Chiamatemi Frank
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Recensioni su Chiamatemi Frank
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Anteprima del libro
Chiamatemi Frank - Giorgio Mosetti
Sara
1.
Apro gli occhi e mi ritrovo ricacciato nella realtà. Fredda e misera, come la mia esistenza meschina. "Porca troia, mi dico. Poi mi passo il dito sui denti e lo annuso. Sa di marcio. Ieri sera non ho avuto neppure la forza di lavarmeli. Sono andato dritto a letto senza neanche accendere la tv. Eppure davano la partita della Juve con il Real Madrid.
Bella roba", mi dico. Ormai nemmeno il calcio riesce a darmi la scossa. È come se la mia anima si fosse appiattita e liquefatta su un lettino gelido da obitorio. Io neppure credo nell’esistenza dell’anima, figurarsi. Eppure l’immagine del lettino rende. Mi dà l’esatta misura della mia vita dissoluta.
E tutto per colpa di quella troia maledetta. È passato un mese, eppure ancora non riesco ad accettare il fatto di essere stato cornificato, licenziato e sputtanato tutto nello stesso giorno. Lei, la troia, era il mio capo al giornale locale. Io mi occupavo di cronaca cittadina. Da tre anni stavamo assieme. E credo che, a modo nostro, ci amassimo. Lei adorava il mio modo di scrivere. Diceva sempre che la mia prosa la eccitava. Era come se le mie parole le colassero sulla pelle liscia e ambrata delle cosce tornite. Se non fossi stato un uomo dall’intelletto superiore, avrei anche potuto crederci. Quello che so con certezza, invece, è che il mio grosso coso, quello sì riusciva a farla bagnare
sul serio. Fradicia, per la miseria. Almeno fino a quando non è arrivato Jack. Lo stronzo.
Jack era un uomo sulla trentina, dall’aspetto scapestrato di eterno adolescente. Portava abiti sformati firmati e i capelli lunghi. Da poco meno di un anno faceva il galoppino al giornale. Andava a tutte le conferenze stampa più barbose e inutili. Quelle a cui a nessun giornalista sano di mente sarebbe mai venuta voglia di andare. Ma faceva parte del lavoro. Eventi culturali locali spacciati per il Festival di Cannes, associazioni no-profit che illustravano il loro ultimo progetto per la salvaguardia dei gatti randagi, il politico locale che decantava i grandi risultati ottenuti vantandosi dell’asfaltatura di Parco della Vittoria o Vicolo del Molino. Una desolazione senza fine. Eppure qualcuno doveva farlo. E Jack si era reso subito disponibile. Diceva sempre che a lui bastava incontrare la gente per essere felice. Accidenti a lui. Poteva semplicemente andare al centro commerciale allora, anziché venire a rompere i coglioni al giornale. E a rubarmi Anna, soprattutto. Anna la troia.
Sta di fatto che da principio non ci avevo dato peso. Lo ammetto, ero così sicuro di me e del mio fascino che non mi era passato neppure per l’anticamera del cervello che quell’invertebrato potesse, non dico scalzarmi, ma neppure scalfire le mie monolitiche certezze. Certo, non sono uno stupido, e di certo non mi sfuggivano gli atteggiamenti teneri e zuccherosi di Anna nei suoi confronti. Ma avevo ingenuamente attribuito a tutto quel miele il disgustoso contentino che si riserva di solito agli esseri inferiori e svantaggiati, come i paralitici, i dementi o i froci. Gente malata, insomma. Invece no. Il demente in quel caso ero stato io. Tra di loro accadeva qualcosa che con me non succedeva. Qualcosa che, come ebbe a dirmi un giorno Anna poco dopo il fattaccio, le procurava veri e propri orgasmi al cervello. Io, mi disse, al massimo le bagnavo le cosce.
Tutto accadde un giorno di febbraio. Ero appena arrivato in redazione e mi ero accorto che l’ufficio di Anna era vuoto. La cosa era strana. Raramente usciva dagli schemi preordinati della sua giornata. E la mattina lei la trascorreva nel suo ufficio, tra telefonate e riunioni di redazione. Non ci diedi grande peso. Andai alla mia scrivania e mi misi a scorrere le agenzie regionali. Durante la notte non era accaduto nulla di rilevante, e quindi, salvo sorprese dell’ultimo momento, anche quella sarebbe stata una giornata di routine passata a scrivere di cose di cui non me ne fregava un cazzo.
Verso le undici, sollevai lo sguardo e mi accorsi che l’ufficio di Anna era ancora vuoto. Mi girai verso Garlatti e gli tirai un pezzo di carta stropicciata.
«Che c’è?» mi chiese infastidito.
«Che fine ha fatto Anna?»
Garlatti si voltò verso l’ufficio della mia donna come se solo allora si fosse accorto della sua assenza. Poi tornò a guardarmi e sollevò le spalle.
«E che ne so. Sarà andata a bere un caffè».
«Ma tu l’hai vista stamattina?» insistei.
«Sì, è arrivata subito dopo di me».
«Era sola?»
Garlatti mi guardò di sbieco, e sul suo volto da cinghiale comparve un ghigno.
«Che c’è? Stai diventando uno di quei gelosi paranoici?» mi provocò.
Lo mandai affanculo
lanciandogli un altro pezzo di carta a forma di aeroplano e tornai alle mie cose.
A mezzogiorno cominciai a preoccuparmi. Era l’ora della riunione di redazione, e di Anna neppure l’ombra. Decisi di scendere di sotto nel garage per vedere se c’era la macchina. Cominciavo ad essere preoccupato. Presi l’ascensore e arrivai nell’interrato. La macchina di Anna era al suo posto. Tutto in regola, insomma. A parte i finestrini. Affilai lo sguardo per vedere meglio. Erano completamente appannati. Mi avvicinai camminando sulle punte dei piedi, come nei film di spionaggio, e quando giunsi a pochi metri, cominciai a sentire dei gemiti. Sta male
, fu il primo pensiero. Come detto, ero troppo sicuro di me per poter pensare ad altro. Ma quando mi giunsero i grugniti della voce maschile, percepii una morsa alla bocca dello stomaco. Arrivato alla macchina, aprii la porta di scatto e vidi quell’idiota di Jack compresso tra il volante e il soffitto dell’abitacolo ingropparsi alla pecorina la mia Anna. Strana storia il cervello di una troia, penso ora malignamente.
Al rumore della portiera sobbalzarono e si girarono di scatto verso di me. Quando mi videro, Anna sbiancò mentre Jack si mise a tremare e istintivamente si portò una mano al volto come per proteggersi. Io non dissi nulla. Rimasi per un istante interminabile a guardarli. Fissai le chiappe bianche della mia donna velate da una lucentezza di sudore. Aveva un culo da favola, nonostante i suoi trentacinque anni. La gonna attorcigliata attorno alla vita e le mutandine all’altezza delle caviglie, ormai un groviglio di seta e tacchi. Seta. La troia quindi aveva già in programma tutto. Non indossava mai le mutandine di seta, se non quando era in vena di porcherie.
Non dissi niente. Prima di tutto la dignità, pensai. Richiusi la portiera e mi allontanai. Poco dopo Anna arrivò in redazione. Si era sistemata i capelli e il trucco, ma un leggero arrossamento delle guance tradiva quello che io interpretai come senso di colpa. Feci finta di niente.
«Scusa Frank, vieni un attimo nel mio ufficio» disse con tutta la naturalezza del mondo allontanandosi senza attendere la mia risposta «porta il pezzo» aggiunse quasi urlando, in modo da farsi sentire da tutti.
Per un istante fui tentato di fregarmene. Che vada a farsi fottere, visto che le viene così naturale. Ma poi mi resi conto che restarmene alla mia scrivania avrebbe insospettito tutti. Così mi alzai, presi il pezzo a cui stavo lavorando