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Una vita
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E-book443 pagine6 ore

Una vita

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Info su questo ebook

A cura di Mario Lunetta
Edizione integrale

Una vita è il primo passaggio obbligato per entrare in quella sorta di “presa di coscienza”, individuale e collettiva, della crisi della cultura e dei valori dell’uomo europeo, che i romanzi di Svevo in qualche modo rappresentano. Nel racconto di un’esistenza che si svolge tutta all’insegna del non vivere, si scontrano la poetica del verismo e del naturalismo, l’oggettività con cui vengono descritti ambienti e tematiche sociali con la tensione, tutta nuova, dell’introspezione psicologica e autobiografica. La parabola esistenziale di un sognatore, implacabile analizzatore di se stesso, negato all’azione e quindi destinato all’inevitabile fallimento.

«La semplicità dei costumi era felicità, era felicità la bontà ed era felicità la pace. E poi niente altro.»


Italo Svevo

(pseudonimo di Ettore Schmitz) nacque a Trieste nel 1861. Fu il primo scrittore italiano a interessarsi alle teorie psicoanalitiche di Freud, che proprio allora cominciavano a diffondersi in Europa. Fu grande amico di Joyce, che lo fece conoscere a livello internazionale, e di Montale, che in Italia ne intuì per primo le eccezionali doti di narratore. Morì nel 1928. Di Svevo, la Newton Compton ha pubblicato La coscienza di Svevo, Senilità e Una vita nella collana GTE, e il volume unico Tutti i romanzi e i racconti.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854134010
Una vita
Autore

Italo Svevo

Italian writer, born in Trieste, then in the Austro-Hungarian Empire, in 1861, and most well known for the novel _La coscienza di Zeno_.

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    Anteprima del libro

    Una vita - Italo Svevo

    EC024 - SVEVO Una vita EBOOK.pnge-classici.png

    24

    Indice

    Introduzione a Italo Svevo, di Mario Lunetta

    Cronologia della vita e delle opere di Italo Svevo

    Bibliografia critica

    Guida alla lettura di Una vita

    UNA VITA

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Titolo originale: UNA VITA

    Traduzione di Sara Cortesia

    Prima edizione ebook: luglio 2011

    © 2009, 2010 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3401-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura della geco srl

    Italo Svevo

    Una vita

    A cura di Mario Lunetta

    Edizione integrale

    logo_NCE.png

    Introduzione a Italo Svevo

    È indispensabile, accostandosi a Italo Svevo, non dimenticare la sua condizione di italiano suddito imperialregio: una condizione che lo apparenta ad autori come Schnitzler, Hofmannsthal, Kafka, Musil, sia nella coscienza della dissoluzione del gran corpo incoeso dello Stato austroungarico che nella necessità di rispondere a questa dissoluzione, sul piano letterario, con l’adozione di un sistema aperto di moti peristaltici e di forme deputate alla corrosione critica degli statuti della narrativa realistica ottocentesca (1. fisionomia accertata del personaggio rispetto alla consistenza del teatro dell’azione; 2. monoassialità del rapporto scrittura-referente).

    La molteplicità in qualche modo «pre-cubista» del punto di vista, la rarefazione delle atmosfere che assumono la stessa centralità protagonistica dei personaggi; l’annullamento delle distanze di rispetto tra autore e materia, infine le varie soluzioni tecniche legate al monologo interiore, al flusso di coscienza e alle associazioni di idee ritmate sul diagramma oscillante di psicologie che stanno scontando un’irrimediabile «perdita del centro»: sono questi i caratteri che scandiscono i tempi di quella lunga veglia funebre truccata da fiera delle vanità che è la finis Austriae. L’italiano Italo Svevo ne è parte non solo in quanto Ettore Schmitz, ma in quanto intellettuale anche linguisticamente scisso, e individuo che aspira a un’unità spirituale sempre meno oggettivabile. Il diaframma tra animus e res si è assottigliato fin quasi a scomparire. Il quadro del mondo è il quadro della coscienza che ha smarrito le coordinate della totalità: è ormai un quadro schizofrenico, e non nutre illusioni palingenetiche o pretese di catarsi. L’ottimismo positivistico ha ceduto il passo alla percezione nevrotica della catastrofe.

    L’imago della Belle Époque asburgico-borghese è simile a quella di Dorian Gray: è un’immagine doppia. Dentro la sua specularità si annida il segreto sociale e culturale della propria perdizione. Chi ha la forza di guardarla, non può farlo ormai che da viaggiatore prossimo al naufragio o da naufrago sulla zattera: dalla labile piattaforma della nostalgia o dal deserto del nihilismo. Non ci sono dubbi sull’assai più ricca produttività della seconda soluzione: bastino per tutti i nomi di Musil e di Kafka, i cui «uomini senza qualità» esprimono soltanto il doppio paròdico dell’azione, in tutta la spettralità dell’Essere Borghese.

    C’è chi sceglie – come Schnitzler – il sarcasmo irridente; e chi – come Svevo – la distanza elastica dell’ironia. Ma anche questa scelta (quanto si voglia obbligata) è il risultato di un tormentoso processo di autoappropriazione: cioè, la conquista dell’unica forma di coscienza epocale, quella della scissione.

    Fin dalle prime prove letterarie, Schmitz-Svevo dà segno di aver intrapreso un cammino di avanzata obliqua, per così dire, tutt’altro che in linea con la marcia dell’armata naturalistica. Quanto l’ideologia del naturalismo è omologa all’assetto dell’universo borghese che si gioca (e si danna) sulla finzione della propria scientificità/ineluttabilità, tanto l’atteggiamento di Svevo risulta «dilettantesco». È questa la sua scelta trasgressiva e vincente, a partire dalla sua preistoria di narratore. Nota acutamente Romano Luperini nel suo Novecento (Loescher, 1981): «Chi avrà salvaguardato dentro di sé il desiderio, chi non avrà tradito del tutto il principio di piacere, chi avrà mantenuto una disponibilità sino a rifiutare qualunque determinazione, qualunque forma cristallizzata, potrà avere un futuro. In costui appunto si identifica Svevo: questo è il senso del suo dilettantismo, del suo prendere di sbieco la vita».

    Per capire dall’interno le ragioni di questo tracciato obliquo e il processo di sviluppo dell’arte sveviana fino ai suoi risultati più alti, è utile considerare certe prove minori e laterali, la cui relativa acerbità le assegna certamente alla preistoria della narrativa del triestino, ma che pure contengono in nuce tratti e componenti che si organizzeranno con una ricchezza e una profondità incomparabilmente più grandi nelle opere successive, e disegneranno la fisionomia inconfondibile dello scrittore.

    Un momento quasi esemplare di questo tracciato che fatica a definirsi, impacciato com’è da una serie di elementi spurii e ritardanti rispetto a quello che si confermerà poi come il filone centrale della ricerca di Svevo, è costituito dal lungo racconto giovanile pubblicato nel 1890 in L’Indipendente, che segna l’esordio narrativo dello scrittore. Il romanzo Una vita uscirà due anni dopo, ma già questo testo del ventinovenne narratore rivela certe sue inclinazioni e movenze discretamente caratterizzate

    Il titolo del racconto è L’assassinio di Via Belpoggio, e vi si narra la storia di un facchino che uccide con una coltellata al cuore e poi deruba di una forte somma un occasionale compagno di sbornie. All’inizio la fa franca, ma in seguito la stretta del rimorso, l’incertezza e l’incapacità di assumere cinicamente il ruolo dell’innocente gli fanno commettere una tale quantità di errori da insospettire chi gli vive accanto, finché non viene arrestato e confessa il delitto.

    La cornice che inquadra il racconto è chiaramente naturalistica. Delle suggestioni che il «roman expérimental» di matrice zoliana e autori come Flaubert, Daudet, Gourmont esercitano in questo periodo sul giovane scrittore fa fede, tra l’altro, una nota di diario del fratello Elio in data 12 maggio 1881: «Ettore fa... nulla: legge, studia sempre, ed è sempre più fermo nell’idea di studiare e scrivere. Vive sognando commedie e lavori ora drammatici, ora romantici, che sulla carta non vengono mai a compimento. Ha ora cambiato alquanto partito in arte. È verista. Zola lo ha confermato nell’idea che lo scopo della commedia e l’interesse devono essere i caratteri e non l’azione. Tutto deve essere vero».

    Se il progetto è zoliano, l’aria che circola dentro all’Assassinio di Via Belpoggio è tutt’affatto diversa, già inclinata sul versante dell’analisi e dell’introspezione psicologica, tendente sia pure timidamente a suggerire un clima fluido, impalpabile, sottilmente soggettivo e perciò «aperto» rispetto alla concezione «chiusa» dell’oggettivismo naturalistico. Né estranee all’atmosfera del racconto risultano certe suggestioni del Dostoevskij di Delitto e castigo (Raskolnikov non compie anche lui una serie di «errori» dopo il delitto, pur se calcolati con rischiosa freddezza?) e addirittura, a prova ulteriore di una consonanza culturale e di un atteggiamento mentale in qualche misura propri a tutta la cultura mitteleuropea, certi brividi kafkiani avanti lettera (si veda, ad es., l’arresto dell’assassino da parte dei poliziotti, fissato in una luce di astrazione cruda e angosciosa).

    L’analisi sveviana è appena agli albori, eppure funziona con una sua indubbia efficacia da elemento di disturbo e di frattura, da contraddizione attiva nel corpo della struttura naturalistica del testo. Se tale contraddizione raggiungerà maggiore evidenza e maggiore scarto nel successivo romanzo Una vita, già qui comunque la visione personale dello scrittore si avverte senza equivoci in certi momenti di riflessione e di scavo interiore. Ecco perché per alcuni versi L’assassinio di Via Belpoggio non solo preannuncia certe linee di sviluppo della successiva ricerca di Svevo, ma tende a trasbordare fuori dal solco naturalistico, dall’oggettivismo della «tranche de vie», realizzandosi con l’immersione della vicenda in un clima già pregno di imponderabili ragioni individuali, per via di segmenti apparentemente spezzati, di un reticolato complicato e sottile di nessi psicologici, di nevrosi accennate, di censure e amputazioni, caratteristici della letteratura (e dell’uomo «straniero» nel mondo) del nostro secolo.

    In una pagina del 1927 Svevo scrive: «L’immaginazione è una vera avventura. Guàrdati dall’annotarla troppo presto perché la rendi quadrata e poco adattabile al tuo quadro. Deve restare fluida come la vita stessa che è e diviene». A questa consapevolezza si è ispirato l’intero percorso della ricerca sveviana. La percezione acutissima di ciò che vibra dentro questa fluidità è la sua forza e il carattere primario della sua cifra. Osserva esattamente Franco Petroni in una sua monografia recente che il «dilettantismo» di Svevo è il tentativo sempre rinnovantesi «di mantenere un incerto punto di equilibrio tra principio di realtà e principio del piacere, tra doveri imposti e desiderio. La letteratura è, per Svevo, uno strumento insostituibile per mantenere il punto di equilibrio. Da alcuni suoi scritti, che non hanno alcuna pretesa teorica, è ricavabile una poetica che sotto l’aspetto dimesso cela una profonda originalità, anzi un modo rivoluzionario di intendere la funzione della letteratura. Questa è considerata infatti non come mezzo per dare espressione a dei miti collettivi, sublimando e celando, attraverso la forma, le contraddizioni che esistono in seno a una collettività e che si riflettono sulla psiche dell’individuo, ma piuttosto come strumento terapeutico individuale, che funziona mediante una continua e capillare presa di coscienza. La letteratura è, in questo senso, uno strumento insostituibile di igiene».

    Una vita è il primo passaggio obbligato per entrare nell’area «avventurosa» di questa presa di coscienza. I suoi risultati sul piano espressivo possono essere diseguali, ma il romanzo resta, nella storia di Svevo, un momento fondamentale: la zona di minor resistenza in cui si esprime la sua crisi. Alfonso Nitti è il primo degli «inetti» sveviani: una sorta di archetipo debole, di sinopia macerata. La sua è più che altro una forma cava in potenza che reclama il corpo che la incarni in atto. In Senilità (1898) l’incarnazione è avvenuta: Svevo conosce se stesso. In un certo senso, il suo destino di scrittore è segnato: e correrà in rotta di collisione nei confronti di ciò che si chiama successo, fino al 1925. Scrive con la consueta acutezza Giacomo Debenedetti nel Romanzo del Novecento: «Nel 1925 e negli anni successivi la critica e il pubblico (meno il pubblico, però, che la critica) si accorgono che Svevo è un romanziere di importanza eccezionale. La domanda più ovvia è: perché prima di allora non se ne erano resi conto? La risposta più ovvia, dal nostro punto di vista, è che Svevo, coi suoi romanzi, presenta l’immagine dell’uomo che la nuova narrativa cerca e persegue; che anche i suoi romanzi, come tutti i romanzi moderni, sono romanzi interrogativi. Interrogano per cercare, forse invano, di sapere il significato della vita, il senso del destino di un uomo dissociato, dilacerato. Forse parrà banale, ma è necessario, soggiungere che formulare più o meno distintamente una domanda non vuol dire promettere o far sapere una risposta. L’idea che porre un problema sia già risolverlo è tipica degli uomini e delle età ottimistiche (una simile idea, per esempio, era molto cara a Benedetto Croce. Ma il Croce, per l’appunto, era un ottimista, sia pure nel modo più complesso e meno ingenuo). Il romanzo interrogativo, anche in Svevo, è quello che affaccia, e lascia aperto nella sua drammatica problematicità, il problema di trovare il senso di ciò che si vede».

    Non è certo un caso che chi fa questa analisi tanto puntuale e suggestiva sia l’autore di Amedeo (1926), un racconto al cui centro vive un protagonista che «finiva coll’affidarsi alla coscienza di una generica superiorità, difendendosi da ogni urto esteriore con una specie di solitudine ascetica; sostenuta peraltro dalla tragica civetteria di volersi far notare dai circostanti come ribellione per una virtù disconosciuta ovvero minaccioso silenzio carico d’avvenire». Ha precisamente notato Enrico Ghidetti che «una analoga sintomatologia [...] aveva afflitto, anni prima, Emilio Brentani». Brentani, appunto, il piccoloborghese protagonista di Senilità con velleità di scrittore; l’uomo d’ordine che flirta cautamente con idee filosocialiste tanto generiche quanto episodiche; colui, infine, che «sceglie» per manco di vitalità di appassire come appassisce un vegetale anziché difendere i diritti del proprio desiderio. Tra la chiarezza geometrica della sconfitta di Emilio e l’ambiguità della sconfitta del protagonista di Una vita (che pure conteneva in sé un tasso non trascurabile di conflittualità e di opposizione al dominante modello culturale borghese), si sviluppa l’apertura angolare a amplissimo raggio che porta alla Coscienza di Zeno. È stato più volte notato che il significato dell’«inettitudine» di Zeno Cosini è ambiguo: ma è proprio in questa ambiguità che si esprime la sua ricchezza poetica.

    L’inettitudine, appunto. La dépense, diremmo oggi, in termini bataillani. L’atteggiamento non accumulativo, non risparmiatorio. Insomma, quanto di più spregevole (e magari, esiziale) per un’ottica fondata sull’orizzonte di valori della produttività borghese, dell’efficientismo, dell’economia della ricchezza e delle passioni; della «chiarezza».

    In un’opera indubitabilmente «aperta» come La coscienza di Zeno («un’opera totalmente nuova, rivoluzionaria, che si situa allo stesso livello delle più grandi opere della contemporanea avanguardia europea»: F. Petroni, Svevo, Milella, pp. 29-30), Svevo assume l’inettitudine come contro-valore attivo. Senza nessuna pretesa ideologica, senza appoggiarsi come in passato alle teorie di Schopenhauer o di Darwin, rinunciando definitivamente ai «diritti» di quello che è stato definito il suo moralismo senza morale, prendendo nettamente le distanze perfino dalla psicoanalisi come Weltanschauung e passepartout scientistico per servirsene non senza ironia semplicemente a livello di tecnica, Svevo affronta in questo romanzo che è un testo di pura scrittura autogenerativa, privo di qualsiasi «didascalia» o «istruzione per l’uso» (cioè a dire, privo di quelle che risultano le rassicuranti ficelles ideologiche di tutta la narrativa mimetica, nella quale il lettore è guidato per mano o è tranquillizzato allusivamente, non è abbandonato nel labirinto), il tema triadico che è da sempre la sua ossessione: inettitudine / malattia / senilità: sintetizzandone sintomi e comportamenti in un’area che si colloca ai due estremi dell’asse elastico malattia-salute.

    Cos’è la salute – sembra sottintendere lo scrittore – se non la zona vuota della malattia? Cos’è la malattia se non la zona vuota della salute? In realtà, ciò che interessa l’autore de La coscienza di Zeno è l’area di indeterminazione e di conflitto che resiste a ogni tentativo di razionalizzazione immunizzante. Il processo virale è certamente più vivo e interessante della sanità asettica. Lo stato entropico è ben più ricco di qualsiasi inerte serenità. La coscienza è il luogo dove queste contraddi-zioni si consumano, non è il luogo della pacificazione formale. Appunto, per dar forma letteraria a questo processo fondato su una pratica di esplorazione espressiva totalmente nuova, occorre rompere la fissità del quadro e la saldezza del rapporto autore-materia, per avventurarsi nel caos.

    La coscienza di Zeno è il rapporto di un viaggio nell’oscurità della psiche, che ripete in forma liquida i tratti dell’oscurità sociale borghese, la durezza opaca dei suoi istituti, l’implacabilità del suo codice comportamentale. Il ridicolo ne è alla base (tragicamente) e lo scrittore lo svela minandone la compattezza anche linguistica. Questo spiega in gran parte anche l’atteggiamento di sufficienza, o l’incomprensione frontale nei confronti del romanzo (e dell’intera opera sveviana) che caratterizzò la cultura letteraria coeva, e non soltanto: basti ricordare che negli anni Cinquanta Svevo fu scambiato da qualcuno per un precursore del neorealismo.

    Almeno fino agli anni Sessanta il punto di vista largamente dominante nella critica italiana è stato condizionato dalla necessità (certo non facile per parametri legati a un concetto di letteratura come forma della pacificazione sublimatoria e non come contraddizione aperta) di armonizzare la «diversità» sveviana con un quadro di ben più tranquillizzante normalità tradizionale. Il centro nevralgico di questa provocatoria «diversità» consiste nella sua irriducibilità a una visione e a una pratica della letteratura come atto di elevazione rituale dei conflitti nell’iperuranio del Bello.

    La coscienza di Zeno rappresenta il punto massimo di frizione con questo quadro, e allo stesso tempo il punto critico all’interno dell’opera sveviana. Le prove successive, dal Vecchione a La novella del buon vecchio e della bella fanciulla a Corto viaggio sentimentale a Una burla riuscita, testimoniano di un’impasse che intriga lo scrittore, tra ideologia della liberazione edonistica assoluta e pratica di una scrittura totalmente «liberata» dopo l’esperienza profonda della Coscienza.

    L’itinerario dell’autobiografia ironicamente riflessa, iniziato con Una vita nel lontano 1892, e che nell’universo di Zeno Cosini ha trovato la sua realizzazione più estesa e concentrata, deve cedere alla necessità di altre forme, che lo sperimentalismo dello scrittore sta evidentemente saggiando, con un alternarsi di avanzate, di ripiegamenti, di scarti e di pause di riflessione e di attesa (magari in direzioni solidificate: v. la chiara impronta proustiana che caratterizza Il Vecchione) a cui mette seccamente fine la morte, con l’incidente automobilistico di Motta di Livenza del settembre 1928.

    MARIO LUNETTA

    Cronologia della vita e delle opere di Italo Svevo

    Ettore Schmitz nasce a Trieste il 19 dicembre 1861 da Francesco Schmitz (figlio del funzionario imperiale austriaco Adolfo Schmitz oriundo della Renania, che aveva sposato la trevigiana Rosa Macerata) e da Allegra Moravia, quinto di otto figli: Paola, Natalia, Noemi, Adolfo, Ettore, Elio, Ortensia e Ottavio. Trascorre l’infanzia a Trieste nella casa patriarcale di Corsia Stadion, in un’atmosfera gaia e affettuosa malgrado il padre, commerciante nel ramo vetrario, fosse poco incline alle effusioni, in particolare nei rapporti coi figli.

    Il progetto di Francesco Schmitz è, tutto sommato, di fare, dei maschi, dei solidi ed esperti uomini d’affari. È per questo che a dodici anni Ettore deve partire per il collegio di Segnitz presso Würtzburg, insieme ad Adolfo ed Elio, per iniziarvi gli studi commerciali e apprendervi correttamente il tedesco, lingua indispensabile per ogni commerciante triestino. Elio non regge ai rigori del clima e della disciplina, per cui dovrà ben presto rientrare in famiglia. Ettore riesce invece ad acclimatarsi, e in pochi mesi impara la lingua, tanto da essere in grado di scrivere una tesina filosofica in tedesco, in polemica col condiscepolo Bratter. È pieno di fervore intellettuale, e dà vita con alcuni compagni a un circolo culturale. Legge intanto con entusiasmo i classici tedeschi, Schopenhauer, Jean Paul e, in traduzione, Turgenev e Shakespeare. È di questo periodo il primo amore per una fanciulla, Anna Herz, la ragazza ricordata in L’avvenire dei ricordi. A 17 anni, compiuti gli studi, Ettore lascia definitivamente la Germania e a Trieste si iscrive all’Istituto Superiore di Commercio «Revoltella», peraltro senza troppo entusiasmo. In realtà, le sue aspirazioni segrete sono la letteratura e un viaggio prolungato a Firenze per apprendere dal vivo la corretta lingua e pronuncia italiana. Sono i prodromi dei crucci linguistici che si porterà dietro per tutta la vita.

    Nel febbraio del 1880 inizia la commedia Ariosto Governatore; nel marzo Il primo amore; nel luglio Le Roi est mort; vive le Roi! Successivamente lavora a un’altra pièce, I due poeti. Nello stesso anno, il fallimento del padre lo costringe a impiegarsi quale corrispondente tedesco e francese presso la succursale triestina della Banca Union. Le difficoltà materiali si moltiplicano, ma non affievoliscono la sua passione per la letteratura. Il futuro autore della Coscienza di Zeno sottrae molte ore al riposo per frequentare con tutta la possibile assiduità la biblioteca civica. Legge in questo periodo classici italiani e autori francesi moderni, con una particolare attenzione per i romanzieri naturalisti. Nel febbraio del 1881 lavora a una novella dal titolo Difetto moderno.

    Scrive La storia dei miei lavori. In marzo realizza la novella I tre caratteri, intitolandola in seguito La gente superiore. Ha iniziato intanto a collaborare a L’Indipendente, il quotidiano in lingua italiana di tendenze irredentiste diretto da Luigi Cambon e Attilio Hortis, con lo pseudonimo di «E. Samigli».

    Nel 1886 muore di nefrite l’amatissimo fratello Elio: la sua perdita lascia nell’animo di Ettore un solco di amarezza profondo. Conosce in questo torno di tempo il diciannovenne pittore Umberto Veruda, appena tornato da Monaco, e stringe con lui un’amicizia fraterna. Dal 4 al 13 ottobre 1890 appare a puntate su L’Indipendente il lungo racconto L’assassinio di Via Belpoggio. Si stabilisce un forte sodalizio intellettuale e affettivo tra Schmitz e Veruda. Scrive Livia Veneziani Svevo in Vita di mio Marito che «la loro intesa spirituale fu completa e per lunghi anni vissero in profonda comprensione reciproca». Il primo aprile 1892 muore il padre. Rivede, dopo anni, la cugina diciottenne Livia Veneziani e dall’incontro nasce una tenera amicizia.

    Nello stesso anno pubblica presso l’editore Ettore Vram di Trieste il suo primo romanzo, Una vita, con lo pseudonimo di «Italo Svevo» e – curiosamente – la data 1893. In giugno riceve una lettera di elogi dallo scrittore tedesco Paul Heise, che sarà più tardi Premio Nobel. Il libro passa pressoché inosservato: una breve recensione di Domenico Oliva sul Corriere della Sera e qualche articolo distratto sulla stampa cittadina. Nell’ottobre del 1895 muore la madre, e l’amicizia con la cugina Livia si sviluppa nei termini di un grande amore. Logica conseguenza di questa passione è il fidanzamento, che avviene il 20 dicembre. Il matrimonio si celebra il 30 luglio 1896, ed Ettore va ad abitare in villa Veneziani, casa dei suoceri, continuando a mantenere i suoi tre impieghi: la banca, il lavoro notturno al Piccolo e l’insegnamento all’Istituto «Revoltella». Nel settembre 1897 nasce la figlia Letizia.

    Dal 15 giugno al 16 settembre 1898 appare a puntate su L’Indipendente il suo secondo romanzo, Senilità, che nello stesso anno uscirà in volume presso l’editore Vram, a spese dell’autore. Riceve da Paul Heise una lettera, in cui si esprime sul libro un giudizio negativo. La critica nazionale ignora il romanzo. Amareggiato, lo scrittore si immerge nella lettura di Ibsen, Dostoevskij, Tolstoj, quasi a cercarvi un risarcimento alle sue frustrazioni di autore. Nel 1899 lascia la Banca Union per entrare nella ditta del suocero Gioachino Veneziani. Le sue condizioni economiche migliorano. La sua facies ufficiale è quella del coscienzioso dirigente industriale, ma in segreto non cessa la sua attività letteraria. Nel maggio 1901 inizia i suoi viaggi di affari in Europa visitando Tolone e Londra; due anni dopo termina Un marito, la sua prima commedia di grande impegno. Nel 1904 muore l’amico pittore Umberto Veruda, modello del tormentato personaggio di Balli in Senilità.

    È dell’anno seguente l’incontro e l’amicizia con James Joyce, professore di inglese alla Berlitz School di Trieste, che gli dà lezioni private. Il rapporto tra i due scrittori diviene ben presto di stima confidenziale: Joyce gli legge i suoi lavori manoscritti; Svevo dà in lettura al futuro autore di Ulysses i suoi due romanzi pubblicati, sui quali Joyce si esprime entusiasticamente. Racconta Livia Veneziani Svevo, nel citato Vita di mio Marito: «Fra il maestro, oltremodo irregolare, ma d’altissimo ingegno (conosceva diciotto lingue tra antiche e moderne), e lo scolaro d’eccezione le lezioni si svolgevano con un andamento fuori dal comune... Si parlava di letteratura e si sfioravano mille argomenti».

    Nel 1915 l’Italia entra in guerra, e Joyce è costretto a lasciare Trieste.

    I suoceri di Svevo si trasferiscono in Inghilterra, e la fabbrica di vernici sottomarine di cui Ettore è dirigente viene chiusa. «Nell’agosto 1915 gli esperti e i tecnici militari austriaci si presentarono alla fabbrica per sequestrare macchinari e merci, pretendendo anche il segreto, gelosamente custodito, delle formule delle vernici, e minacciando Ettore d’internamento» (Livia Veneziani, op. cit.). Durante il periodo del conflitto, Svevo studia (Swift è uno degli autori maggiormente approfonditi, e pour cause), scrive e s’incontra spesso con gli amici irredentisti al Caffè Tergeste. Joyce, da Zurigo, resta in contatto epistolare con lui. Nel 1922 inizia la traduzione de L’Interpretazione dei sogni di Freud, e lavora attorno a un progetto di pace universale. È membro del comitato di salute pubblica prima dell’entrata delle truppe italiane a Trieste. Dà la sua collaborazione al giornale La Nazione, fondato in Trieste dopo il passaggio della città all’Italia.

    Da tre anni, intanto, aveva iniziato La coscienza di Zeno. Nel 1921 Joyce gli aveva chiesto, con una lettera affettuosa scritta in un italotriestino maccheronico, di fargli recapitare «un mucchio disordinato di carte» contenenti gli appunti di Ulysses: «Non posso muovermi da qui (come credevo di poter fare) prima di maggio. Infatti da mesi e mesi non vado a letto prima delle due o le tre del mattino lavorando senza tregua. Avrò presto esaurito gli appunti che portai qui con me per scrivere questi due episodi». Dopo aver rivisto Joyce a Parigi, Svevo lavora intensamente alla stesura definitiva de La coscienza di Zeno, che esce nel ’23 presso l’editore Cappelli, il primo maggio. Scarsissimi, al solito, gli echi nella stampa. Il dottor E. Weiss, al quale lo scrittore si rivolge, gli dice che non gli è possibile parlare del libro, «perché con la psicanalisi non ha nulla a che vedere».

    Nel 1924 spedisce La coscienza di Zeno a Joyce, che gli risponde con una lettera di lodi e lo consiglia di mandarla ai suoi amici critici e letterati, tra i quali i francesi Valéry Larbaud e Benjamin Crémieux. L’esito della generosa operazione di Joyce è positivo. Nel ’25 Svevo riceve la prima lettera di Larbaud, che gli fa concrete proposte per un lancio del romanzo in Francia. Nella primavera incontra a Parigi i suoi estimatori e si lega di amicizia confidenziale particolarmente con la signora Crémieux, che gli parla di Proust, autore a lui sconosciuto e del quale acquista l’opera completa. Bobi Bazlen fa conoscere a Eugenio Montale i romanzi di Svevo, e nel numero iv, novembre-dicembre 1925, della rivista L’Esame il poeta pubblica il primo dei suoi scritti sveviani. Nel 1926 escono su Le Navire d’argent (n. 9, 1 febbraio) larghi estratti delle sue opere. L’evento trascina sulla sua scia l’interesse della critica francese e italiana. Gli amici letterati milanesi, tra i quali Enrico Somarè, Giansiro Ferrata e Leo Ferrero, lo festeggiano affettuosamente, eppure l’editore Treves rifiuta la ristampa di Senilità. Svevo scrive La madre, Una burla riuscita, Vino generoso, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla.

    Nel 1927 appare l’edizione francese de La coscienza di Zeno, nella traduzione di Paul-Henri Michel. Nel marzo di quell’anno il «Convegno» di Milano ospita una sua conferenza su Joyce, e in aprile va in scena al Teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia, a Roma, il suo atto unico Terzetto spezzato.

    A Parigi, in una riunione del Pen Club, viene festeggiato insieme a Isaak Babel’ durante una cena cui partecipano i più illustri letterati francesi. Giovanni Comisso, presente alla riunione, riporta questa confidenza di Joyce: «Dicono che io abbia immortalato Svevo, ma io ho immortalato anche le chiome della signora Svevo. Erano chiome lunghe e bionde. Mia sorella che le vedeva sciolte me ne parlava. Vicino a Dublino vi è un fiume che attraversa la tintoria e le sue acque sono rossastre come quel tavolo; allora mi è piaciuto di parlare di queste due cose che si somigliano nel libro che sto scrivendo (Finnegans Wakel). La signora si chiamerà Anna Livia Plurabella».

    Nel 1928 Svevo, che nel frattempo si è profondamente appassionato per l’opera di Kafka, inizia il suo quarto e incompiuto romanzo, Il vecchione. In seguito a un incidente verificatosi l’11 settembre, lo scrittore, la cui fama tardiva ha ormai dimensioni europee, muore il giorno seguente all’ospedale di Motta di Livenza.

    M. L.

    Bibliografia critica

    Una vita è una sorta di test paradossale, di scommessa impossibile vinta contro ogni previsione. È la prova di come la forza di un romanzo possa consistere nell’intelligenza della scrittura senza passare per la cruna dell’eleganza della scrittura; di come un pensiero dinamico e un forte talento costruttivo possano servirsi senza danni di una lingua perfino approssimativa, perfino incerta – una specie di lingua di traduzione –; di come, infine, un andamento narrativo non privo di sbilenca goffaggine possa sortire effetti di notevole intensità, fino a rivelarsi come il solo, anzi l’unico modo di dar forma consentito a quel certo materiale; come la sola voce davvero inevitabile e fatale con cui quelle tali parole possano esser pronunciate. Ecco allora che la lingua di Una vita, ineguale e faticata – velocissima e diretta in molti casi, contorta e aggrovigliata in altri, contratta e quasi mùtila in altri ancora – si manifesta energicamente come voce inconfondibile del narratore, e cancella d’un colpo i suoi rapporti con la normativa letteraria coeva.

    Strumento ispido e ribelle allo stesso scrittore, questa lingua afferma la propria efficacia senza bisogno di trasgredire il codice delle Buone Maniere Letterarie contemporanee (come avrebbero fatto, per vie diversissime, un Verga e un Dossi), ma semplicemente ignorandolo. In questo senso, la prima lingua di Svevo è davvero una lingua di frontiera, uno strumento già deputato a una consapevole costruzione sperimentale.

    Una vita esce nel 1892. Una pagina di diario datata 2/10/1899, a distanza di un anno dalla pubblicazione di Senilità, appare molto ferma in proposito: «Napoleone usava notare quanto non voleva più dimenticare su un foglietto di carta che poi stracciava. Stracciate anche voi le vostre carte oh! formiche letterarie. Fate in modo che il vostro pensiero riposi sul segno grafico col quale una volta fissaste un concetto, e vi lavori intorno alterandone a piacere parte o tutto, ma non permettete che questo primo immaturo guizzo di pensiero si fissi subito e incateni ogni suo futuro svolgimento». Una dichiarazione nettamente antimpressionistica, come si vede. Un progetto che privilegia la struttura e deprime i dettagli.

    Una vita risulta la «messa in opera» di questo progetto. Non è certo un caso che il titolo dato al libro dall’autore, e cambiato dall’editore per ragioni commerciali, fosse Un inetto: un emblema già inconfondibilmente sveviano. Del romanzo a tesi d’impianto naturalistico Svevo respinge l’ideologia che marcia deterministicamente in direzione di una «verità» predeterminata (socio-ambientale o psico-patologica che sia): le sue ragioni sono piuttosto fondate sul bisogno di un’indagine, una recherche se si vuole, capace di verificare certe intuizioni flessibili sul corpo di una realtà altrettanto flessibile: in un gioco di micro e macroipotesi gestite in posizione non speculare ma dialettica.

    Positivismo volgare e istanze metafisiche, questi due moduli di assolutezza poi non così distanti e opposti tra loro come in genere si crede, gli sono estranei. L’esigenza di scientificità della ricerca sveviana, fin dai suoi inizi, e un’urgenza che oggi definiremmo totalmente «laica», nel senso che non interessano lo scrittore le scorciatoie passepartout o le formule in varia misura dogmatiche. Il suo è un eclettismo non infingardo: è l’eclettismo del saggiatore, che cerca prove ai suoi indizi in diverse direzioni (da Schopenhauer a Darwin), muovendosi appunto, sul terreno letterario, secondo quella che ho già individuato poco sopra come una disposizione di costruzione sperimentale.

    In una lettera del 16 marzo 1925 a Valéry Larbaud, Svevo scrive: «Ho riletto Senilità e vedo il libro che m’ero rassegnato a considerare assolutamente inesistente, nella luce che gli è stata data dal vostro giudizio. Ho riletto Una vita. James Joyce diceva sempre che nella penna di un uomo c’è un solo romanzo (allora egli non aveva neppure pensato a Ulysses) e che quando se ne scrivono diversi si tratta sempre del medesimo più o meno trasformato. Ma in questo caso il mio solo romanzo sarebbe Una vita». Semplicemente ironia contenuta o non piuttosto lungimirante consapevolezza della propria modernità, della propria anomalia di eslege, di autore che ha al suo attivo un solo romanzo-romanzo, ancora legato a un’ottica ottocentesca, e un’altra serie di testi (di cui almeno due di straordinario livello, Senilità e La coscienza di Zeno) che lavorano alla stessa altezza e in direzione parallela a quella delle avanguardie europee? Non è troppo difficile propendere per la seconda ipotesi. Svevo sa di aver superato la barriera del naturalismo non a colpi d’ariete ma intridendola di quell’acido corrosivo che è l’ironia: l’ironia che agisce specialmente nelle pieghe della psiche e nella corrente del tempo fluido che è lo stesso di Proust e di Joyce.

    Fin dal suo primo romanzo, il triestino percepisce di essere partecipe di una crisi: la crisi di una borghesia che in sede culturale sconta l’esaurirsi della spinta ottimistica incarnata dal positivismo, e in sede economico-politica è costretta a pagare un disagio e una serie di conflitti interni, che i diversi imperialismi europei si sforzeranno di eludere scatenando una competizione tanto serrata da concludersi con una guerra generale. Quella di Svevo è, fin dagli esordi, una percezione critica e una percezione autocritica: la sua scrittura, ancora per tanti versi così naïve, trova già in Una vita, e proprio in forza di queste doti, momenti forti di libertà e di invenzione.

    Lontano dall’esperienza estetizzante marca D’Annunzio come dal provincialismo verista, Svevo s’impegnò a fondo al suo primo romanzo, probabilmente convinto di avere in qualche modo toccato il centro nevralgico della sua ricerca. Questo centro nevralgico è la malattia: e la malattia si chiama, appunto, inettitudine. I «vinti» sveviani perseguono una sola Bildung: imparare a convivere con la propria malattia. Si tratta, a ben vedere, di un morbo che contagia inesorabilmente tutta la grande letteratura «critica» europea tra la fine del diciannovesimo e il primo trentennio del ventesimo secolo, e che ha il suo epicentro nel tramonto della Mitteleuropa. Svevo non ne è certo immune, anche per ragioni di contiguità geoculturale: solo che, a differenziare la sua cifra rispetto a quelle di altri grandi ammalati senza qualità di lingua non solo tedesca, interviene una distanza ironica sempre più ferma e sistematica, capace di mettere in discussione, interrogativamente, sperimentalmente, non solo i moduli della scrittura ma addirittura la persona prima della scrittura in quanto entità antropologica. Così, come in Svevo il tragico viene raggiunto attraverso il comico, l’estetica trapassa in antropologia.

    In Una vita questo processo soffre ancora di palesi oscillazioni. Che nella prima prova narrativa sveviana di largo respiro permanga un attaccamento all’oggetto segnato da una minuzia descrittiva e una cura dei particolari «semiologici» perfino eccessiva, sulla falsariga delle diffuse imagines naturalistiche (peraltro accettate e respinte al tempo stesso), risulta perfino inevitabile per un autore che si sia buttato a nuotare in un mare che sarà il suo, ma senza ancora conoscerne profondità e comportamenti. L’universo del protagonista Alfonso Nitti presenta quattro poli: 1, la banca; 2, casa Maller; 3, Trieste; 4, il paese d’origine. Ma si tratta di poli fluidi, in quanto esercitano il loro potere attrattivo-repulsivo soltanto in rapporto al sistema assiale decisamente labile di Alfonso. C’è già, in questo primo romanzo sveviano, l’intuizione in nuce del senso e della strategia narrativa aperta su 360° che sarà della Coscienza di Zeno. C’è già, insomma, l’urgenza (oscura quanto si voglia ma insopprimibile) della centralità di quel quadro di ferree imprevedibilità che – psicoanalisi o meno: e anzi, assai meno che più – Svevo chiama appunto coscienza.

    Ciò che sta inconsapevolmente a cuore al giovane romanziere, al di là di certe istanze scolastiche dominanti, è in realtà la sostanza non qualificabile del destino del protagonista Alfonso Nitti, e la meccanica delle motivazioni che lo determinano a livello psicologico. L’approccio a questa zona profonda si realizza, in Una vita, dentro la continua difficoltà di superare il fitto reticolo sociologico e descrittivo-ambientale di cui è intessuta la prima parte del romanzo, necessario allo scrittore (ancora imbevuto della lezione zoliana) per dare credibilità e spessore di verisimiglianza a un personaggio come Alfonso, provinciale inurbato che muove i primi passi nel mondo del lavoro all’interno della banca Maller.

    Svevo insiste nel presentare Alfonso intento ai suoi compiti d’impiegato, inquadrandolo nell’obiettivo durante i quotidiani contatti con colleghi e superiori, tra i quali spicca il bilioso Sanneo, primo involontario tramite fra il giovane e l’inaccessibile signor Maller, nella cui orbita egli sarà destinato ad entrare in positivo, essendone successivamente espulso in negativo, annichilito e dimenticato. Quello che coprirà Alfonso è nient’altro che una forma inesorabile e indifferente di oblìo sociale, vissuto all’interno di una commedia a conclusione tragica senza l’ausilio

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