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Lo strano caso Donovan
Lo strano caso Donovan
Lo strano caso Donovan
E-book316 pagine4 ore

Lo strano caso Donovan

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Info su questo ebook

Il capitano Charlie Stevenson si ritrova a gestire un caso apparentemente impossibile: Murdock Donovan, adolescente di 17 anni, muore per overdose di cocaina, ma non solo Murdock era un bravo ragazzo, sembra non esserci neppure un indizio da cui iniziare a indagare. Perchè è morto d'overdose? Chi gli ha procurato l'unica dose fatale? E cosa stanno scoprendo le due amiche per la pelle July Eister ed Alice Bartlett, coetanee di Murdock, di così incredibile ad allo stesso tempo cruciale da essere proprio loro a dare una svolta decisiva alle indagini? Riuscirà il capitano Stevenson a far luce sulla morte di Murdock Donovan e a risolvere il caso una volta per tutte?
LinguaItaliano
Data di uscita22 set 2016
ISBN9788892628892
Lo strano caso Donovan

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    Anteprima del libro

    Lo strano caso Donovan - Kate Bitrix

    Donovan

    DELLA STESSA AUTRICE:

    Collana I romantici:

    La coccarda di cuoio

    www.katebitrix.com

    Questo libro è un’opera di fantasia.

    Qualsiasi riferimento a persone, luoghi ed avvenimenti reali è puramente casuale.

    LO STRANO CASO DONOVAN

    Kate Bitrix

    IL LIBRO

    Il capitano Charlie Stevenson si ritrova a gestire un caso apparentemente impossibile: Murdok Donovan, adolescente di 17 anni, muore per overdose di cocaina, ma non solo Murdock era un bravo ragazzo, sembra non esserci neppure un indizio da cui iniziare a indagare.

    Perché è morto d’overdose?

    Chi gli ha procurato l’unica dose fatale?

    E cosa stanno scoprendo le due amiche per la pelle July Eister ed Alice Bartlett, coetanee di Murdock, di così incredibile ed allo stesso tempo cruciale da essere proprio loro a dare una svolta decisiva alle indagini?

    Riuscirà il capitano Stevenson a far luce sulla morte di Murdock Donovan e a risolvere il caso una volta per tutte?

    Azione, suspence, mistero: un susseguirsi di pathos, colpi di scena e scenari incredibili in un poliziesco avvincente e decisamente unico.

    L’AUTRICE

    Kate Bitrix è una scrittrice esordiente.

    Ha pubblicato il suo primo romanzo ("La coccarda di cuoio") nel 2016, sempre in versione ebook, una storia romantica intensa e avvincente.

    Ora si cimenta con un libro d’azione.

    Nei suoi progetti immediati un romanzo d’avventura, con il quale darà il via alla nascita di tre differenti collane: "I romantici, D’azione e Di avventura", generi sui quali le piace scrivere e cimentarsi.

    www.katebitrix.com

    "Un colpo di fortuna, ecco cosa ci voleva; anche una cosa minima, banale, ma che portasse ad una svolta.

    Già..: un colpo di fortuna. Sì, ma quale?"

    Fortland – Canada

    «E’ lui?»

    «Sì. Murdock Donovan, 17 anni, overdose. Niente buchi, tracce bianche polverose sotto le unghie della mano destra.»

    «Mmmh. Sniffata letale.»

    «Sì, ma guardalo bene: ti sembra uno che si divertiva a sniffare roba? Cazzo, Charlie, era il mio vicino: vedevo più spesso lui che i miei nipoti..! Andava bene a scuola, aveva degli amici a posto, faceva sport. Non l’ho mai visto fumare una sigaretta o tornare a casa sbronzo. Sì, ultimamente si era mollato con la sua ragazza, la figlia dell’ingegner Rollergate, quello di Toronto, ma da quello che Mrs. Donovan  raccontava a mia moglie sembra che avesse incassato il colpo bene. E invece guarda…» - il dottor Remington fece un cenno verso Murdock, senza portare a termine la frase.

    Già…: corporatura atletica, bei lineamenti. Murdock Donovan aveva davvero l’aria di un bravo ragazzo, di un giovane la cui vita sarebbe stata solo piena di successi: un buon diploma, un buon lavoro, una bella moglie, una casa grande non in affitto.

    «Ripetimi un po’ com’è andata.»

    «Semplice, è morto in ambulanza mentre lo stavano trasportando al Saint Joseph Hospital. I paramedici hanno riferito che quando sono arrivati a casa era ancora vivo ma già in coma.»

    «Chi ha chiamato l’ambulanza?»

    «Sua madre. Pare che l’abbia trovato riverso in bagno. Poverina, è ancora sotto choc… Al momento l’ho ricoverata in Medicina generale. Suo marito era in Giappone per lavoro; ci vorrà ancora un altro giorno prima che riesca a rientrare a Fortland.»

    «Mmmh…»

    Il capitano Stevenson annuì; subito Bruce Remington coprì il corpo facendo scorrere il carrello sui binari con un misto di professionalità e delicatezza.

    «Va bene; mandami i referti via fax, appena il patologo te li spedisce.»

    «Grazie, Charlie. Mrs. Donovan non si meritava una cosa del genere.»

    «E chi si merita di sopravvivere ai propri figli? Tranquillo, dai; ci penso io.»

    Ecco, a volte certe cose accadono senza che uno se ne renda veramente conto, tante piccole coincidenze che convergono una dopo l’altra come puntine di metallo risucchiate da una calamita.

    Lo strano caso Donovan cominciò così.

    1

    Il dipartimento era avvolto in un’atmosfera insolita, quasi natalizia. Charlie Stevenson parcheggiò vicino alle auto di pattuglia ed entrò nell’edificio dall’ingresso secondario.

    Dentro, lo stanzone che fungeva da open space era deserto; l’unica luce accesa illuminava l’angolo in corrispondenza della scrivania dell’agente Donjohn.  Appoggiata al tavolo, ben lontana dal computer (i ragazzi avevano imparato la lezione alla svelta dopo che uno di loro ne aveva rovesciata inavvertitamente una provocando un corto circuito) si intravvedeva una tazza di caffè fumante.

    Charlie puntò dritto nel suo ufficio in fondo e accese la luce.

    «Donjohn!»

    Ly Donjohn comparve sulla soglia immediatamente.

    «Hey, capitano..! Ha visto che ventaccio?» – stessa espressione vigile, stessa divisa ben stirata, stessi capelli pettinati bene. Di tutti i ragazzi del dipartimento era l’unico a farsi otto ore di turno di notte senza mai mostrare segni di stanchezza; un essere incredibile.

    E pure affascinante: un anno gli avevano proposto di fare un calendario e per un attimo aveva quasi accettato (lui giovane e prestante coi suoi 30 anni ed il suo metro e 85, ancora un po’ più affascinante con la divisa d’ordinanza addosso) ma tutto era finito a gambe all’aria quando la persona che avrebbe dovuto ricontattarlo era svanita nel nulla.

    Charlie lo ignorò. Andò a sedersi sulla sua poltrona di pelle e sollevò i piedi sulla scrivania; lo schienale si reclinò all’indietro con un leggero cigolìo.

    «Donjohn, abbiamo un problema. Sono passato a vedere il corpo di Murdock Donovan e la cosa non mi quadra. Visivamente Donovan è l’incarnazione del ragazzo ideale e il dottor Remington conferma che lo è sempre stato; sta di fatto che è morto d’overdose.»

    «Quindi?»

    «Quindi voglio vederci chiaro. Sappiamo che si era mollato con la sua ragazza senza troppe storie, che studiava con profitto e che faceva sport. Perciò: punto primo, piazzerò qualcuno a scuola, magari come insegnante di ginnastica.»

    «Qualcuno chi? Io ho i turni di notte, gli altri ragazzi sono già occupati. Al limite Fosterberg potrebbe fare qualcosina, ma…»

    «Manderò Laughton.»

    «Laughton?!» – Donjohn guardò Stevenson, stupito. «Laughton ha appena chiuso un caso, come può pensare di…» – ma si interruppe immediatamente nel vedere l’espressione di Charlie Stevenson. Di fronte a quello sguardo sollevò le mani in aria a mo’ di resa. – «Ok, come preferisce. Il capitano è lei, in fin dei conti.»

    «Appunto.» – ribadì Charlie, ovvio.

    Infatti. Lui era il capitano, lui era quello con le responsabilità, lui era quello che passava venti ore al giorno al dipartimento e quando rientrava finalmente a casa trovava solo un appartamento vuoto e silenzioso e la voce di Jessie Kramer che gli ricordava che non avrebbe avuto mai nessuna donna accanto finchè avesse vissuto solo per il lavoro. Una voce che tanto più la scacciava via tanto più lo rincorreva, annidata nella trama delle lenzuola, negli asciugamani, dentro il frigo; dappertutto.

    «E quando ha intenzione di chiamarlo?»

    «Appena Remington mi manderà il referto.» – Lentamente, si allungò verso il cassetto della scrivania e ne tirò fuori un sigaro.

    Donjohn rimase fermo ad osservarlo, indeciso se rimanere oltre o meno. Guardò il capitano accendersi il sigaro, aspirare ripetutamente e mandare fuori boccate di fumo biancastro. Una strana espressione cominciò a diffondersi sul suo volto, l’espressione tipica di una persona che aveva tutta l’aria di volersi rilassare e di volerlo fare da solo.

    Alla seconda boccata decise che forse era meglio andarsene; tirava un’aria strana dietro quell’espressione, aria di riflessioni antiche, di ricordi amari, di viaggi a ritroso in un passato mesto e malinconico.

    «Ok; sono di là, casomai.»

    Charlie annuì soltanto.

    «Chiudimi la porta, per favore» – aggiunse, dopo un po’.

    Ly obbedì in silenzio.

    o  б  o  б  o  б  o  б  o  б  o  б

    Charlie si stiracchiò sulla poltrona, lentamente: fuori il vento che si era alzato da un paio d’ore a quella parte cessò di botto e lenti fiocchi di neve gelida cominciarono a cadere silenziosamente sull’asfalto, ammantandolo di bianco. Piano piano iniziarono a formarsi cumuli leggeri e farinosi dappertutto: sui lampioni, sui tetti delle case, sui cestini della spazzatura. Alcuni si depositarono persino sui fari delle auto, bianchi ed impalpabili. Volteggiavano senza rumore, danzando giù nell’aria e poi depositandosi per terra, lentamente.

    A Charlie venne in mente il dottor Remington. Una volta Bruce gli aveva confidato che adorava la neve. Lui rientrava a casa dopo un lungo turno di lavoro, si infilava sotto le coperte con sua moglie, la abbracciava e stava lì a godersi quel contatto semplice e perfetto mentre fuori nevicava sempre un po’ più fitto.

    Beato lui. Beato lui che dopo un lungo turno di lavoro tornava finalmente a casa. Bruce era un uomo fortunato: una moglie sempre pronta ad aspettarlo, il profumo del caffè appena fatto al suo risveglio. Non come lui: il massimo della vita che era riuscito ad ottenere era stato rientrare al dipartimento alle prime ore del mattino e trovare qualcuno ancora di servizio.

    Non che non ci avesse mai provato. Anzi, una volta ci era andato pure vicino, ma era durato poco.

    Jessie, si chiamava, conosciuta un anno prima ad una festa e dileguata in aria un anno dopo con tutta l’amarezza ed il rimpianto che segue sempre la maggior parte delle storie naufragate.

    Jessie era davvero speciale, non era stata una di quelle storie inutili che cominciano una sera davanti a un cocktail e finiscono la mattina dopo con un mal di testa da competizione. Jessie era dolce, era sensibile, Jessie era così deliziosamente bella (pur senza saperlo) da sembrare un faro nella notte.

    Jessie non aveva dormito nel suo letto quella prima sera e nemmeno quella dopo ma alla fine sì, e ancora e poi ancora e Charlie aveva stentato a crederci: una ragazza che tenesse a lui sul serio..! Beh, era durato poco, infatti. Jessie se n’era andata via con una linea amara sulle labbra pallide: «Sai qual è il tuo problema, Charlie? Tu lavori troppo. Nessuna donna ti starà accanto veramente finchè le dedicherai un paio d’ore scarse al giorno, nessuna al mondo.»

    Come se non lo sapesse già da solo. Ma che diamine, lui era il capitano del dipartimento, mica uno qualunque. Aveva delle responsabilità pesanti: lui era quello che stava in ufficio a qualunque ora del giorno e della notte.

    Lui era quello che aveva l’ingrato compito di buttare giù dal letto i ragazzi all’alba come se fosse una cosa normalissima telefonare in una casa alle 5 di mattino.

    Lui era quello che correva da una parte all’altra del paese, faceva sopralluoghi, interrogava gente, raccoglieva prove e certo che alla fine tutto questo andava a scapito della sua vita privata, ma che colpa poteva averne? Perché, forse gli piaceva tornare a casa in un appartamento buio e silenzioso dove tutto era ancora perfettamente identico a come lo aveva lasciato (comprese le tazze sporche nel lavello) o, peggio, tutto era ancora desolatamente a posto come lo aveva riordinato? No che non gli piaceva, ma come avrebbe potuto cambiare le cose da solo?

    Charlie guardò il suo sigaro, il fumo che si sprigionava verso l’alto in delicate volute biancastre.

    A Jessie lui piaceva veramente; era la vita che faceva che non le stava bene. Per anni era stata succube di una personalità più forte di lei che l’aveva schiacciata e sottomessa (il suo ex marito, quello che lui nella sua mente chiamava sempre Ken-il-bambolotto e mai semplicemente Nick, quello che aveva investito tutto il suo patrimonio e quello di Jessie per aprire una palestra dove fare sfoggio dei suoi muscoli da Ken-l’amico-della-Barbie e che si era dileguato in aria un anno dopo con una delle Barbie-amiche-di-Ken lasciando a Jessie solo le cambiali).

    Ken era un uomo atletico, un salutista, una di quelle persone che si rifiutava di andare a cena al ristorante per non respirare nell’aria il fumo delle sigarette altrui. Ken spingeva Jessie a seguirlo in interminabili sessioni di jogging mattutino per rimanere sempre in forma, lei che invece avrebbe voluto dormire, specie nei week-end. E adesso che aveva incontrato lui, così diametralmente opposto, ecco che la cosa era naufragata comunque.

    Non che la biasimasse, per l’amor di Dio; lui per primo si sarebbe comportato nella stessa, identica maniera. Anzi, se ne sarebbe andato a gambe levate mille volte prima.

    Come quella domenica, un paio di settimane prima che se ne andasse, quando le aveva promesso di passare tutto il pomeriggio alla festa del paese. Era passato a prenderla alle due e per poco non gli era preso un colpo nel vederla.

    Era bellissima. Si era messa un vestito sbarazzino legandosi alcune ciocche di capelli con un fermaglio di brillanti e per l’occasione si era pure dipinta le labbra con quel rossetto color geranio che secondo lui aveva un potere afrodisiaco, o non si sarebbe spiegato diversamente come mai sentisse sempre così impellente l’impulso di baciarla ogni volta che se lo metteva.

    E invece, mentre stavano attraversando Fortland sulla sua Subaru, il giudice Moore lo aveva chiamato sul cellulare comunicandogli che era atteso entro un’ora al palazzo di giustizia su a Mushinglare per i documenti sul processo Farewell dell’indomani. Il sorriso luminoso di Jessie si era incrinato irrimediabilmente quando gliel’aveva detto. Aveva persino accostato lungo il marciapiede.

    «Mi dispiace tanto, Jes. Il giudice Moore è lì ad aspettarmi; se non ci vado subito non potrà più darmi retta fino al mese prossimo, ed il processo è domani. Se vuoi possiamo andare a Mushinglare insieme e poi tornare indietro per la festa.»

    Avrebbe fermato il tempo, riavvolto il grande nastro del destino e cancellato la telefonata del giudice Moore pur di non veder andare in fumo l’emozione di un pomeriggio insieme a Jessie.

    Jessie l’aveva guardato con un’espressione ovvia: «Ci vuole un’ora per arrivare a Mushinglare e un’ora per tornare indietro. Ammesso che tu riesca a recuperare quei documenti in meno di mezzora arriveremmo alla fiera dieci minuti prima dell’orario di chiusura… Non ti preoccupare, Charlie, riportami pure a casa.»

    Lo aveva detto con un tono calmo e un’espressione neutra, ma Charlie non si era lasciato ingannare dal suo ammirevole tentativo di vedere le cose da un punto di vista logico. Un po’ di esperienza in fatto di donne ne aveva, dopotutto, e sapeva perfettamente che tanto più si mostravano tolleranti tanto più volevano dire il contrario.

    «Ti prometto che quando tornerò a casa ti farò passare una serata indimenticabile.» – le aveva promesso poco più tardi, accarezzandole i capelli.

    Lei aveva sorriso sapendo che 99 su 100 sarebbe andata così (anzi, che sarebbe successo e basta, senza margine di dubbio) ma la cosa non sarebbe stata sufficiente a saldare quella prima incrinatura. In fondo Jessie era una donna, e come una donna si era immaginata un futuro a due tutto rose e fiori dove sì, lui era il capitano del dipartimento ma sicuramente sarebbe stato così abile da mettere dei paletti invalicabili attorno a loro due ed alla loro storia, nonostante tutto. Solo che non era andata proprio così.

    Il fax entrò in funzione in quel momento. Si sentì il rumore vagamente metallico di qualcosa all’interno che scattava poi un singolo foglio di carta cominciò ad uscire lentamente fino a fermarsi con un fischio acuto e prolungato.

    Charlie lasciò perdere il sigaro e andò a recuperare il foglio. Era il referto dell’autopsia di Murdock Donovan; sul margine superiore Bruce Remington lo salutava con uno svolazzo vigoroso.

    Il referto era breve, conciso e non lasciava spazio a dubbi: il ragazzo era morto per overdose di cocaina. Nei giorni successivi sarebbe arrivato anche l’esito delle analisi delle tracce di cocaina da parte del laboratorio tossicologico.

    Com’era la storia? Lui era il capitano del dipartimento e a lui spettava l’ingrato compito di svegliare la gente alle prime luci del mattino come se fosse stata una cosa normalissima?

    Erano le sei e un quarto; Charlie tolse i piedi dalla scrivania, sollevò il telefono e compose il numero di Duke Laughton.

    o  б  o  б  o  б  o  б  o  б  o  б

    «Ecco. Non avevo dubbi.» – Duke allungò la mano verso la cornetta, riluttante: solo una persona poteva permettersi di chiamare a qualunque ora del giorno e della notte, e di sicuro non poteva fare finta di ignorarlo. «Pronto? Sì; che c’è?... Adesso?!... Ok, va bene…» – riagganciò con uno scatto brusco, voltandosi verso sua moglie. – «Era il capitano… Dice che c’è un nuovo caso.»

    Fantastico. Perfetto. Davvero un bell’inizio: aveva trascorso gli ultimi due giorni inchiodato in auto a sorvegliare il testimone chiave di un processo. Aveva mangiato in auto, bevuto in auto, chiacchierato in auto, era stato pure solo zitto e basta in auto scendendo solo quattro o cinque volte per andare in bagno.

    Poi, finalmente, il testimone chiave era stato scortato al suo fottutissimo processo e lui era tornato a casa stanco, pieno di sonno ma felice perché c’era la sua famiglia, ad aspettarlo, quel bel quadretto familiare di sua moglie e di sua figlia che gli piaceva così tanto e di cui faceva parte da più di dieci anni a quella parte, ormai.

    E invece no: niente quadretto familiare, questa volta. Solo sua moglie ancora sveglia, (stranamente), rancorosa (ancor più stranamente) e bam!, un nuovo caso fresco fresco già pronto ad aspettarlo. Che bel ritorno allegro, vero?

    «Certo, il capitano.» – commentò Dana, amara; la luce nei suoi occhi fu eloquente (a proposito, un altro piccolo dettaglio: niente pigiama morbido e capelli sciolti sulle spalle, ma ancora jeans sdruciti, felpa ed una coda di cavallo come di giorno). - «Il capitano chiama e tu rispondi. Il capitano ordina di rientrare in servizio alle sei e un quarto di mattina dopo un turno di due giorni e tu scatti sull’attenti. Il capitano ti dice che non puoi permetterti di stare un po’ a casa con tua moglie e tu non fiati. Perché diavolo non ti sei sposato il capitano invece di me, allora?!»

    Sì, proprio lei, Dana Boot in Laughton, la donna di cui si era innamorato follemente dieci anni prima e che non aveva smesso mai di amare, la donna che gli aveva dato Rose e tutto l’amore possibile ed immaginabile e adesso lo guardava così, come un estraneo.

    «Dana, per favore. Non posso rifiutarmi. Quando il capitano chiama non posso scegliere se accettare o meno, devo andare e basta.»

    «Certo; non sta a te decidere. Non sta a te replicare al capitano. Non sta a te nemmeno chiamare tua moglie mentre lavori, se è per questo, cosa che il tuo compagno invece riesce sempre a fare. Proprio buffo, vero?»

    «E questo cosa c’entra, adesso?»

    «C’entra eccome. Io ero qui a preoccuparmi mentre tu eri in giro a farti ammazzare, sai?»

    «Non mi stavo facendo ammazzare. Stavamo solo sorvegliando il testimone chiave di un processo.»

    «Beh, non lo sapevo, perciò per me è lo stesso!»

    «Oh, avanti…: quante altre volte è capitato che non sono riuscito a farmi vivo? Ormai lo sai…»

    «Appunto. Quante altre volte è capitato?» – Dana sbuffò, seccata. – «Sono stanca, Duke. Non ho intenzione di passare altri dieci anni a chiedermi se sei in ufficio a stendere il rapporto o in giro a fare da bersaglio umano per i criminali. Anzi, ti dirò di più.» – piccola pausa – «Ci ho pensato: più tardi prendo Rose e torno da mia madre.»

    Una chiazza rossa le si formò velocemente sulle guance, una chiazza che le era comparsa solo un’altra volta, in precedenza, quando un ubriaco aveva messo sotto Rose di soli cinque mesi e lei gli si era rivoltata contro impazzita dalla rabbia e dal dolore.

    Duke trasecolò.

    «Cosa?! Stai scherzando..!»

    All’improvviso nella sua mente non scattò un campanello d’allarme, ne scattarono dieci, cento, mille; ne scattò uno gigantesco come una tromba bitonale, anzi no, come il richiamo di una nave da crociera suonato forte, forte, ancora un po’ più forte.

    Contemporaneamente si sentì ondeggiare. Si sentì ondeggiare ed ebbe paura, una sensazione inquieta, travolgente, un terrore irrazionale che gli scivolò improvvisamente addosso con tutto il suo carico viscoso.

    Sì, esatto, proprio lui, poliziotto con 15 anni di servizio sulle spalle e una lista interminabile di situazioni strane. Come da bambino, quando sognava di tornare a casa per scoprire con sgomento che il nome sulla porta non era più quello della sua famiglia, e per quanto si guardasse intorno e tutto sembrasse identico allo stesso tempo tutto era diverso.

    Quella non era più la sua casa, era la casa di qualcuno che aveva preso il posto della sua famiglia mentre lui era via a giocare e chissà che fine avevano fatto i suoi genitori, adesso, e se mai sarebbe riuscito a rivederli.

    «No, non sto scherzando. Ci ho pensato bene. Ci sto pensando già da un po’, in effetti.»

    «Da un po’?! Un po’ quanto?! Una settimana? Un mese? Un anno?»

    «Non usare quel tono con me: non sono uno di quei criminali a cui dai la caccia tutti i giorni per le strade!»

    «Oh, davvero?» – Duke fece un cenno in aria con un braccio, secco – «E secondo te, invece, cosa dovrei fare? Dico, ma ti rendi conto?! Dana! Cosa vuoi che cambi stare lontana da questa casa?!»

    «Un sacco di gente si prende delle pause di riflessione; non vedo perché non possiamo farlo pure noi.»

    «Non mi importa un fico secco di quello che fa la gente, a me importa di noi: siamo sposati da più di dieci anni, abbiamo una casa, una famiglia…»

    «Sì, ma tu non ci sei mai! Tu puoi anche non pensarci, ma a me pesa!»

    «E’ il mio lavoro..! Tu lo sapevi; quando ci siamo conosciuti lo facevo già, il poliziotto..!»

    «Sì, ma non sapevo cosa mi aspettava; non pensavo che sarebbe stato così..!»

    Duke serrò le labbra, amaro.

    «Qualunque altro mestiere facessi non ti andrebbe bene: se facessi il medico avrei dei turni da rispettare, se facessi il camionista pure…»

    «Tu non capisci!» – esclamò lei, glaciale.

    Duke sbuffò, infastidito.

    «Per favore, Dana. Solo questo nuovo caso. Appena avrò finito prendo un paio di giorni di ferie, ce ne andiamo da qualche parte tranquillamente solo noi due e ne riparliamo con calma. Quanto tempo vuoi che ci voglia, mica ci metterò due anni..!»

    «Certo, come no..!» – replicò lei, seccata, le guance di una tonalità scarlatta.

    Sicuro; con la fortuna che si ritrovava, il capitano sarebbe riuscito a disturbarli persino dentro l’albergo..!

    Duke sospirò, impotente.

    Fantastico. Perfetto. E adesso? Proprio un bel ritorno a casa, vero?

    Già; stupefacente.

    o  б  o  б  o  б  o  б  o  б  o  б

    «Capitano…»

    «Laughton…»

    Charlie Stevenson si raddrizzò sulla poltrona, lentamente.

    Anche il capitano non doveva aver avuto una nottata divertente. Anzi, a giudicare da quello che vedeva non si era nemmeno preso la briga di

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