resterà a compiere fedelmente il suo dovere il più a lungo possibile e noi non domanderemo che egli torni un minuto prima. Resterà al suo posto fino a quando potranno fare a meno di lui. Ora venite ad ascoltare la lettera».

    Si avvicinarono tutte al fuoco, la madre in poltrona con Beth ai suoi piedi; Meg e Amy sedute sui braccioli e Jo appoggiata alla spalliera dove nessuna avrebbe scorto in lei qualche segno di emozione se la lettera fosse stata commovente. Ben poche lettere che non fossero commoventi venivano scritte in quei tempi difficili, specialmente quelle che i padri mandavano a casa. In questa, poco veniva detto delle sofferenze sopportate, dei pericoli affrontati, della nostalgia profonda; si trattava di una lettera incoraggiante, piena di speranze, di vivaci descrizioni della vita al campo, delle marce e di notizie militari; soltanto alla fine il cuore di chi scriveva traboccava di amor paterno e di ardente desiderio per le piccole rimaste a casa.

    Baciale per me con i miei più affettuosi saluti. Ricorda loro che le penso tutto il giorno, che prego per esse la notte e che in ogni momento trovo il mio più gran conforto nel loro affetto. Un anno di attesa prima di rivederle sembra molto lungo, ma ricorda loro che durante questa attesa tutti possiamo lavorare affinché questi giorni difficili non vadano perduti. Sono sicuro che non avranno dimenticato quanto ho detto loro, che saranno affettuose con te, che faranno il loro dovere con fedeltà, che combatteranno coraggiosamente i nemici del loro spirito e vinceranno le loro passioni a tal punto che, al mio ritorno, potrò essere più che mai orgoglioso e innamorato delle mie piccole donne.

    A queste parole nessuna delle ragazze poté nascondere la propria emozione. Jo non si vergognò del lacrimone che scivolava sulla punta del suo naso e Amy non pensò ai riccioli che si scomponevano mentre nascondeva il volto contro la spalla della madre, singhiozzando: «Sono una vera egoista! Ma farò di tutto per diventare migliore, così che papà al suo ritorno non sia deluso di me».

    «Faremo tutte del nostro meglio», gridò Meg, «io mi preoccupo troppo di far bella figura e detesto il lavoro, ma cercherò di migliorarmi se mi è possibile!».

    «Io mi sforzerò di diventare una vera donnina come gli piace chiamarmi, di non essere più sgarbata e impetuosa e di fare il mio dovere invece di desiderare altro», continuò Jo, pur credendo fermamente che cercare di mettere un freno al suo carattere fosse più difficile che far fronte a uno o due ribelli nel Sud.

    Beth non parlò, ma si asciugò le lacrime con la calza che stava facendo e si mise a sferruzzare con tutta la sua forza per non perdere tempo nel compiere i suoi doveri e proponendosi nel suo piccolo cuore sereno, di farsi trovare realmente quale suo padre sperava, quando il volger dell’anno lo avrebbe ricondotto felicemente a casa.

    La signora March ruppe il silenzio, seguito alle parole di Jo, chiedendo con la sua dolce voce: «Ricordate quando giocavate ai Pellegrini da piccole? Nulla vi divertiva di più quanto il farvi legare da me sulle spalle i sacchetti che chiamavate il vostro fardello, farvi dare i cappelli, i bastoni e i rotoli di carta e andare pellegrinando per casa, dalla cantina, che chiamavate la Città di Distruzione fino alla terrazza, dove conservavate tutte le cose belle che potevate raccogliere per farne la Città Celeste».

    «Ah, come era divertente! Specialmente passare vicino ai leoni, combattere il diavolo, attraversare la Valle dei Folletti!», esclamò Jo.

    «A me piaceva il luogo dove i fardelli cadevano dalle spalle e rotolavano per le scale», disse Meg.

    «Il mio momento preferito era quando, giunta in cima al terrazzo, tra i fiori, le piante e le belle cose, ci fermavamo per cantare di gioia nel brillare del sole», osservò Beth sorridendo, come se per lei quel momento piacevole fosse ritornato.

    «Non mi ricordo molto di tutto ciò, tranne che avevo paura della cantina e dell’ingresso scuro e che mi piacevano molto il latte e i dolci che ci davano lassù. Se non fossi troppo grande per certe cose, mi piacerebbe quasi ricominciare», commentò Amy, che cominciava a parlare di rinuncia ai giochi infantili alla vecchia età di dodici anni.

    «Non siamo mai troppo grandi per un simile gioco, piccola mia, perché è un gioco che in un modo o nell’altro giochiamo per tutta la vita. I fardelli pesano sulle nostre spalle, la strada è davanti a noi e il desiderio di bontà e di felicità è la guida che ci conduce attraverso errori e difficoltà a quella pace che rappresenta la vera città celeste. Ora, mie piccole pellegrine, immaginatevi di ricominciare non per scherzo, ma sul serio e vedete quali progressi potete fare prima che il babbo ritorni a casa».

    «Davvero, mamma? Dove sono i nostri fardelli?», chiese Amy, che prendeva tutto alla lettera.

    «Ciascuna di voi ha detto appunto quale era il suo fardello, tranne Beth; penso quasi che non ne abbia», disse la madre.

    «Sì, ho il mio fardello: lavare, spolverare, invidiare le ragazze che posseggono un buon pianoforte, ed esser timida».

    Ma il fardello di Beth era così comico che tutte avrebbero avuto voglia di ridere, se non avessero pensato di offenderla.

    «Sì, facciamolo», osservò Meg pensierosa. «Si tratta solo di un simbolo per cercare di migliorare e può esserci utile; perché, pur desiderando di essere buone, il nostro compito è difficile, noi lo dimentichiamo e non facciamo del nostro meglio».

    «Eravamo nell’Abisso della Disperazione oggi, e la mamma è venuta e ci ha tratte in salvo come faceva Aiuto nel libro. Dovremmo avere una guida, come Cristiano. Cosa possiamo fare riguardo a questo?», rispose Jo, allettata dall’idea di dare un po’ di avventura al noioso compito di fare il proprio dovere.

    «Guardate sotto il cuscino, la mattina di Natale, e troverete il vostro libro guida», soggiunse la signora March.

    Continuarono a parlare così del nuovo progetto mentre la vecchia Hannah sparecchiava la tavola; poi vennero fuori i quattro cestini da lavoro e gli aghi volarono sulle lenzuola che le ragazze cucivano per la zia March. Non si trattava di un lavoro interessante, ma quella sera nessuna brontolò. Esse accettarono la proposta di Jo di dividere le lunghe cuciture in quattro parti, di chiamare le quattro parti Europa, Asia, Africa, America e in quel modo progredivano magnificamente, specialmente quando parlavano delle diverse parti mentre le stavano cucendo.

    Alle nove smisero di lavorare e cantarono come al solito, prima di andare a letto. Nessuna, eccetto Beth, avrebbe potuto trarre tanti suoni dal vecchio piano, ma essa aveva un tocco dolcissimo sui tasti ingialliti, e sapeva accompagnare gradevolmente il loro semplice canto. Meg, che possedeva una voce flautata, dirigeva con la madre il piccolo coro. Amy strideva come un grillo, e Jo faceva continue variazioni a suo capriccio e perdeva sempre il ritmo con un trillo o una stecca che rovinavano la melodia più sentimentale. Avevano sempre cantato così fin da quando, bambine, avevano potuto balbettare:

    Canta, canta, stellina!

    e ora era diventata un’abitudine prima di andare a letto, perché la madre era una cantante nata. Il primo suono del mattino era la sua voce, quando essa girava per casa cantando come un’allodola; e l’ultimo era quella stessa voce lieta, perché le ragazze non si sentivano mai troppo grandi per rinunciare a quella consueta ninna nanna.

    2. Un buon Natale

    Jo fu la prima a svegliarsi nella grigia alba della mattina di Natale. Dal caminetto non pendevano calze e, per un momento, essa provò la stessa delusione di molti anni prima quando aveva trovato che il suo calzino, troppo pieno di dolci, era caduto a terra. Poi, ricordò la promessa della madre e passando la mano sotto il cuscino, ne trasse un libretto rilegato in rosso. Lo riconobbe benissimo, perché si trattava della più bella e vecchia storia della più bella vita che sia mai stata vissuta, e comprese come fosse una vera guida per ogni pellegrino che si accinga a un lungo viaggio. Svegliò Meg con un «Buon Natale» e le disse di guardare che cosa vi fosse sotto il suo guanciale. Apparve un libro rilegato in verde, ornato della medesima vignetta, con una dedica di poche parole della mamma, dedica che rese più prezioso ai loro occhi quell’unico regalo. Poco dopo si svegliarono Beth e Amy e, cercando, trovarono anch’esse il loro libretto, uno dalla rilegatura grigio tortora, l’altro azzurra; e tutte si misero ad osservarli e a parlarne, mentre l’oriente si faceva color di rosa al sorgere del giorno.

    Nonostante le sue piccole vanità, Margaret era di una natura dolce e pia che esercitava, senza saperlo, una grande influenza sulle sorelle, specialmente su Jo, che le voleva molto bene e le obbediva perché i suoi consigli venivano porti con grande gentilezza.

    «Ragazze», disse Meg, seria, volgendo lo sguardo dal capo arruffato vicino a lei alle due testine in cuffia da notte nell’altra stanza, «la mamma desidera che leggiamo, amiamo e ci interessiamo a questo libro e dobbiamo cominciare subito. Un tempo lo leggevamo fedelmente; ma da quando il babbo è partito, e tutte queste difficoltà della guerra ci hanno turbato, abbiamo trascurato molte cose. Voi fate come più vi piace, ma io terrò il mio libro qui sul tavolino e ne leggerò qualche pagina ogni mattina al mio risveglio, perché so che questo mi renderà buona e mi aiuterà durante la giornata».

    Quindi aprì il suo nuovo libro e cominciò a leggere. Jo le mise un braccio intorno alla vita e, tenendo guancia contro guancia, lesse insieme a lei, con una serena espressione non abituale al suo volto irrequieto.

    «Come è buona Meg! Via, Amy, facciamo come loro. Ti aiuterò per le parole difficili ed esse ci spiegheranno i passaggi che non comprendiamo», sussurrò Beth, molto colpita dal grazioso libro e dall’esempio delle sorelle.

    «Sono contenta che il mio sia azzurro», disse Amy; poi le stanze si fecero silenziose, mentre le pagine venivano voltate dolcemente e la luce del sole invernale entrava a sfiorare le teste luminose e i volti pensosi, con un augurio di Natale.

    «Dove è la mamma?», domandò Meg, mentre mezz’ora dopo correva insieme a Jo a ringraziarla per i suoi regali.

    «Dio lo sa! Certe povere creature sono venute in cerca di soccorso, e vostra madre è scappata via per vedere che cosa occorreva loro. Non v’è mai stata una donna simile al mondo per togliersi la camicia e levarsi il pane dalla bocca», rispose Hannah, che si trovava in quella casa da quando era nata Meg, e che tutti consideravano più un’amica che una domestica.

    «Credo che tornerà presto; perciò fate cuocere le vostre focacce e tenete pronto tutto il resto», disse Meg, gettando un’occhiata ai regali raccolti in un canestro sotto al divano per essere presentati al momento propizio. «Come! Dov’è l’acqua di colonia di Amy?», soggiunse non scorgendo la boccetta.

    «L’ha presa qualche minuto fa e l’ha portata via per metterci un nastro o qualche cosa di simile», rispose Jo, ballando per la stanza per ammorbidire le pantofole nuove nuove.

    «Che bella figura fanno i miei fazzoletti, vero? Hannah li ha lavati e stirati, ma li ho cifrati tutti da me», disse Beth osservando con fierezza le cifre piuttosto disuguali che le erano costate tanta fatica.

    «Benedetta figliola! Ha messo Mamma invece di M. March. Che buffo!».

    «Non va bene? Ho pensato che fosse meglio far così, perché le iniziali di Meg sono M.M. e non desidero che qualcuno usi questi fazzoletti all’infuori della mamma», rispose Beth avvilita.

    «Va benissimo, cara! È una buona idea e, soprattutto sensata, perché così, ora, nessuno potrà sbagliare. Le piacerà moltissimo, sono convinta», assicurò Meg con uno sguardo severo a Jo e un sorriso a Beth.

    «Ecco la mamma, nascondete il canestro, presto», gridò Jo, mentre una porta sbatteva e un passo risuonava nell’ingresso.

    Amy rientrò in fretta e sembrò confusa nel vedere che le sorelle l’aspettavano.

    «Dove sei stata e che cosa nascondi dietro la schiena?», domandò Meg, sorpresa, accorgendosi, dal cappuccio e dal mantello, che la pigra Amy era uscita così presto.

    «Non ridere di me, Jo; non volevo che qualcuno sapesse prima del tempo. Ho desiderato soltanto cambiare la boccetta con una più grande e ho speso tutto quanto possedevo per cercare di non essere più egoista».

    Così dicendo Amy mostrò la bella boccetta che sostituiva l’altra meno cara, e sembrava così grave e umile nel suo modesto sforzo per correggersi che Meg l’abbracciò immediatamente e Jo la definì un «asso», mentre Beth correva alla finestra a cogliere la sua più bella rosa per ornare la

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