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La città brucerà al tramonto
La città brucerà al tramonto
La città brucerà al tramonto
E-book347 pagine4 ore

La città brucerà al tramonto

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Info su questo ebook

Perché le bombe fanno saltare in aria importanti edifici governativi nel cuore di Londra? Perché la violenza serpeggia tra le strade? Sono passati trent’anni dalla Grande Epidemia del 2027, che ha decimato la popolazione mondiale. Ancora oggi il terrore del contagio paralizza l’Inghilterra. Ogni più lieve sintomo di malattia fa di te una minaccia agli occhi dei tuoi vicini, dei tuoi amici, persino dei tuoi familiari. Eppure la Life, la multinazionale più influente del pianeta, è riuscita a imporre rigidi controlli sanitari per tutti. E ora è pronta a celebrare un nuovo trionfo della scienza, una vera e propria rivoluzione genetica. Ma chi vuole distruggere l’ordine costituito? Chi si nasconde nell’ombra, pronto a colpire, imprevedibile e misterioso? Il suo nome è John Knox. Una figura leggendaria, e anche se da anni non si hanno più ufficialmente notizie di lui, molti pensano che sia lui il capo dei ribelli che seminano il panico in Inghilterra. E quando Tom Becker, un dipendente della Life di brillanti prospettive, riceve una notizia che cambierà radicalmente la sua vita, si troverà coinvolto nelle trame della Storia. Il destino inizia sempre con una scelta…
La città brucerà al tramonto è un romanzo adrenalinico, incalzante, avvincente, ambientato in un futuro molto verosimile: lasciatevi contagiare.

«Il genere ancora una volta è quello apocalittico, il più adatto a liberare la fantasia e a sperimentare nuovi modelli narrativi. […] Consigliato a chi ama guardare la terra dal futuro e a chi si interessa di fantaletteratura.»
la Repubblica

«Unico avvertimento per la lettura: esaurirete questo libro tutto d’un fiato, e vi affezionerete molto ad alcuni personaggi, mentre per altri proverete un odio viscerale.»
Letteraturahorror.it
Roberto Galofaro
è nato a Palermo nel 1979 e vive a Roma da quasi vent’anni. Lavora nell’editoria praticamente da sempre, è stato correttore di bozze, redattore, editor e si è occupato di produzione.
Sandro Ristori
è nato a Firenze nel 1982 e vive e lavora a Roma. Scrive, traduce, legge, impagina e immagina libri.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mag 2016
ISBN9788854196346
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    Anteprima del libro

    La città brucerà al tramonto - Roberto Galofaro

    1265

    Prima edizione ebook: maggio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9634-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Roberto Galofaro – Sandro Ristori

    La città brucerà al tramonto

    Capitolo 1

    16 luglio 2057

    L’uomo è ribellione, fantasia, violenza. Non calcolo, norma, statistica. Come vedi non sono solo. Siamo tanti, e siamo pronti. Fermati, Sanderson. Questo è il primo messaggio. Poni fine agli esperimenti, e sarà anche l’ultimo.

    JK

    Richard Stuart Sanderson ha ancora in mano il foglietto, lo esamina, lo rigira da ogni lato come a controllare che sia vera carta, che sia vero l’inchiostro.

    «JK. Non è possibile».

    Quell’uomo è morto. Non è possibile che sia ancora in giro. Eppure il biglietto è lì, tra le sue mani.

    Sanderson lo stringe tra le dita, lo chiude nel pugno e poi batte violentemente sul tavolo di teak. La tazza sulla scrivania tintinna, un rumore quasi irreale nel silenzio delle sei del mattino. La luce filtra dalle persiane abbassate dell’ufficio. La colazione è sul vassoio nero: il caffè lungo, ancora caldo, le uova strapazzate, il bacon croccante, con due macinate di pepe nero. La forchetta a sinistra, il coltello a destra.

    Aziona l’interfono. La segretaria risponde al secondo squillo, come sempre. In cinque anni di servizio, non è mai capitato che non fosse al suo posto, alle sei del mattino, o che lasciasse squillare il telefono più di tre volte.

    «Venga, signorina».

    Polly Leoncastle si passa distrattamente le mani sulla gonna per eliminare una piccola piega, invisibile a chiunque, inaccettabile per lei. Bussa una sola volta alla porta. Poi entra.

    «Dica, dottore».

    «Ha portato lei la mia colazione stamattina?»

    «Certo, dottore».

    «È successo qualcosa di strano?»

    «In che senso?»

    «Qualche cambiamento rispetto al solito, qualcosa di particolare?»

    «Nulla, dottore. Tutto come al solito».

    «Mi dica esattamente, allora, come è finita la colazione sulla mia scrivania».

    La segretaria non si scompone, né si sorprende. È abituata a rispondere a qualsiasi domanda senza esitazione.

    «Le cucine l’hanno consegnata alle cinque e quaranta precise, al solito. Il fattorino…».

    «Era uno nuovo?»

    «No, dottore. Era Frank Shaman, di turno il lunedì e il giovedì. Mi ha dato il vassoio. Io ho controllato che ci fosse tutto e l’ho congedato. Poi ho appoggiato la sua colazione sulla scrivania e sono andata a farle il caffè».

    «E cosa c’era sulla scrivania?»

    «Non c’era assolutamente nulla. La scrivania era del tutto vuota, come lei la lascia sempre, prima di tornare a casa. Perché, manca qualcosa? Se lamenta la sparizione di un qualche oggetto, la sicurezza potrà produrre subito tutti i video di sorveglianza e…».

    «No, signorina Leoncastle. Non mi preoccupo per qualcosa che non c’era più. Mi preoccupo per qualcosa che c’era».

    «Ma, dottore, non c’era nulla sulla scrivania».

    «Vada signorina. Torni al suo lavoro. Grazie. E chiuda la porta, uscendo».

    Polly Leoncastle lascia la stanza con un lieve cenno del capo. Sono venti passi esatti dalla scrivania alla porta. Ha seguito così tante volte lo stesso identico tragitto che i suoi piedi potrebbero aver scavato delle orme sul parquet.

    Quando Sanderson sente il rumore della porta che si chiude, spiega il biglietto, mezzo distrutto dalla sua rabbia. È pur sempre una prova. Alza il telefono. Compone a memoria il numero.

    «Trunch», risponde secco il capo della polizia.

    «Cosa sta succedendo?»

    «A cosa si riferisce, dottore? Non mi risulta nulla di particolare».

    «Non le ho chiesto il bollettino del traffico, Trunch. Mi spieghi solo come cazzo ha fatto questo biglietto a finire sul mio tavolo».

    «Quale biglietto, dottore?»

    «Questo biglietto che ho in mano. È firmato JK. E lei lo sa chi è JK, vero, Trunch?»

    «Temo proprio di non riuscire a seguirla, dottore. Sono le sei del mattino. Mi dia il tempo di riorganizzare le idee e…».

    «Trunch. Lei è il capo della polizia, cazzo». Batte di nuovo il pugno sulla scrivania. Questa volta il caffè si rovescia sul vassoio. «È suo dovere correre qui, immediatamente. Tra venti minuti la voglio in piedi di fronte alla mia scrivania. Voglio che entro mezz’ora al massimo lei abbia già trasmesso il biglietto alla centrale. Voglio un primo rapporto entro un’ora. E voglio sapere se c’è la minima possibilità che questo JK sia davvero quel JK».

    «Intende… John Knox?»

    «Certo. Lo stesso John Knox che secondo lei – e cito il suo rapporto – dovrebbe essere sicuramente inoffensivo, con ogni probabilità già morto. Lo stesso John Knox che non ha alcuna possibilità di attentare all’ordine costituito. Mi aveva detto che non aveva sue notizie da mesi ormai. Be’, ce l’ho io una notizia, a quanto pare. Knox si è permesso di mandarmi un messaggio. E chiunque sia in grado di lasciare un biglietto sulla mia scrivania può arrivare a me, quando vuole, in qualsiasi circostanza. Questo è un caso di sicurezza nazionale. E sarà meglio che lei faccia il suo lavoro per bene, questa volta».

    «Certo, dottore. Chiamo la centrale dei monitor, richiedo la consegna immediata dei filmati di sicurezza. Tra venti minuti sono lì».

    «Sarà meglio per lei».

    Sanderson riaggancia. Si guarda intorno. Non c’è nessuna falla nel suo sistema, ne è sicuro. Tutti i collaboratori che possono accedere all’ufficio sono professionisti di massima esperienza e di provata fiducia. Il meglio. Nessuna talpa, nessun dubbio su questo. Eppure il biglietto è lì, ed è come afferrare un fantasma.

    John Knox. Di nuovo.

    Bussano alla porta, una volta sola. «Sì?»

    «Le ricordo che alle 7:30 ha un appuntamento con Flenders per il discorso al consiglio d’amministrazione».

    «Lo so. Ma prima devo vedere Trunch, ha la priorità assoluta. Appena arriva lo faccia passare».

    «Mi permetto di rammentarle che il rettore Flenders le aveva chiesto quest’orario perché ha la lezione conclusiva all’Accademia».

    «Lo so bene, conosco i miei impegni, signorina. Flenders aspetterà».

    Un altro cenno del capo e Polly Leoncastle è fuori dalla stanza. Sanderson sospira e scuote la testa. Poi si alza di scatto e va alla finestra. Aziona l’interruttore che solleva le tapparelle. La luce piatta del mattino lo abbaglia per un attimo, ma Londra è lì, tranquilla, indaffarata, ancora assonnata, pronta al nuovo giorno.

    Capitolo 2

    16 luglio 2057

    Stretta nel solito tailleur grigio, la signorina Scrumble non sorride mai, non scambia confidenze con nessuno, non si alza mai neanche per un caffè. Eppure tutti le vogliono bene, anche se nessuno sa niente della sua vita fuori da lì, se ha dei figli, come va il suo matrimonio, come stanno i suoi genitori, sempre ammesso che siano ancora vivi. La Scrumble può avere dai cinquanta ai settant’anni. Tom sbircia da sopra la spalla, ma come sempre lei è talmente veloce ad aprire le email, digitare risposte preordinate e poi inoltrare il messaggio, che lui vede solo una sequenza di pagine che si aprono e chiudono senza sosta.

    «Buongiorno, signorina Scrumble».

    Tom dà un leggero colpo di tosse per richiamare la sua attenzione. La signorina Scrumble si limita a sollevare un sopracciglio, il suo modo di salutare, senza alzare la testa dal computer.

    «Per quanti anni ancora cercherai di strapparle un saluto, Becker? La Scrumble non saluta, la Scrumble non fa pause, la Scrumble non richiede permessi, la Scrumble morirà sulla sua scrivania, ma non prima di aver inviato una lettera di scuse al capo per non aver potuto terminare il suo ultimo lavoro».

    «Non sei per niente spiritoso, Samuelson. Non lo stia a sentire, signorina Scrumble. Samuelson ha il brutto difetto di scambiare la sua idiozia per senso dell’umorismo. Vieni, Jack, ti offro un caffè, così almeno lasci lavorare in pace la signorina Scrumble».

    Samuelson e Tom si avviano verso la macchinetta del caffè. Tutto, intorno a loro, sottolinea che è un lunedì mattina, con la stessa precisione indiscutibile di un calendario. Le occhiaie dei colleghi più giovani: lunedì mattina. La pancia gonfia di Mors, che non si perderebbe il barbecue domenicale neppure se scoppiasse la guerra: lunedì mattina. Gli sguardi severi dei caposettori e il loro attivismo frenetico e incalzante per riprendere il filo interrotto del lavoro: lunedì mattina.

    «E McCullum?». Tom si ferma davanti alla porta, sbircia la scrivania del collega, deserta.

    «È una settimana che non si vede».

    «Ma non è andato in ferie, l’avrebbero sostituito».

    «Dev’essere successo qualcosa al

    CSO

    ».

    «Impossibile, ce l’avrebbero detto».

    «Non sai mai come vanno a finire queste cose. E tu, non fare il simpatico, come va con il mal di testa?»

    «Un fine settimana perfetto, ma stamattina…».

    «Ancora quelle fitte?»

    «Eh, sì. Lungo e senza zucchero?»

    «Come sempre, grazie. E quando vai a farti controllare?»

    «Ho il

    CSO

    giovedì prossimo. Fosse per me, chiederei di spostarlo, per finire il lavoro con Bettys».

    «Il lavoro ti ucciderà, Tom, o lo farò io, se dici un’altra volta un’assurdità del genere».

    La giacca appesa all’appendiabiti, il climatizzatore rigorosamente spento, Tom inserisce la chiave nel case e accende il suo computer. Digita le tre password di accesso. Ed è nell’istante esatto in cui inizia il caricamento dell’interfaccia che arriva la fitta: un black-out, un fischio nelle orecchie e un pulsare dietro la palpebra destra. Un lungo, lunghissimo minuto di dolore, poi di nuovo niente, Tom riprende fiato, il dolore è scomparso come un incubo al mattino.

    Una scorsa veloce alle email. Due sono di Paul Bettys della Supervisione, Tom le apre subito. Sono valutazioni positive del suo operato nello smaltimento delle pratiche anagrafiche e dei finanziamenti pensionistici secondari. Già, bel colpo.

    C’è un’email che pubblicizza l’Ypnoia a un prezzo ridicolo: 25 centesimi a pillola dice l’oggetto. Dannato spam. Tom la inoltra immediatamente a Mikhail dell’ufficio Potenziamento informatico, e non risparmia l’ironia: Caro Crammer, morto di sonno, quelli del sonnifero te l’hanno fatta di nuovo, se sono riusciti ad arrivare fino al mio account. Ma non eravate intervenuti la settimana scorsa con dei nuovi filtri?.

    Poi c’è un’email del Servizio Sanitario Nazionale: è un reminder. Il Servizio ricorda a Tom Becker che giovedì prossimo è previsto il suo ricovero giornaliero per l’espletamento dei Controlli Sanitari Obbligatori. Sono già passati sei mesi… Un brivido gli corre lungo la schiena, al pensiero che per la prima volta non è in perfetta forma, alla vigilia di un controllo.

    Squilla il telefono: Bettys vuole il suo parere sui curricula per la selezione del sostituto di McCullum.

    «Ma che fine ha fatto lui? Mi ha insegnato tutto, mi ha fatto da guida qua dentro, e poi non mi viene neanche a salutare. Per quello che ne so potrebbe essere andato in pensione, oppure potrebbe essersi suicidato o potrebbe anche essersi trasferito a South Beach». Non gli riesce mai bene, di nascondere la preoccupazione con l’ironia.

    «È ancora un’informazione riservata, Becker. Sai che effetto possono avere queste notizie. È stato un brutto colpo, finora aveva superato gli esami, anche brillantemente, e non è da tutti arrivare a 65 anni senza mai un Ricovero Straordinario Curativo. Credo di poterti dire che non invecchierà al tuo fianco».

    Non gli viene in mente nulla di sensato. «Oh, mio Dio», borbotta alla fine.

    «Non farne un dramma, Tom. Siamo tutti di passaggio. La vita continua, e per te significa che ti ha passato il testimone».

    «A proposito di controlli, capo. Giovedì ho il

    CSO

    , venerdì c’è la riunione e pensavo di chiederle…».

    «Cosa? E chi l’ha fissata venerdì?»

    «Sono stato io, ma penso che non ci siano problemi se».

    «Non se ne parla, Becker. Non si scherza su queste cose. La spostiamo a giovedì prossimo. Se c’è una cosa che ho imparato in tutti questi anni è che quando c’è di mezzo un

    CSO

    è bene tenersi una settimana di tempo a disposizione, non si sa mai».

    «Be’, ma io non ho mai fallito nessun test, lei lo sa».

    «Lo so, lo so, ma su questo non si transige. L’assistenza sanitaria è la punta di diamante della nostra civiltà. È il segno che lo Stato prende sul serio la nostra salute».

    «Certo, capo, si figuri, va benissimo per giovedì prossimo. Vorrà dire che saremo ancora più pronti. Darò io la comunicazione a tutti i soggetti interessati».

    «Ottimo. Cerca di superare gli esami al meglio».

    «Come sempre. A presto».

    Tom ha ancora le dita sulla cornetta, quando piano piano, come una sadica e lenta tortura con una punta di spillo, il dolore ricomincia a scavare nel suo cervello.

    Capitolo 3

    19 luglio 2057

    «Nome e cognome, prego».

    «Tom Becker».

    «La sua tessera? Indirizzo, attuale occupazione?»

    «West Pollock Road, 42. Responsabile gestione dati della Life Incorporated».

    Tom passa la sua tessera nello scanner. Il ronzio gentile del lettore ottico trasmette al computer gli ultimi trent’anni della vita di Tom Becker, riassunti e impacchettati in un sistema binario:

    CSO

    precedenti, situazione clinica, analisi del sangue, mappatura del

    DNA

    . Le poche malattie che Tom ha avuto nel corso della sua vita scorrono sullo schermo: la gastrite a diciassette anni, la brutta tonsillite che ha rovinato due settimane della sua vita, appena assunto alla Life. Tom se li ricorda bene, quei quindici giorni a casa, con la febbre. Ricorda la paura di essere licenziato, gli sguardi di sospetto dei colleghi, appena rientrato alla scrivania, i borbottii a bassa voce dei compagni di stanza quando lo vedevano entrare, la paura con cui correvano a lavarsi le mani ogni volta che per sbaglio lo sfioravano.

    La receptionist controlla i dati. Sorride freddamente a Tom, gli indica la scala in fondo al corridoio.

    «Il dottor Lostone la sta aspettando nella sala

    F

    , secondo piano. Lo stesso dottore, nella stessa sala di sei mesi fa, vedo».

    Tom fa un breve cenno di saluto e si avvia verso la scala. Non gli sono mai piaciute le receptionist delle strutture per il controllo sanitario. Professionalmente ostili. Come se avessero sempre paura di trovarsi di fronte a un malato. Di sicuro hanno visto troppe persone entrare per un controllo e uscire scortate dal personale sanitario, chiuse in un’ambulanza, portate via in fretta, per sempre esiliate dalla gente normale.

    E non gli sono mai piaciute neppure quelle scale, il corrimano, la luce intensa e asettica. Un ambiente pensato per portarti via piano piano dalla città che vive fuori e trascinarti a ogni passo sempre più dentro a un mondo diverso, un limbo in cui non ci sono punti di riferimento, non ci sono più nomi e neppure persone, ma solo sigle, dati scientifici, analisi. Quando arrivi al secondo piano, tutto il tuo universo, le cose che fanno di te ciò che sei, sono state spazzate via dal freddo grigio delle pareti, e del tuo futuro non rimane che una semplice risposta: positivo o negativo. Se risulti negativo a tutti i test, il dottore ti sorride, ti rispedisce all’accettazione, e di nuovo fuori, agli amici, al lavoro, a casa, alla tua vita. Se sei positivo… se anche solo un test è positivo…

    «Si accomodi, signor Becker. È un piacere rivederla. Come vanno le cose alla Life?»

    «Molto bene dottore, grazie. Lavoriamo moltissimo, i turni sono allucinanti, lo stipendio sempre troppo basso. La solita storia».

    «Allora, Tom. Compiliamo i moduli. La trafila la conosce. Come sono andati questi sei mesi? Qualcosa da segnalare?»

    «Nulla di particolare, dottore. Dormo sempre troppo poco, ma immagino che neppure il sistema sanitario nazionale possa aiutarmi in questo. Dovreste convocare il presidente e costringerlo a ridurre il carico di lavoro dei suoi dipendenti».

    Il dottore ride. Gli stessi scambi di battute di sei mesi fa. La stessa risata.

    Continuano la trafila di domande. Traumi. Fratture. Ricoveri. Febbri. Digestione. Disturbi del sonno. Esposizione a malattie veneree. Assunzione di droghe. Emicranie.

    Emicranie.

    Tom risponde con un istante di ritardo. Meno di un secondo. Solo una lieve inflessione nella voce. Ma il dottor Lostone alza gli occhi dallo schermo, lo fissa, lascia che un silenzio carico di disagio scenda tra loro.

    «Ha avuto degli episodi di cefalea?»

    «Niente di preoccupante. Mi è successo un paio di volte. Forse è il poco sonno».

    «È tutto, signor Becker?».

    Tom muove le mani, si sistema i capelli. È importante, adesso, parlare con voce sicura. Non mostrare la minima incertezza.

    «Nulla, dottore. È tutto sotto controllo. Tutto come al solito».

    «Benissimo. Può passare ai laboratori per i test. Conosce la strada. Ci vediamo a fine giornata».

    Tom si alza. Non si stringono la mano.

    Nelle successive tre ore Tom si sottopone al prelievo del sangue, all’esame del capello, al controllo delle urine, della vista, dell’udito, a una

    TAC

    al cervello, a una radiografia completa degli arti. L’infermiera Withbow lo riaccompagna da Lostone.

    Tom è esausto, ma è contento che sia finita. Rimane solo l’ultimo colloquio con il dottore, il controllo dei referti, le solite raccomandazioni, e poi basta, potrà andare a casa, dimenticare per altri sei mesi la paura.

    Apre la porta, entra con un sorriso. È deciso a concludere il più in fretta possibile. Solo l’ultima mezz’ora, poi sarà libero.

    «Si sieda, Becker».

    Il sorriso gli muore sulle labbra. Il dottor Lostone non è seduto alla scrivania, non sta fissando con aria distratta le cifre sul monitor. È in piedi, con i fogli della sua

    TAC

    in mano. È serio, ha un’aria contrita.

    «Che succede?», balbetta Tom. Con la mano cerca la sedia. La stanza ha preso a muoversi. Fuori, in strada, il lamento stridulo di un’ambulanza rompe il silenzio.

    Il dottore rimane in silenzio a lungo. Quando si siede, la lentezza di ogni suo gesto è esasperante, definitiva. Sembra quasi che non sappia cosa dire. Tom non ha mai visto il dottor Lostone così. Poi inizia a parlare. Scandisce piano le parole. Punta il dito sulla

    TAC

    . C’è una specie di macchia grigia in quel nero uniforme. Una cosa piccola, tonda. Innocente. Il dottore ha preso coraggio, recita il suo copione. Ma Tom non riesce a sentire quello che dice. Perché la stanza è solo silenzio, adesso. Le parole del dottore si perdono prima di arrivare a lui. Sono solo un brusio confuso. Un fischio nelle orecchie. Non più lettere, concetti, ma solo suoni inarticolati.

    Tumore al cervello.

    Non può essere vero, è la prima cosa che riesce a pensare Tom.

    «Tom, mi sente? Non sarà un esame invasivo. Nei prossimi giorni…».

    Chiude gli occhi. Non può essere vero.

    «Signor Becker, mi sta ascoltando? È della massima importanza che lei capisca bene ciò che la aspetta nei prossimi giorni. Le prime analisi che dovremo effettuare…».

    Il suono di una sirena copre le sue parole. Lostone si alza di scatto. Quella sirena non ha mai suonato, da quando lui lavora lì. Lascia la lastra e si avvicina alla porta. «Non si muova, signor Becker. Vado a vedere cosa succede. Torno subito».

    Quanto mi resta da vivere? Anni, mesi, settimane?

    L’allarme dell’ospedale continua a suonare, fuori dallo studio del dottor Lostone. C’è trambusto, dei passi pesanti provengono dal corridoio. Ci dev’essere un pericolo, qualcosa di grosso, forse un incendio, una fuga di gas. L’istinto di sopravvivenza scuote Tom, che si alza di scatto e si affaccia alla porta. Le infermiere corrono all’impazzata, chirurghi, medici, agenti della sicurezza si affrettano, in preda al panico, da una parte all’altra del corridoio. Bisogna mantenere la calma. A che serve fuggire, quando la tua condanna è già sigillata da tre sole, squallide parole? E se fosse stato dato l’ordine di mettersi in salvo, abbandonare l’edificio? Non c’è traccia del dottor Lostone, in mezzo a quel caos. E se non ci fosse tempo per aspettarlo? È un attimo, e Tom si lancia anche lui nel corridoio, di corsa verso l’uscita, non importa dove, sa che deve scappare.

    Capitolo 4

    19 luglio 2057

    Nessuno sembra far caso a lui, ma nessuno sa che cosa sta accadendo. Una guardia si dirige alle scale di destra, poi torna indietro, verso le scale di sinistra: «Dove devo andare? Mi dite dov’è l’incendio?». A quella parola la gente inizia a urlare e la voce si ripete, isterica: «Scappate, presto».

    Tom imbocca le scale di destra, anche se non ha idea di dove possano portare. Sa solo che lo porteranno lontano da lì, dal fuoco, per strada, dove non ci sono dottori, non ci sono macchie piccole e tonde su una lastra.

    Non ha idea di cosa farà adesso. E non gli interessa. La sua mente ha smesso di funzionare nel modo in cui ha funzionato per tutta la sua vita. È un animale, adesso, un animale che fiuta il pericolo, e sa solo che deve correre, allontanarsi da quell’odore. Sente il fumo, il puzzo acre del metallo che si fonde alle fiamme. L’incendio deve essere vicino. Fa caldo. L’aria trema davanti ai suoi occhi. Tom ha paura di aprire la porta sbagliata, di ritrovarsi davanti il bagliore arancione del fuoco, di gettarsi da solo tra le braccia della morte. Forse non sarebbe neanche così sbagliato. Uccidersi, prima di farsi ammazzare lentamente dal tumore. Farsi divorare dalle fiamme, invece che dalle cellule impazzite. Battere sul tempo il destino, uscire da scena da vincitore, a suo modo. Apre una porta. L’incendio non c’è. Non c’è nessuno. Ha scelto la direzione giusta. Le urla di panico della gente sembrano più lontane, ora. Sente le guardie che sbraitano ordini, una voce metallica ripete da un megafono, appena fuori dall’ufficio: «Evacuate l’edificio. L’incendio è sotto controllo. Ripeto, evacuate l’edificio».

    Deve andare avanti. Se la sicurezza fa convergere tutti verso l’ingresso principale, lui deve andare dall’altra parte. Uscire dal retro. Sfondare una porta, se necessario, poi buttarsi in strada, mettersi a correre, non fermarsi, non fermarsi.

    Il corridoio è lungo, il linoleum è così uniforme e senza colore da sembrare infinito. La porta sulla destra è incassata nel muro e di un colore neutro, Tom non l’ha nemmeno vista, e quando la ragazza esce di corsa è come se sbucasse fuori dal nulla.

    Tom sta correndo con la forza cieca della disperazione. Non ha modo di fermarsi. Va contro la ragazza, la travolge. Cadono a terra. Tom batte la spalla sul linoleum.

    «Ventotto secondi».

    «Cosa?», chiede Tom. La spalla gli fa male. La ragazza è calma, anche se è ancora a terra. Non lo guarda. Fissa dritto davanti a sé. «Ventotto secondi», ripete sottovoce.

    «Cosa? Cosa succede tra ventotto secondi? Chi sei tu?», dice Tom, aiutandola a rialzarsi. Dallo zaino della ragazza sono cadute a terra boccette, siringhe, flaconi, si sono sparsi per tutto il pavimento. La ragazza si mette in ginocchio, striscia sul linoleum, inizia metodicamente a raccogliere tutto e a riempire di nuovo lo zaino, come se recuperare quei pochi oggetti fosse la sola cosa importante, come se non ci fosse nessuna fretta, come se il palazzo non stesse andando a fuoco.

    La precisione con cui compie ogni gesto, con cui rimette il tappo ai suoi flaconi, con cui controlla che le boccette siano sistemate alla perfezione nello zaino, ha qualcosa di affascinante, quasi soprannaturale. Quando anche l’ultima siringa è riposta nel suo astuccio la ragazza alza lo sguardo. Per la prima volta pare rendersi conto che c’è anche Tom insieme a lei.

    Tom sa che quel pensiero è del tutto assurdo adesso. Non c’è proprio tempo per una cosa del genere. Non ha idea di quanto gli resti da vivere. L’edificio è in fiamme. È la ragazza più bella che abbia mai visto.

    La sconosciuta si infila lo zaino e raggiunge a lunghi passi il corridoio. Sulla sinistra c’è un’altra porta. Tira fuori dalla tasca un mazzo di chiavi. Non ha bisogno neppure di guardare per prendere la chiave giusta. La porta si apre con un cigolio. È chiaro che nessuno la usa da tanto tempo.

    SALA CALDAIE

    , c’è scritto sopra l’intelaiatura,

    VIETATO L’INGRESSO

    .

    Tom è ancora in piedi nel corridoio, a massaggiarsi la spalla. La ragazza si ferma, si volta a guardarlo. Poi scompare.

    «Becker! Tom Becker!». La voce del dottor Lostone arriva dal fondo del corridoio e la paura è come una fitta improvvisa dritto al cuore di Tom. Non può farsi trovare lì, deve andarsene dall’ospedale. Ma ora sa che una via di fuga c’è. Spalanca la porta della sala caldaie e si precipita dentro.

    Capitolo 5

    19 luglio 2057

    «Cosa fa lei qui?».

    Il poliziotto bussa con il manganello contro il

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